07 settembre 2011

Le nazioni europee devono ripudiare il debito?




debitogomma

Sta diventando sempre più chiaro che l'economia globale (o al limite quella occidentale) è indirizzata verso un crollo rovinoso. Quasi tutti gli ultimi indicatori economici riguardanti la situazione degli Stati Uniti sono negativi. Il Regno Unito e il Giappone hanno imboccato la via dell'austerità, e i risultati che ne conseguiranno sono ampiamente prevedibili. Ma l'ammalato più grave è Eurolandia. Essa ha imposto severe misure di austerità ai cosiddetti PIIGS, il che è l'equivalente moderno dei medievali salassi di sangue. Queste nazioni sono infatti gravemente indebitate.Nel caso dell'Irlanda, che è stato uno studente modello nel perseguire i dettami dell'utopia Neoliberale, il debito pubblico si è impennato perché il governo ha deciso di farsi carico dei debiti contratti dal sistema bancario privato.

Con un incomprensibile atto di carità tutto ciò è stato fatto solamente per salvare le banche francesi e tedesche, che detenevano la gran parte degli ormai inesigibili debiti delle banche irlandesi. Per ringraziare l'Irlanda della sua generosità, la UE le ha imposto sanzioni stile Fondo Monetario.

Si presume che il governo ora debba spremere ulteriormente la popolazione al fine di ridurre il debito che ha trascinato l'Irlanda in recessione e ridotto le entrate erariali.

Se c'è una cosa sbagliata che si può fare nei confronti di un debitore è costringerlo a rinunciare a parte delle sue entrate. Ma questa è esattamente la cura medievale che l'UE prescrive alla tigre celtica. Questo vale sostanzialmente anche per gli altri Paesi dell'area Euro che si trovano in difficoltà a causa di un alto indebitamento, e se anche l'origine della difficoltà è da ricercarsi in altre cause la cura prescritta è la medesima

I PIIGS si trovano ora con le spalle al muro. L'unica cosa che possono fare è presentarsi davanti alle istituzioni europee e parlare una voce sola. Per loro si aprono tre prospettive.

La prima consiste nell'abbandono dell'euro e in un ritorno alle loro rispettive monete sovrane. Tutti i debiti sarebbero rinominati nella nuova (cioè vecchia) moneta e i Paesi potrebbero adottare tutte le politiche opportune di stimolo alla crescita e alla piena occupazione. Con il ritorno alle monete sovrane nessun governo andrebbe incontro a problemi di solvibilità del debito. Ogni Stato potrebbe suggerire a Moody's, o alla altre agenzie di rating, di andare a farsi una passeggiata se sono troppo stupide da non capire che ogni Paese che possieda moneta sovrana può sempre onorare il suo debito, infatti ogni Governo potrebbe immediatamente saldare quanto deve con la sua moneta. Tutto ciò che è necessario fare equivale all'accreditare nei conti bancari quanto dovuto grazie alle riserve e cancellare il debito.

Dato che ciò riduce gli interessi sui pagamenti avrà anche effetti deflazionistici. Comunque non esiste pressione deflazionista che non possa essere eliminata grazie ad opportune politiche fiscali di stimolo.

Vi è però un inconveniente in questa politica. I detentori del debito prezzato in euro vedranno i loro crediti rinominati nella nuova/vecchia moneta. È assai probabile che essi ricorrano davanti alla corte europea per evitare di vederli svalutati. Con ogni probabilità ciò condurrà ad un lungo tira e molla giudiziario che al limite servirà per prendere tempo. Non sono un giurista, e perciò mi risulta difficile fare previsioni sull'esito della battaglia legale, ma sospetto che i giudizi saranno sfavorevoli per i “defaulters” e che saranno imposte delle sanzioni contro di essi.

Nel frattempo le banche francesi e tedesche diventeranno insolventi, e Francia e Germania nel tentativo di salvarle si verranno a trovare nell'identica situazione nella quale si trova oggi l'Irlanda, con un gigantesco e inutile debito pubblico seguente alla nazionalizzazione delle banche private maggiormente esposte (ironicamente nel caso della Germania le banche più esposte sono già state nazionalizzate).

