04 gennaio 2011

L'alpino crepa, Bossi straparla


Mentre dilaga la retorica sull’ennesimo caduto “per la pace”, il Senatur si barcamena tra il malcontento popolare per i morti al fronte e i soliti luoghi comuni sul cosiddetto terrorismo talebano


La Lega, espressione di un territorio, il Nord, e perciò non automaticamente ascrivibile alla dicotomia destra-sinistra, è sempre stata un movimento contraddittorio, a due facce. In origine no-global ma liberista, poi secessionista ma senza disdegnare ministeri a Roma, infine federalista ma con una riforma federale tutta sulla carta, usata come merce di ricatto per tenere in piedi un Berlusconi ostaggio di Bossi. Oggi, dopo la morte del trentacinquesimo soldato italiano sul fronte dell’Afghanistan, Matteo Miotto, il grande capo leghista Umberto Bossi ha confermato la linea del doppio binario: «il problema è che quelli che non tornano dall'Afghanistan sono troppi e il Paese non è contento per questi lutti», benché, se «gli americani non fossero andati laggiù avremmo il terrorismo in tutta Europa, del resto i primi a fare atti di guerra sono stati i talebani con le Torri Gemelle». Conclusione: «Fai una guerra e in guerra muore della gente».

Un piccolo capolavoro di saggezza e ignoranza fuse assieme come in una chiacchiera da bar. Bossi, Ministro della Repubblica, è sempre quel popolano di scarpe grosse e cervello fino che fiuta gli umori popolari e li traduce col linguaggio del popolo. Ma la voce del popolo è la voce di un Dio buon padre di famiglia ma cieco e, sui fatti afgani, decisamente arrogante. Bossi dice che è meglio ritirarsi perché la guerra – lui la chiama così, visto che è una vera guerra e non un’operazione di pace – è impopolare. La sua presa di distanza dalla missione italiana a rimorchio dell’invasione Nato è frutto di un calcolo politico, non di un’idea di principio. Meglio che niente, visto che per evitare altri lutti insensati, sia di italiani mandati a combattere una fiera nazione sovrana che nulla ci ha fatto di male, sia di afgani, donne bambini e civili inermi trucidati dai bombardamenti “intelligenti”, l’unica cosa giusta da fare è andarsene, e al più presto.

Fin qui il buonsenso dell’uomo comune, che Bossi cattura con semplicità da maestro con quel suo lapalissiano e disarmante «il Paese non è contento» perché «in guerra muore della gente». Poi scatta il riflesso condizionato del luogo comune più becero e falso. Se non fossimo anche noi a dar manforte agli americani aggrediti nel cuore del loro potere finanziario, New York, secondo il Senatùr saremmo stati sommersi dalla marea nera del terrorismo islamico. Questa è una fesseria. Anzitutto, gli afgani non sono tutti terroristi, il che equivarrebbe a dire che gli italiani sono tutti dei mafiosi. Non sono terroristi neppure i Taliban, che non si macchiarono di nessun atto di terrorismo durante le occupazioni inglese e sovietica e che ora compiono atti di guerriglia contro i militari occupanti. E ciò non si configura come terrorismo, perché gli insorti non colpiscono civili innocenti in maniera indiscriminata bensì attaccano, in modo del tutto legittimo essendo dei resistenti né più né meno dei nostri partigiani nel ’43-’45, obbiettivi militari. Infine, non pago, Bossi ripete a pappagallo la sesquipedale sciocchezza secondo la quale dietro l’attentato alle Torri Gemelle ci sarebbero sempre questi Taliban, sottinteso alleati di Al Qaeda, cioè di quel fantasma di Osama Bin Laden. Peccato che non un solo afgano sia stato trovato fra gli attentatori (semmai era pieno di sauditi: col criterio bossiano avremmo dovuto invadere l’Arabia degli sceicchi Saud, se non fossero alleati storici degli Usa). Né, in quel fatidico 2001, è provato che Bin Laden fosse ancora in rapporti col governo talebano, che di Osama voleva sbarazzarsi (porgendone la testa su un piatto d’argento a Clinton che però rifiutò) perché diventato troppo ingombrante. E poi che l’Afghanistan sia la culla del terrorismo internazionale è una favoletta che la stessa Cia ha smontato calcolando che fra i circa 50mila “insurgents” ci sono appena 386 stranieri (uzbeki, ceceni, turchi).