Forse a quel punto anche loro si accoderanno agli altri Paesi e usciranno dell'euro. All'ultimo sarà richiesto di spegnere le luci. A quel punto non rimarrà che dire addio all'euro e salutare il ritorno delle ostilità tra paesi europei, esperienza che abbiamo già vissuto e che ha condotto a due guerre mondiali.

La seconda soluzione che potrà essere presa in considerazione è quella di dichiarare bancarotta pur rimanendo nell'euro. Non c'è niente di scandaloso nel fatto che un settore privato che non è assicurato dai governi dichiari bancarotta. È sempre successo e ancora succederà. Sarà compito dei tribunali fallimentari difendere gli interessi dei creditori nei confronti dei falliti. Ad ogni modo tale soluzione non è più facilmente praticabile, dato che l'Irlanda decise a suo tempo di nazionalizzare i debiti dei banchieri privati, e sfortunatamente un default pubblico comporta molti più problemi.

Certo, anche questo non sarebbe un inedito dal punto di vista storico. Vi ricordate del fallimento della Contea di Orange in California? Il problema sorge dal momento che i creditori si aspettano che il governo riesca financo a spremere il sangue dalle arance (un'altra tecnica medievale) per pagare i debiti.

Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff argomentano giustamente nel loro libro This Time is Different, che per il resto è una lettura che ci si può anche risparmiare, che quando un Paese arriva al default, esso è sempre in qualche senso volontario. (è rimarchevole come loro non siano in grado di trovare un solo esempio di vero default di un debito realmente sovrano; vale a dire un default di un paese che detiene una propria moneta libera di fluttuare. Per quanto ne so io, ogni caso che loro identificano come fallimento di uno debito sovrano riguarda Stati che avevano ancorato le loro monete a qualche valuta straniera o avevano instaurato qualche accordo di currency board. Ma questa è materia per un altra discussione, dal momento che i paesi Ume hanno stretto tra di loro degli accordi di currency board.)

L'Irlanda può continuare per ancora qualche tempo a chiedere nuovi sacrifici alla sua popolazione.

Dopo tutto le sofferenze sono una costante nella storia del popolo irlandese.

Forse con le opportune misure d'austerità riusciremo ad approdare ad una situazione che sarà l'equivalente moderno della carestia delle patate.

I giovani stanno già emigrando in massa. I creditori possono anche chiedere che si cavi ancora più il sangue agli irlandesi, fino a quando l'isola non sarà completamente deserta. A quel punto tutto ciò che rimarrà sarà la nuda terra, con i pignoramenti che saranno iscritti nel portfolio delle banche tedesche e francesi. Non ci sono dubbi che davanti a questa prospettiva stiano già sbavando. (Chiunque sia stato in Irlanda può facilmente capire il perché.)

Personalmente ritengo che dichiarare il default restando nell'euro sia la soluzione peggiore: si andrebbe incontro a tutti gli svantaggi che si avrebbero in caso di uscita dalla moneta unica senza nessuno dei vantaggi. Per esempio, qualora qualcuno prendesse questa decisione si ritroverebbe con il grosso problema di dover operare con una moneta ipervalutata.

Se invece lasciassero l'euro potrebbero almeno fare delle svalutazioni competitive che gli permetterebbero di difendersi dagli esportatori tedeschi. C'è da attendersi che a quel punto i tedeschi reagiscano intentando una causa davanti alle autorità di giustizia europee, e che esse gli diano ragione. Se un Paese è avviato al default è meglio che si prepari ad abbandonare anche l'UE in toto, oltre che il Sistema Monetario, se vuole difendere l'economia interna.

L'ultima opzione che rimane ai PIIGS è quella di avviare una forte azione comune per riformare radicalmente l'attuale Unione Monetaria. I debiti devono essere ristrutturati e svalutati. L'eventuale default e l'uscita dall'Unione Monetaria possono sempre essere agitati come uno spauracchio sul tavolo delle contrattazioni, ma possono essere incisivi come arma di ricatto solo se minacciati in massa dai paesi ad alto rischio.

Dovrebbe essere chiaro sia ai creditori che ai debitori che raggiungere un accordo comune è la migliore soluzione per entrambe le parti.

Le banche europee sono ormai ampiamente bollite. Non solo hanno acquistato ingenti quantità di titoli tossici americani, ma si sono impegnate in prima persona nella creazione di spazzatura finanziaria. E sono tutte indebitate l'una con l'altra con titoli tossici.

Come i colossi bancari USA loro sono “too big to fail”, ergo, per dirla con le parole di Bill Black, sono “istituzioni sistematicamente dannose”.

Ciò significa che esse devono essere decisamente “dissolte”, ridotte nelle dimensioni quando non direttamente chiuse, e gli attivi e i passivi ridistribuiti presso istituzioni più piccole.

L'intricata maglia di titoli tossici per i quali le banche sono vicendevolmente indebitate deve essere dipanata e la sua dimensione ridotta.

( E i banchieri devono essere incarcerati. Sospetto che la principale ragione per la quale le banche non sono ancora fallite risieda nel fatto che i governi sono coscienti che ciò scoperchierebbe le massicce irregolarità che spalancherebbero a molti le porte della prigione. E non è vero che le banche sono troppo grandi per fallire, quanto piuttosto che è troppo grande la dimensione della loro fraudolenza. Un qualsiasi onesto investigatore che varcasse la soglia di Goldman Sachs, tanto per fare un esempio a caso, non potrebbe andarsene senza spiccare qualche migliaio di avvisi di garanzia nei confronti dei responsabili della tesoreria passati, presenti e futuri.)

È giunta l'ora di ammettere che il destino dell'Unione Monetaria Europea era segnato. In tempi non sospetti, a metà anni '90, ero stato facile profeta nel dire che la prima seria crisi finanziaria l'avrebbe spazzata via.

E ora che siamo dentro quella crisi è il momento di guardare in faccia la realtà.

I debiti devono essere cancellati e un nuovo sistema fiscale deve essere creato. Come ho già detto molte volte, la situazione dei membri dell'Ume è paragonabile a quella degli stati federali americani, ma senza una Washington che interviene nei periodi di crisi. I buoi si stanno facendo condurre al macello. Abbiamo davanti a noi un'unica strada percorribile, se ci interessa il futuro dell'Unione Europea. Oltre a ristrutturare il debito l'Unione Europea deve dotarsi di un istituto fiscale della forza e della dimensione del Tesoro statunitense.

di Randall Wray


Fonte: http://neweconomicperspectives.blogspot.com/2011/06/should-european-nations-repudiate-debt.html.

06 settembre 2011

Italia e banche: l'onestà non paga




C’è un filo sottile che lega la crisi dei mercati a quella italiana: chi sgarra non paga mai e il conto viene sempre presentato a chi rispetta le regole ed è in buone condizioni finanziarie.

Prendiamo i mercati: sono state le grandi banche americane ma anche europee a provocare la crisi del 2008 adottando politiche di investimento (subprime) altamente speculative, rischiosissime, incompatibili con i criteri della buona gestione a cui una grande banca dovrebbe sempre attenersi. Risultato: il tracollo del 2008. Cos’è successo nel frattempo? Che le stesse grandi banche hanno impedito, con il loro potere di lobby, vere riforme e una chiara separazione di ruoli tra banche d’affari e banche commerciali. Hanno beneficiato un paio d’anni abbondanti di ripresa e ora siamo daccapo. Si scopre che le grandi banche non sono così solide e che l’andazzo non è cambiato.

Chi paga? Le piccole banche, d’affari o commerciali, che hanno i conti a posto, il giusto profilo di rischio, un rapporto fiduciario consolidato con i clienti; pagano perché vengono vessate da nuove norme assurde, imposte dalle grandi banche, e perché subiscono senza colpa una crisi che trova origine proprio nel loro settore.