L’alpino Matteo Miotto è caduto in una guerra d’occupazione ingiusta che stiamo perdendo. E nonostante ciò, a lui che credeva nella Patria, seppur in una Patria serva dell’America e proterva nel voler imporre ad un altro popolo il proprio sistema economico e di valori, va reso l’onore che meritano i caduti (e non il miserabile piagnisteo nazionale con cui l’Italia mammona sbrodola i feretri dei propri soldati). Il miglior modo per rispettarne la memoria, in ogni caso, resta rispettare la verità. E la verità è che noi stiamo occupando un paese in spregio al principio dell’autodeterminazione dei popoli (un tempo caro ai leghisti), e che continueremo a piangere morti poiché le pallottole finite in corpo ai nostri Miotto vanno a bersaglio grazie al diffuso appoggio che la gente afgana, quella che dovremmo “aiutare”, dà ai ribelli talebani. Altrimenti non si capisce come mai, dopo dieci anni di amorevoli “aiuti”, non siamo riusciti a piegare questi “terroristi” che dovrebbero venire isolati dalla popolazione. E invece siamo ancora lì, a perdere vite umane e a cospargerci di retorica sulla bara di un giovane, morto per una guerra sbagliata.

di Alessio Mannino

03 gennaio 2011

Le mani Usa sul petrolio russo: l’affare Khodorkovsky

Le prime pagine di mezzo mondo riportavano ieri la reazione seccata di Mosca a quello che i russi definiscono “ingerenze eccessive e intollerabili” dell’Occidente nel processo a Mikhail Khodorkovsky. Il caso è esploso dopo che l’ex-proprietario della Yukos ha ricevuto un secondo verdetto di colpevolezza, che lo condannerà probabilmente ad ulteriori anni di prigione. Di certo è curioso vedere la Casa Bianca che si sbilancia ufficialmente a favore di un semplice cittadino russo, definendosi «profondamente preoccupata» per un verdetto che suggerisce «una applicazione selettiva della giustizia» in Russia.

Hillary Clinton dice addirittura che «il processo solleva seri dubbi sul rispetto della legge in Russia», e che «il verdetto avrà un impatto negativo Mikhail Khodorkovskysulla reputazione della Russia». Anche il ministro degli esteri tedesco, Westerwelle, ha fatto sapere che considera questo verdetto «un passo indietro nella strada verso la modernizzazione del paese», dicendosi «molto preoccupato» per la nuova sentenza. Da parte sua, il presidente del comitato affari esteri del parlamento inglese, Richard Ottaway, ha detto che nel caso di Khodorkovsky non è stato seguito «un procedimento legale riconoscibile come legittimo». Ma come mai tutti si preoccupano così tanto che questo signore venga «trattato giustamente» dai tribunali russi, e soprattutto su cosa basano la loro evidente convinzione che non lo sia?

Secondo l’iconografia ufficiale, Khodorkovsky è un “self-made man” in stile occidentale che ha saputo “interpretare” al meglio i profondi cambiamenti avvenuti in Russia durante il crollo del sistema comunista. Dopo aver aperto un piccolo caffè nel 1986, nel 1988 Khodorkovsky era già al comando di un business di import-export che fatturava circa 10 milioni di dollari all’anno. Grazie a questa “solida base finanziaria”, Khodorkovsky poteva così fondare una sua banca privata, la Bank Menatep, che in pochi anni sarebbe diventata un potente strumento di traffico monetario di ogni tipo, nazionale ed internazionale. Ma Khodorkovsky non era certo un avido senza cuore, e non appena ebbe queste disponibilità finanziarie volle indirizzarne una parte verso diverse opere filantropiche, come centri di formazione per insegnanti, Yukos 2scavi archeologici, scambi culturali, e naturalmente tante scuole per bambini orfani. Conobbe così anche molti altri filantropi in tutto il mondo.

Nel frattempo il crollo del sistema aveva dato il via libera alle privatizzazioni, e nel 1996 il Group Menatep riuscì ad impadronirsi del 90% della Yukos, la società petrolifera nazionale il cui valore in quel momento aveva raggiunto – casualmente – i minimi storici. Pagata la miseria di 300 milioni di dollari, nell’arco di pochi anni la Yukos avrebbe raggiunto un valore stimato di 20 miliardi di dollari, facendo di Khodorkovsky l’uomo più ricco della Russia, e il 16° uomo più ricco del mondo, secondo la classifica di Forbes. Visto che bello, il libero mercato? Visto cosa si può fare, se davvero “hai le palle” per rischiare al momento giusto, se davvero credi alle regole del capitalismo, e sai investire oculatamente i tuoi averi? Altro che comunismo! Questa sì che è vita, questa sì che è libertà!