E l’Italia? Lo spettacolo sulla manovra a cui assistiamo in questi giorni è indecoroso, non solo per i continui cambiamenti di rotta ma per la natura profondamente immorale e ingiusta di gran parte dei provvedimenti. Pubblicare online i redditi di tutti é un incitamento alla delazione semplicemente inaccettabile, in quanto incivile, diseducativo e dunque incompatibile con un Paese moderno. Come primo passo il governo dovrebbe tagliare i fondi a chi li riceve in eccesso e li spreca, ma anche a chi gode di benefici oggi ingiustificati. Prima riforma: la Sicilia, pozzo senza fine ed esempio di malgoverno. Non viene mai toccata dai provvedimenti, perché ragione a statuo speciale. Ma anche il Trentino Alto Adige e la Valle d’Aosta, che non sprecano, ma che beneficiano di trattamenti fiscali e trasferimenti di denaro pubblico ormai ingiustificati. Se gli italiani devono soffrire, tutti devono contribuire. Anche queste regioni, a cominciare dalla Sicilia perché incassa molto e spreca tutto, ma chiedendo sacrifici anche alle altre due regioni in nome della solidarietà e nella consapevolezza che le regioni debbano diventare tutte uguali.

Invece: questo governo, che ha perso il filo con i propri elettori e con la propria identità, inventa balzelli strani, si puniscono tutti i comuni senza differenziare tra quelli in buone condizioni finanziarie e quelli che sprecano, si sbanda su prelievi Irpef, riforma delle pensioni, trasferimenti agli enti locali, si punta sulla delazione e magari domani sul condono. Risutato, come per le banche: chi già paga ed è un buon cittadino viene ulteriormente vessato, chi sgarra, chi elude la legge, chi evade ha molte più chances di farla franca. E non soffre, contribuisce marginalmente al risanamento del Paese

Io la chiamo ingiustizia. E con l’ingustizia non si risolvono i problemi… O no?
di Marcello Foa

05 settembre 2011

La guerra segreta dell'Inghilterra all'Italia

a guerra segreta dell'Inghilterra all'Italia
(11:00)
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La Gran Bretagna ha avuto un'influenza enorme sulla storia italiana, sull'economia del nostro Paese e sulle vicende politiche interne, almeno a partire dal Risorgimento. Si può dire che il rapporto strettissimo e spesso di dipendenza dell'Italia dalla Gran Bretagna sia iniziato con la nascita dello Stato Unitario nel 1861, e con l'Impresa dei Mille naturalmente è iniziato un anno prima. L'idea di uno Stato Unitario aveva radici interne, ma il progetto subì un'accelerazione quando gli inglesi capirono che attraverso l'apertura del Canale di Suez, progettata dai francesi, l'Italia sarebbe diventata una postazione strategicamente importantissima e quindi mettere le mani sul nostro paese, controllarlo politicamente, e spesso anche militarmente, avrebbe garantito agli inglesi il controllo anche delle rotte commerciali dal Mediterraneo all'estremo Oriente. E quindi la Gran Bretagna diede un colpo di acceleratore al progetto di unità nazionale
dell'Italia, finanziando e sostenendo in tutti i modi l'impresa Garibaldina.

Giovanni Fasanella

Intervista a Giovanni Fasanella, giornalista e co-autore de "Il golpe inglese":

150 anni di Unità condizionata
Dalla nascita dello Stato Unitario in poi l'Inghilterra ha sempre avuto un ruolo fondamentale nelle nostre vicende politiche interne e in tutti i passaggi cruciali della storia italiana. L'ha avuto quando Mussolini e il Fascismo presero il potere, grazie anche all'appoggio dei conservatori inglesi; lo ha avuto anche durante il ventennio fascista controllando e condizionando le scelte di una parte, quella più anglofila del regime; l'ha avuto nella caduta poi di Mussolini,
organizzando il colpo di stato del 25 luglio; l'ha avuto durante la guerra, nella lotta contro i nazisti e la Repubblica sociale durante l' intero arco della Guerra Fredda e lo ha avuto anche dopo, perché c'è lo zampino inglese anche in molte delle vicende che hanno segnato la storia italiana dell' ultimo ventennio.
Gli inglesi hanno, nel corso dei 150 anni di storia unitaria, costruito delle loro quinte colonne interne attraverso le quali hanno condizionato il corso della politica italiana; avevano un' influenza enorme nel mondo dell'informazione, nel mondo della cultura e dell'industria editoriale, della diplomazia, degli apparati, quindi dentro le nostre Forze Armate e gli stessi Servizi Segreti Italiani, nelle organizzazioni sindacali, nella politica italiana. In tutti questi ambienti gli inglesi avevano costruito una sorta di loro partito che in qualche modo ubbidiva agli ordini di Londra o comunque era particolarmente sensibile agli input che partivano dalla Gran Bretagna.
Ci sono state anche delle fasi caratterizzate da aspri conflitti tra Italia e Gran Bretagna. Questo è successo tutte le volte che l'Italia ha tentato di emanciparsi dai vincoli che derivavano dall'esito della Seconda Guerra Mondiale, perché per i britannici, a differenza degli americani, l'Italia non era un paese che si era liberato dal nazi-fascismo combattendo al fianco degli eserciti alleati, ma era un paese sconfitto in guerra e quindi soggetto alle leggi dei paesi vincitori.



Enrico Mattei e Aldo Moro
Secondo la dottrina britannica, elaborata da Churchill già nella fase finale della Seconda Guerra Mondiale e formalizzata subito dopo, c'erano tre cose che l'Italia non poteva assolutamente fare. La prima: avere, costruire un sistema politico compiutamente democratico, cioè con l'alternarsi al governo di maggioranza e opposizione, per la presenza di un partito comunista, che era il più forte del mondo occidentale; la seconda era pensare autonomamente a una politica della sicurezza; e la terza cosa, la più importante che l'Italia non poteva fare, secondo la dottrina di Churchill, era avere una politica estera autonoma basata su un proprio interesse nazionale.
Ogni mossa di politica estera del nostro governo doveva essere concordata con gli inglesi e avere il visto britannico.
Quando l'Italia, nel tentativo di emanciparsi da questa condizione di dipendenza, ha tentato di bypassare quelle regole, sono nati i conflitti più duri con gli inglesi. Fra i tanti personaggi della politica italiana del Secondo Dopoguerra che hanno incarnato un'idea nazionale dell'Italia, cioè di un paese che pur appartenendo ad un sistema di alleanze politico-militare internazionale, qual era l'Alleanza Atlantica alla Nato, non rinunciava ad una propria linea di politica estera autonoma nell'ambito più naturale, che era quello del Mediterraneo.
Tra questi personaggi io vorrei ricordarne due, in particolare Enrico Mattei, che attraverso la sua politica energetica contribuì a fare dell'Italia una delle potenze economiche mondiali, e il suo successore Aldo Moro. Entrambi erano considerati dai britannici dei nemici mortali, dei nemici degli interessi inglesi da eliminare con ogni mezzo.
Enrico Mattei morì in un incidente aereo provocato da un sabotaggio e qualche decennio dopo Aldo Moro morì assassinato dalle Brigate Rosse.
America e Inghilterra non avevano la stessa visione del problema italiano, per gli americani eravamo il paese in cui sviluppare il sistema democratico, per gli inglesi invece il sistema democratico doveva rimanere un sistema sostanzialmente chiuso.
In passaggi delicati della nostra storia, in passaggi anche drammatici, come a cavallo tra il '69 e il 1970, quando Junio Valerio Borghese progettava con l'aiuto inglese un colpo di stato in Italia, gli americani si opposero. E la stessa cosa gli americani fecero quando nella seconda metà degli anni 70, si pose il problema dell'ingresso del partito comunista nel governo italiano. Per gli americani il problema poteva essere superato limitando all'Italia la possibilità di accesso ai segreti Nato più sensibili, per l'Inghilterra invece il problema doveva essere risolto in modo più radicale, addirittura attraverso un golpe che avevano progettato e organizzato nei minimi particolari per un anno intero e che poi lasciarono cadere perché, come dicono gli stessi documenti desecretati della diplomazia britannica, il governo inglese optò per, parole testuali, l'appoggio a una diversa azione eversiva.