Ma evidentemente chi ha confezionato la leggenda di Khodorkovsky deve essersi dimenticato di qualche piccolo particolare, perchè di colpo nel 2003 ritroviamo il nostro eroe in prigione, accusato di evasione fiscale. Da quel giorno le fortune di Khodorkovsky sono finite, ed è inziato il suo calvario, che dura ancora oggi. Qualcuno sospetta che questa svolta imprevista sia stata dovuta al fatto che Khodorkovsky avesse annunciato da poco la fusione fra Yukos e Sibneft, il “braccio petrolifero” di quella che oggi è Gazprom, che nel periodo delle privatizzazioni era stata comperata per una miseria ancora maggiore – soltanto 100 milioni di dollari – da Boris Boris BerezovskijBerezovsky, il noto “rifugiato politico” russo che vive oggi sotto la protezione di Sua Maestà d’Inghilterra.

Se la fusione fosse avvenuta, il nuovo gigante petrolifero sarebbe diventato la seconda potenza mondiale nella produzione di greggio, dopo la Exxon-Mobil. E pare che Khodorkovsky in quel periodo avesse anche trattato la vendita delle sue quote di Yukos proprio alla Exxon-Mobil. Tutto questo avrebbe fatto scattare – sempre secondo i maligni – la rabbia di Putin, che sarebbe ricorso alle “vie legali“ per togliere di mezzo una volta per sempre il pericoloso Khodorkovsky, facendo saltare nel frattempo la fusione fra Yukos e Sibneft. Sarà anche un fetente, questo Putin e KhodorkovskyPutin, ma magari qualche sentimento di nazionalismo in lui sarà pure rimasto, dopotutto.

Va bene, direte voi, il ragionamento può anche stare in piedi, ma tutto questo è sufficiente a scatenare lo “sdegno” da parte di tutti i più importanti ministri degli esteri dell’Occidente, con la conseguente eco mediatica che ritroviamo oggi su tutte le testate mondiali? Teoricamente no. Centinaia di russi sono letteralmente scomparsi nel tritacarne delle lotte intestine, dal 1991 ad oggi, e nessuno se ne è mai preoccupato. Se però ci venisse la curiosità di indagare su chi possano essere stati, nel corso degli anni, i finanziatori occulti di Khodorkovsky, potremmo anche imbatterci in questa curiosa notizia: subito dopo il suo arresto, avvenuto nel 2003, tutte le azioni della Yukos in suo possesso passarono automaticamente nelle mani di un certo Jacob Rothschild, in base ad un accordo segreto che era stato stipulato in precedenza fra di loro. Avete visto che cosa può succedere, quando si frequentano i circoli dei filantropi?
di Giorgio Cattaneo

(Massimo Mazzucco, “Il mistero Khodorkovsky”, da “luogocomune.net”, ripreso da “Megachip”, www.megachip.info).

02 gennaio 2011

Palestina: riconoscimento di uno Stato

Un avvocato e autore internazionale analizza la qualità e la quantità di Stati che riconoscono la Palestina

Il 17 dicembre la Bolivia ha ufficialmente riconosciuto la Palestina con i confini che le spettavano nel 1967 (tutta la striscia di Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est).

Il riconoscimento da parte della Bolivia porta a 106 il numero degli Stati membri dell’ONU che riconoscono lo Stato della Palestina, la cui indipendenza è stata proclamata il 15 novembre 1988. Pur essendo tuttora sotto occupazione armata straniera, la Palestina possiede tutti i requisiti e criteri internazionali necessari per fregiarsi del titolo di Stato Sovrano. Nessuna porzione del territorio palestinese è considerato da alcun Paese (ad eccezione di Israele) come territorio sovrano di un altra Nazione, e persino Israele ha affermato la propria sovranità solo su una piccola porzione del territorio della Palestina, la parte est di Gerusalemme, lasciando la sovranità sul resto letteralmente e legalmente incontestata. In questo scenario può essere d’aiuto considerare la qualità e la quantità degli Stati che riconoscono la sovranità della Palestina.



Dei nove maggiori Paesi al mondo, otto (tutti eccetto gli Stati Uniti) riconoscono lo Stato della Palestina. Tra i 20 Paesi al mondo a maggior densità di popolazione, 15 (tutti eccetto Stati Uniti, Giappone, Messico, Germania e Tailandia), riconoscono la Palestina. Per contro, i 72 Paesi delle Nazioni Unite che attualmente riconoscono la Repubblica del Kossovo come Stato Indipendente, includono soltanto uno dei nove Stati maggiori (gli Stati Uniti) e solo quattro dei 20 Paesi più popolati (Stati Uniti, Giappone, Germania e Turchia).