di Giovanni Fasanella

07 settembre 2011

Le nazioni europee devono ripudiare il debito?




debitogomma

Sta diventando sempre più chiaro che l'economia globale (o al limite quella occidentale) è indirizzata verso un crollo rovinoso. Quasi tutti gli ultimi indicatori economici riguardanti la situazione degli Stati Uniti sono negativi. Il Regno Unito e il Giappone hanno imboccato la via dell'austerità, e i risultati che ne conseguiranno sono ampiamente prevedibili. Ma l'ammalato più grave è Eurolandia. Essa ha imposto severe misure di austerità ai cosiddetti PIIGS, il che è l'equivalente moderno dei medievali salassi di sangue. Queste nazioni sono infatti gravemente indebitate.Nel caso dell'Irlanda, che è stato uno studente modello nel perseguire i dettami dell'utopia Neoliberale, il debito pubblico si è impennato perché il governo ha deciso di farsi carico dei debiti contratti dal sistema bancario privato.

Con un incomprensibile atto di carità tutto ciò è stato fatto solamente per salvare le banche francesi e tedesche, che detenevano la gran parte degli ormai inesigibili debiti delle banche irlandesi. Per ringraziare l'Irlanda della sua generosità, la UE le ha imposto sanzioni stile Fondo Monetario.

Si presume che il governo ora debba spremere ulteriormente la popolazione al fine di ridurre il debito che ha trascinato l'Irlanda in recessione e ridotto le entrate erariali.

Se c'è una cosa sbagliata che si può fare nei confronti di un debitore è costringerlo a rinunciare a parte delle sue entrate. Ma questa è esattamente la cura medievale che l'UE prescrive alla tigre celtica. Questo vale sostanzialmente anche per gli altri Paesi dell'area Euro che si trovano in difficoltà a causa di un alto indebitamento, e se anche l'origine della difficoltà è da ricercarsi in altre cause la cura prescritta è la medesima

I PIIGS si trovano ora con le spalle al muro. L'unica cosa che possono fare è presentarsi davanti alle istituzioni europee e parlare una voce sola. Per loro si aprono tre prospettive.

La prima consiste nell'abbandono dell'euro e in un ritorno alle loro rispettive monete sovrane. Tutti i debiti sarebbero rinominati nella nuova (cioè vecchia) moneta e i Paesi potrebbero adottare tutte le politiche opportune di stimolo alla crescita e alla piena occupazione. Con il ritorno alle monete sovrane nessun governo andrebbe incontro a problemi di solvibilità del debito. Ogni Stato potrebbe suggerire a Moody's, o alla altre agenzie di rating, di andare a farsi una passeggiata se sono troppo stupide da non capire che ogni Paese che possieda moneta sovrana può sempre onorare il suo debito, infatti ogni Governo potrebbe immediatamente saldare quanto deve con la sua moneta. Tutto ciò che è necessario fare equivale all'accreditare nei conti bancari quanto dovuto grazie alle riserve e cancellare il debito.

Dato che ciò riduce gli interessi sui pagamenti avrà anche effetti deflazionistici. Comunque non esiste pressione deflazionista che non possa essere eliminata grazie ad opportune politiche fiscali di stimolo.

Vi è però un inconveniente in questa politica. I detentori del debito prezzato in euro vedranno i loro crediti rinominati nella nuova/vecchia moneta. È assai probabile che essi ricorrano davanti alla corte europea per evitare di vederli svalutati. Con ogni probabilità ciò condurrà ad un lungo tira e molla giudiziario che al limite servirà per prendere tempo. Non sono un giurista, e perciò mi risulta difficile fare previsioni sull'esito della battaglia legale, ma sospetto che i giudizi saranno sfavorevoli per i “defaulters” e che saranno imposte delle sanzioni contro di essi.