A luglio, quando la Corte Internazionale di Giustizia stabilì che la dichiarazione unilaterale d’indipendenza del Kossovo non violava leggi internazionali perché tali leggi non si pronunciano sul tema della legalità delle dichiarazioni d’indipendenza (nel senso che nessuna dichiarazione d’indipendenza contravviene ad alcuna legge per cui sono tutte “legali” benché soggette all’accettazione politica della loro dichiarata indipendenza da parte degl altri stati sovrani), gli Stati Uniti esortarono i Paesi che non avevano ancora riconosciuto il Kossovo a farlo al più presto. Passati cinque mesi, solo altri tre Paesi ritennero opportuno farlo, Honduras, Kiribati e Tuvalu. Se la Lega degli Stati Arabi iniziasse ad esortare la minoranza degli Stati appartenenti alle Nazioni Unite che ancora non hanno riconosciuto la Palestina a farlo subito è certo che la risposta sarebbe di molto superiore (sia in qualità che in quantità) alla risposta avuta di recente dagli Stati Uniti riguardo al Kossovo. E lo dovrebbe proprio fare.

Malgrado il fatto che (secondo i miei calcoli approssimativi) i Paesi che comprendono l’80 e il 90 per cento della popolazione mondiale riconoscono lo Stato della Palestina e che soltanto tra il 10 e il 20 per cento della popolazione mondiale riconosce la Repubblica del Kossovo, per i media occidentali (in effetti anche per la maggior parte dei media non occidentali) l’indipendenza del Kossovo è cosa fatta, mentre l’indipendenza della Palestina è soltanto un’aspirazione che non potrà mai essere realizzata senza il consenso Israelo-Americano, e la gran parte dell’opinione pubblica mondiale (e, a quanto pare anche la leadership palestinese di Ramallah) è, almeno finora, stata soggetta ad un lavaggio di cervello che la fa pensare ed agire di conseguenza.

Come nella maggioranza dei casi che riguardano rapporti internazionali, non è la natura dell’atto (o del crimine) che conta, ma piuttosto chi lo fa a chi. La Palestina è stata invasa 43 anni fa, ed è ancora occupata oggi, dalle forze armate d’Israele. Quella che la maggior parte del mondo (incluse le Nazioni Unite e l’Unione Europea) ancora considerano parte della provincia serba del Kossovo è stata invasa, ed è ancora occupata adesso, 11 anni dopo, dalle forze della NATO, e la bandiera americana vi ci sventola in lungo e in largo quanto le bandiere del Kossovo, mentre la capitale, Pristina, ostenta un Bill Clinton Boulevard, con una sua enorme statua. La forza fa la legge, o perlomeno la pensano così i più forti, inclusa la maggior parte di chi decide e di chi influenza l’opinione pubblica in occidente.

Nel frattempo, mentre il perenne “processo di pace” sembra improvvisamente minacciato da pacifici ricorsi a leggi ed organizzazioni internazionali, la Camera dei Rappresentanti americana ha approvato con voto unanime una risoluzione stilata dalla American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), che invita il presidente Barack Obama a non riconoscere lo Stato della Palestina e ad opporsi a qualsiasi tentativo da parte palestinese di diventare membro delle Nazioni Unite.

In genere la politica e i media occidentali chiamano “comunità internazionale” gli Stati Uniti e qualsiasi nazione sia disposta a sostenerli pubblicamente su qualsiasi fronte, e “stati canaglia” quei Paesi che attivamente contrastano il dominio globale Israelo-Americano.

Con la sua servile sottomissione ad Israele, come ribadito ancora una volta dal fatto che non una sola voce coraggiosa si sia opposta a quest’ultima risoluzione della Camera dei Rappresentanti e dallo smacco subito dall’amministrazione Obama che aveva offerto un’enorme tangente militare e diplomatica ad Israele (e da questi rifiutata) per la sospensione di 90 giorni del suo programma illegale di colonizzazione, gli Stati Uniti si sono effettivamente autoesclusi dalla vera comunità internazionale (la stragrande maggioranza dell’umanità) e sono diventati essi stessi uno “stato canaglia”, dal momento che agiscono in costante e flagrante dispregio sia delle leggi internazionali che dei diritti umani. C’è da sperare che gli Stati Uniti possano ancora strapparsi all’abisso e ritrovare la propria indipendenza, ma tutti i segnali vanno nella direzione opposta. È una triste fine per una nazione un tempo ammirevole.

John Whitbeck, avvocato internazionale e consulente del pool palestinese nelle trattative con Israele, è autore del libro “Il mondo secondo Whitbeck”.

di John Whitbeck

04 gennaio 2011

L'alpino crepa, Bossi straparla


Mentre dilaga la retorica sull’ennesimo caduto “per la pace”, il Senatur si barcamena tra il malcontento popolare per i morti al fronte e i soliti luoghi comuni sul cosiddetto terrorismo talebano


La Lega, espressione di un territorio, il Nord, e perciò non automaticamente ascrivibile alla dicotomia destra-sinistra, è sempre stata un movimento contraddittorio, a due facce. In origine no-global ma liberista, poi secessionista ma senza disdegnare ministeri a Roma, infine federalista ma con una riforma federale tutta sulla carta, usata come merce di ricatto per tenere in piedi un Berlusconi ostaggio di Bossi. Oggi, dopo la morte del trentacinquesimo soldato italiano sul fronte dell’Afghanistan, Matteo Miotto, il grande capo leghista Umberto Bossi ha confermato la linea del doppio binario: «il problema è che quelli che non tornano dall'Afghanistan sono troppi e il Paese non è contento per questi lutti», benché, se «gli americani non fossero andati laggiù avremmo il terrorismo in tutta Europa, del resto i primi a fare atti di guerra sono stati i talebani con le Torri Gemelle». Conclusione: «Fai una guerra e in guerra muore della gente».

Un piccolo capolavoro di saggezza e ignoranza fuse assieme come in una chiacchiera da bar. Bossi, Ministro della Repubblica, è sempre quel popolano di scarpe grosse e cervello fino che fiuta gli umori popolari e li traduce col linguaggio del popolo. Ma la voce del popolo è la voce di un Dio buon padre di famiglia ma cieco e, sui fatti afgani, decisamente arrogante. Bossi dice che è meglio ritirarsi perché la guerra – lui la chiama così, visto che è una vera guerra e non un’operazione di pace – è impopolare. La sua presa di distanza dalla missione italiana a rimorchio dell’invasione Nato è frutto di un calcolo politico, non di un’idea di principio. Meglio che niente, visto che per evitare altri lutti insensati, sia di italiani mandati a combattere una fiera nazione sovrana che nulla ci ha fatto di male, sia di afgani, donne bambini e civili inermi trucidati dai bombardamenti “intelligenti”, l’unica cosa giusta da fare è andarsene, e al più presto.

Fin qui il buonsenso dell’uomo comune, che Bossi cattura con semplicità da maestro con quel suo lapalissiano e disarmante «il Paese non è contento» perché «in guerra muore della gente». Poi scatta il riflesso condizionato del luogo comune più becero e falso. Se non fossimo anche noi a dar manforte agli americani aggrediti nel cuore del loro potere finanziario, New York, secondo il Senatùr saremmo stati sommersi dalla marea nera del terrorismo islamico. Questa è una fesseria. Anzitutto, gli afgani non sono tutti terroristi, il che equivarrebbe a dire che gli italiani sono tutti dei mafiosi. Non sono terroristi neppure i Taliban, che non si macchiarono di nessun atto di terrorismo durante le occupazioni inglese e sovietica e che ora compiono atti di guerriglia contro i militari occupanti. E ciò non si configura come terrorismo, perché gli insorti non colpiscono civili innocenti in maniera indiscriminata bensì attaccano, in modo del tutto legittimo essendo dei resistenti né più né meno dei nostri partigiani nel ’43-’45, obbiettivi militari. Infine, non pago, Bossi ripete a pappagallo la sesquipedale sciocchezza secondo la quale dietro l’attentato alle Torri Gemelle ci sarebbero sempre questi Taliban, sottinteso alleati di Al Qaeda, cioè di quel fantasma di Osama Bin Laden. Peccato che non un solo afgano sia stato trovato fra gli attentatori (semmai era pieno di sauditi: col criterio bossiano avremmo dovuto invadere l’Arabia degli sceicchi Saud, se non fossero alleati storici degli Usa). Né, in quel fatidico 2001, è provato che Bin Laden fosse ancora in rapporti col governo talebano, che di Osama voleva sbarazzarsi (porgendone la testa su un piatto d’argento a Clinton che però rifiutò) perché diventato troppo ingombrante. E poi che l’Afghanistan sia la culla del terrorismo internazionale è una favoletta che la stessa Cia ha smontato calcolando che fra i circa 50mila “insurgents” ci sono appena 386 stranieri (uzbeki, ceceni, turchi).