Nel frattempo le banche francesi e tedesche diventeranno insolventi, e Francia e Germania nel tentativo di salvarle si verranno a trovare nell'identica situazione nella quale si trova oggi l'Irlanda, con un gigantesco e inutile debito pubblico seguente alla nazionalizzazione delle banche private maggiormente esposte (ironicamente nel caso della Germania le banche più esposte sono già state nazionalizzate).

Forse a quel punto anche loro si accoderanno agli altri Paesi e usciranno dell'euro. All'ultimo sarà richiesto di spegnere le luci. A quel punto non rimarrà che dire addio all'euro e salutare il ritorno delle ostilità tra paesi europei, esperienza che abbiamo già vissuto e che ha condotto a due guerre mondiali.

La seconda soluzione che potrà essere presa in considerazione è quella di dichiarare bancarotta pur rimanendo nell'euro. Non c'è niente di scandaloso nel fatto che un settore privato che non è assicurato dai governi dichiari bancarotta. È sempre successo e ancora succederà. Sarà compito dei tribunali fallimentari difendere gli interessi dei creditori nei confronti dei falliti. Ad ogni modo tale soluzione non è più facilmente praticabile, dato che l'Irlanda decise a suo tempo di nazionalizzare i debiti dei banchieri privati, e sfortunatamente un default pubblico comporta molti più problemi.

Certo, anche questo non sarebbe un inedito dal punto di vista storico. Vi ricordate del fallimento della Contea di Orange in California? Il problema sorge dal momento che i creditori si aspettano che il governo riesca financo a spremere il sangue dalle arance (un'altra tecnica medievale) per pagare i debiti.

Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff argomentano giustamente nel loro libro This Time is Different, che per il resto è una lettura che ci si può anche risparmiare, che quando un Paese arriva al default, esso è sempre in qualche senso volontario. (è rimarchevole come loro non siano in grado di trovare un solo esempio di vero default di un debito realmente sovrano; vale a dire un default di un paese che detiene una propria moneta libera di fluttuare. Per quanto ne so io, ogni caso che loro identificano come fallimento di uno debito sovrano riguarda Stati che avevano ancorato le loro monete a qualche valuta straniera o avevano instaurato qualche accordo di currency board. Ma questa è materia per un altra discussione, dal momento che i paesi Ume hanno stretto tra di loro degli accordi di currency board.)

L'Irlanda può continuare per ancora qualche tempo a chiedere nuovi sacrifici alla sua popolazione.

Dopo tutto le sofferenze sono una costante nella storia del popolo irlandese.

Forse con le opportune misure d'austerità riusciremo ad approdare ad una situazione che sarà l'equivalente moderno della carestia delle patate.

I giovani stanno già emigrando in massa. I creditori possono anche chiedere che si cavi ancora più il sangue agli irlandesi, fino a quando l'isola non sarà completamente deserta. A quel punto tutto ciò che rimarrà sarà la nuda terra, con i pignoramenti che saranno iscritti nel portfolio delle banche tedesche e francesi. Non ci sono dubbi che davanti a questa prospettiva stiano già sbavando. (Chiunque sia stato in Irlanda può facilmente capire il perché.)

Personalmente ritengo che dichiarare il default restando nell'euro sia la soluzione peggiore: si andrebbe incontro a tutti gli svantaggi che si avrebbero in caso di uscita dalla moneta unica senza nessuno dei vantaggi. Per esempio, qualora qualcuno prendesse questa decisione si ritroverebbe con il grosso problema di dover operare con una moneta ipervalutata.

Se invece lasciassero l'euro potrebbero almeno fare delle svalutazioni competitive che gli permetterebbero di difendersi dagli esportatori tedeschi. C'è da attendersi che a quel punto i tedeschi reagiscano intentando una causa davanti alle autorità di giustizia europee, e che esse gli diano ragione. Se un Paese è avviato al default è meglio che si prepari ad abbandonare anche l'UE in toto, oltre che il Sistema Monetario, se vuole difendere l'economia interna.