L’alpino Matteo Miotto è caduto in una guerra d’occupazione ingiusta che stiamo perdendo. E nonostante ciò, a lui che credeva nella Patria, seppur in una Patria serva dell’America e proterva nel voler imporre ad un altro popolo il proprio sistema economico e di valori, va reso l’onore che meritano i caduti (e non il miserabile piagnisteo nazionale con cui l’Italia mammona sbrodola i feretri dei propri soldati). Il miglior modo per rispettarne la memoria, in ogni caso, resta rispettare la verità. E la verità è che noi stiamo occupando un paese in spregio al principio dell’autodeterminazione dei popoli (un tempo caro ai leghisti), e che continueremo a piangere morti poiché le pallottole finite in corpo ai nostri Miotto vanno a bersaglio grazie al diffuso appoggio che la gente afgana, quella che dovremmo “aiutare”, dà ai ribelli talebani. Altrimenti non si capisce come mai, dopo dieci anni di amorevoli “aiuti”, non siamo riusciti a piegare questi “terroristi” che dovrebbero venire isolati dalla popolazione. E invece siamo ancora lì, a perdere vite umane e a cospargerci di retorica sulla bara di un giovane, morto per una guerra sbagliata.

di Alessio Mannino

03 gennaio 2011

Le mani Usa sul petrolio russo: l’affare Khodorkovsky

Le prime pagine di mezzo mondo riportavano ieri la reazione seccata di Mosca a quello che i russi definiscono “ingerenze eccessive e intollerabili” dell’Occidente nel processo a Mikhail Khodorkovsky. Il caso è esploso dopo che l’ex-proprietario della Yukos ha ricevuto un secondo verdetto di colpevolezza, che lo condannerà probabilmente ad ulteriori anni di prigione. Di certo è curioso vedere la Casa Bianca che si sbilancia ufficialmente a favore di un semplice cittadino russo, definendosi «profondamente preoccupata» per un verdetto che suggerisce «una applicazione selettiva della giustizia» in Russia.

Hillary Clinton dice addirittura che «il processo solleva seri dubbi sul rispetto della legge in Russia», e che «il verdetto avrà un impatto negativo Mikhail Khodorkovskysulla reputazione della Russia». Anche il ministro degli esteri tedesco, Westerwelle, ha fatto sapere che considera questo verdetto «un passo indietro nella strada verso la modernizzazione del paese», dicendosi «molto preoccupato» per la nuova sentenza. Da parte sua, il presidente del comitato affari esteri del parlamento inglese, Richard Ottaway, ha detto che nel caso di Khodorkovsky non è stato seguito «un procedimento legale riconoscibile come legittimo». Ma come mai tutti si preoccupano così tanto che questo signore venga «trattato giustamente» dai tribunali russi, e soprattutto su cosa basano la loro evidente convinzione che non lo sia?

Secondo l’iconografia ufficiale, Khodorkovsky è un “self-made man” in stile occidentale che ha saputo “interpretare” al meglio i profondi cambiamenti avvenuti in Russia durante il crollo del sistema comunista. Dopo aver aperto un piccolo caffè nel 1986, nel 1988 Khodorkovsky era già al comando di un business di import-export che fatturava circa 10 milioni di dollari all’anno. Grazie a questa “solida base finanziaria”, Khodorkovsky poteva così fondare una sua banca privata, la Bank Menatep, che in pochi anni sarebbe diventata un potente strumento di traffico monetario di ogni tipo, nazionale ed internazionale. Ma Khodorkovsky non era certo un avido senza cuore, e non appena ebbe queste disponibilità finanziarie volle indirizzarne una parte verso diverse opere filantropiche, come centri di formazione per insegnanti, Yukos 2scavi archeologici, scambi culturali, e naturalmente tante scuole per bambini orfani. Conobbe così anche molti altri filantropi in tutto il mondo.

Nel frattempo il crollo del sistema aveva dato il via libera alle privatizzazioni, e nel 1996 il Group Menatep riuscì ad impadronirsi del 90% della Yukos, la società petrolifera nazionale il cui valore in quel momento aveva raggiunto – casualmente – i minimi storici. Pagata la miseria di 300 milioni di dollari, nell’arco di pochi anni la Yukos avrebbe raggiunto un valore stimato di 20 miliardi di dollari, facendo di Khodorkovsky l’uomo più ricco della Russia, e il 16° uomo più ricco del mondo, secondo la classifica di Forbes. Visto che bello, il libero mercato? Visto cosa si può fare, se davvero “hai le palle” per rischiare al momento giusto, se davvero credi alle regole del capitalismo, e sai investire oculatamente i tuoi averi? Altro che comunismo! Questa sì che è vita, questa sì che è libertà!

Ma evidentemente chi ha confezionato la leggenda di Khodorkovsky deve essersi dimenticato di qualche piccolo particolare, perchè di colpo nel 2003 ritroviamo il nostro eroe in prigione, accusato di evasione fiscale. Da quel giorno le fortune di Khodorkovsky sono finite, ed è inziato il suo calvario, che dura ancora oggi. Qualcuno sospetta che questa svolta imprevista sia stata dovuta al fatto che Khodorkovsky avesse annunciato da poco la fusione fra Yukos e Sibneft, il “braccio petrolifero” di quella che oggi è Gazprom, che nel periodo delle privatizzazioni era stata comperata per una miseria ancora maggiore – soltanto 100 milioni di dollari – da Boris Boris BerezovskijBerezovsky, il noto “rifugiato politico” russo che vive oggi sotto la protezione di Sua Maestà d’Inghilterra.

Se la fusione fosse avvenuta, il nuovo gigante petrolifero sarebbe diventato la seconda potenza mondiale nella produzione di greggio, dopo la Exxon-Mobil. E pare che Khodorkovsky in quel periodo avesse anche trattato la vendita delle sue quote di Yukos proprio alla Exxon-Mobil. Tutto questo avrebbe fatto scattare – sempre secondo i maligni – la rabbia di Putin, che sarebbe ricorso alle “vie legali“ per togliere di mezzo una volta per sempre il pericoloso Khodorkovsky, facendo saltare nel frattempo la fusione fra Yukos e Sibneft. Sarà anche un fetente, questo Putin e KhodorkovskyPutin, ma magari qualche sentimento di nazionalismo in lui sarà pure rimasto, dopotutto.

Va bene, direte voi, il ragionamento può anche stare in piedi, ma tutto questo è sufficiente a scatenare lo “sdegno” da parte di tutti i più importanti ministri degli esteri dell’Occidente, con la conseguente eco mediatica che ritroviamo oggi su tutte le testate mondiali? Teoricamente no. Centinaia di russi sono letteralmente scomparsi nel tritacarne delle lotte intestine, dal 1991 ad oggi, e nessuno se ne è mai preoccupato. Se però ci venisse la curiosità di indagare su chi possano essere stati, nel corso degli anni, i finanziatori occulti di Khodorkovsky, potremmo anche imbatterci in questa curiosa notizia: subito dopo il suo arresto, avvenuto nel 2003, tutte le azioni della Yukos in suo possesso passarono automaticamente nelle mani di un certo Jacob Rothschild, in base ad un accordo segreto che era stato stipulato in precedenza fra di loro. Avete visto che cosa può succedere, quando si frequentano i circoli dei filantropi?
di Giorgio Cattaneo

(Massimo Mazzucco, “Il mistero Khodorkovsky”, da “luogocomune.net”, ripreso da “Megachip”, www.megachip.info).

02 gennaio 2011

Palestina: riconoscimento di uno Stato

Un avvocato e autore internazionale analizza la qualità e la quantità di Stati che riconoscono la Palestina

Il 17 dicembre la Bolivia ha ufficialmente riconosciuto la Palestina con i confini che le spettavano nel 1967 (tutta la striscia di Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est).

Il riconoscimento da parte della Bolivia porta a 106 il numero degli Stati membri dell’ONU che riconoscono lo Stato della Palestina, la cui indipendenza è stata proclamata il 15 novembre 1988. Pur essendo tuttora sotto occupazione armata straniera, la Palestina possiede tutti i requisiti e criteri internazionali necessari per fregiarsi del titolo di Stato Sovrano. Nessuna porzione del territorio palestinese è considerato da alcun Paese (ad eccezione di Israele) come territorio sovrano di un altra Nazione, e persino Israele ha affermato la propria sovranità solo su una piccola porzione del territorio della Palestina, la parte est di Gerusalemme, lasciando la sovranità sul resto letteralmente e legalmente incontestata. In questo scenario può essere d’aiuto considerare la qualità e la quantità degli Stati che riconoscono la sovranità della Palestina.



Dei nove maggiori Paesi al mondo, otto (tutti eccetto gli Stati Uniti) riconoscono lo Stato della Palestina. Tra i 20 Paesi al mondo a maggior densità di popolazione, 15 (tutti eccetto Stati Uniti, Giappone, Messico, Germania e Tailandia), riconoscono la Palestina. Per contro, i 72 Paesi delle Nazioni Unite che attualmente riconoscono la Repubblica del Kossovo come Stato Indipendente, includono soltanto uno dei nove Stati maggiori (gli Stati Uniti) e solo quattro dei 20 Paesi più popolati (Stati Uniti, Giappone, Germania e Turchia).

A luglio, quando la Corte Internazionale di Giustizia stabilì che la dichiarazione unilaterale d’indipendenza del Kossovo non violava leggi internazionali perché tali leggi non si pronunciano sul tema della legalità delle dichiarazioni d’indipendenza (nel senso che nessuna dichiarazione d’indipendenza contravviene ad alcuna legge per cui sono tutte “legali” benché soggette all’accettazione politica della loro dichiarata indipendenza da parte degl altri stati sovrani), gli Stati Uniti esortarono i Paesi che non avevano ancora riconosciuto il Kossovo a farlo al più presto. Passati cinque mesi, solo altri tre Paesi ritennero opportuno farlo, Honduras, Kiribati e Tuvalu. Se la Lega degli Stati Arabi iniziasse ad esortare la minoranza degli Stati appartenenti alle Nazioni Unite che ancora non hanno riconosciuto la Palestina a farlo subito è certo che la risposta sarebbe di molto superiore (sia in qualità che in quantità) alla risposta avuta di recente dagli Stati Uniti riguardo al Kossovo. E lo dovrebbe proprio fare.

Malgrado il fatto che (secondo i miei calcoli approssimativi) i Paesi che comprendono l’80 e il 90 per cento della popolazione mondiale riconoscono lo Stato della Palestina e che soltanto tra il 10 e il 20 per cento della popolazione mondiale riconosce la Repubblica del Kossovo, per i media occidentali (in effetti anche per la maggior parte dei media non occidentali) l’indipendenza del Kossovo è cosa fatta, mentre l’indipendenza della Palestina è soltanto un’aspirazione che non potrà mai essere realizzata senza il consenso Israelo-Americano, e la gran parte dell’opinione pubblica mondiale (e, a quanto pare anche la leadership palestinese di Ramallah) è, almeno finora, stata soggetta ad un lavaggio di cervello che la fa pensare ed agire di conseguenza.

Come nella maggioranza dei casi che riguardano rapporti internazionali, non è la natura dell’atto (o del crimine) che conta, ma piuttosto chi lo fa a chi. La Palestina è stata invasa 43 anni fa, ed è ancora occupata oggi, dalle forze armate d’Israele. Quella che la maggior parte del mondo (incluse le Nazioni Unite e l’Unione Europea) ancora considerano parte della provincia serba del Kossovo è stata invasa, ed è ancora occupata adesso, 11 anni dopo, dalle forze della NATO, e la bandiera americana vi ci sventola in lungo e in largo quanto le bandiere del Kossovo, mentre la capitale, Pristina, ostenta un Bill Clinton Boulevard, con una sua enorme statua. La forza fa la legge, o perlomeno la pensano così i più forti, inclusa la maggior parte di chi decide e di chi influenza l’opinione pubblica in occidente.

Nel frattempo, mentre il perenne “processo di pace” sembra improvvisamente minacciato da pacifici ricorsi a leggi ed organizzazioni internazionali, la Camera dei Rappresentanti americana ha approvato con voto unanime una risoluzione stilata dalla American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), che invita il presidente Barack Obama a non riconoscere lo Stato della Palestina e ad opporsi a qualsiasi tentativo da parte palestinese di diventare membro delle Nazioni Unite.

In genere la politica e i media occidentali chiamano “comunità internazionale” gli Stati Uniti e qualsiasi nazione sia disposta a sostenerli pubblicamente su qualsiasi fronte, e “stati canaglia” quei Paesi che attivamente contrastano il dominio globale Israelo-Americano.

Con la sua servile sottomissione ad Israele, come ribadito ancora una volta dal fatto che non una sola voce coraggiosa si sia opposta a quest’ultima risoluzione della Camera dei Rappresentanti e dallo smacco subito dall’amministrazione Obama che aveva offerto un’enorme tangente militare e diplomatica ad Israele (e da questi rifiutata) per la sospensione di 90 giorni del suo programma illegale di colonizzazione, gli Stati Uniti si sono effettivamente autoesclusi dalla vera comunità internazionale (la stragrande maggioranza dell’umanità) e sono diventati essi stessi uno “stato canaglia”, dal momento che agiscono in costante e flagrante dispregio sia delle leggi internazionali che dei diritti umani. C’è da sperare che gli Stati Uniti possano ancora strapparsi all’abisso e ritrovare la propria indipendenza, ma tutti i segnali vanno nella direzione opposta. È una triste fine per una nazione un tempo ammirevole.

John Whitbeck, avvocato internazionale e consulente del pool palestinese nelle trattative con Israele, è autore del libro “Il mondo secondo Whitbeck”.

di John Whitbeck