L'ultima opzione che rimane ai PIIGS è quella di avviare una forte azione comune per riformare radicalmente l'attuale Unione Monetaria. I debiti devono essere ristrutturati e svalutati. L'eventuale default e l'uscita dall'Unione Monetaria possono sempre essere agitati come uno spauracchio sul tavolo delle contrattazioni, ma possono essere incisivi come arma di ricatto solo se minacciati in massa dai paesi ad alto rischio.

Dovrebbe essere chiaro sia ai creditori che ai debitori che raggiungere un accordo comune è la migliore soluzione per entrambe le parti.

Le banche europee sono ormai ampiamente bollite. Non solo hanno acquistato ingenti quantità di titoli tossici americani, ma si sono impegnate in prima persona nella creazione di spazzatura finanziaria. E sono tutte indebitate l'una con l'altra con titoli tossici.

Come i colossi bancari USA loro sono “too big to fail”, ergo, per dirla con le parole di Bill Black, sono “istituzioni sistematicamente dannose”.

Ciò significa che esse devono essere decisamente “dissolte”, ridotte nelle dimensioni quando non direttamente chiuse, e gli attivi e i passivi ridistribuiti presso istituzioni più piccole.

L'intricata maglia di titoli tossici per i quali le banche sono vicendevolmente indebitate deve essere dipanata e la sua dimensione ridotta.

( E i banchieri devono essere incarcerati. Sospetto che la principale ragione per la quale le banche non sono ancora fallite risieda nel fatto che i governi sono coscienti che ciò scoperchierebbe le massicce irregolarità che spalancherebbero a molti le porte della prigione. E non è vero che le banche sono troppo grandi per fallire, quanto piuttosto che è troppo grande la dimensione della loro fraudolenza. Un qualsiasi onesto investigatore che varcasse la soglia di Goldman Sachs, tanto per fare un esempio a caso, non potrebbe andarsene senza spiccare qualche migliaio di avvisi di garanzia nei confronti dei responsabili della tesoreria passati, presenti e futuri.)

È giunta l'ora di ammettere che il destino dell'Unione Monetaria Europea era segnato. In tempi non sospetti, a metà anni '90, ero stato facile profeta nel dire che la prima seria crisi finanziaria l'avrebbe spazzata via.

E ora che siamo dentro quella crisi è il momento di guardare in faccia la realtà.

I debiti devono essere cancellati e un nuovo sistema fiscale deve essere creato. Come ho già detto molte volte, la situazione dei membri dell'Ume è paragonabile a quella degli stati federali americani, ma senza una Washington che interviene nei periodi di crisi. I buoi si stanno facendo condurre al macello. Abbiamo davanti a noi un'unica strada percorribile, se ci interessa il futuro dell'Unione Europea. Oltre a ristrutturare il debito l'Unione Europea deve dotarsi di un istituto fiscale della forza e della dimensione del Tesoro statunitense.

di Randall Wray


Fonte: http://neweconomicperspectives.blogspot.com/2011/06/should-european-nations-repudiate-debt.html.

06 settembre 2011

Italia e banche: l'onestà non paga




C’è un filo sottile che lega la crisi dei mercati a quella italiana: chi sgarra non paga mai e il conto viene sempre presentato a chi rispetta le regole ed è in buone condizioni finanziarie.

Prendiamo i mercati: sono state le grandi banche americane ma anche europee a provocare la crisi del 2008 adottando politiche di investimento (subprime) altamente speculative, rischiosissime, incompatibili con i criteri della buona gestione a cui una grande banca dovrebbe sempre attenersi. Risultato: il tracollo del 2008. Cos’è successo nel frattempo? Che le stesse grandi banche hanno impedito, con il loro potere di lobby, vere riforme e una chiara separazione di ruoli tra banche d’affari e banche commerciali. Hanno beneficiato un paio d’anni abbondanti di ripresa e ora siamo daccapo. Si scopre che le grandi banche non sono così solide e che l’andazzo non è cambiato.

Chi paga? Le piccole banche, d’affari o commerciali, che hanno i conti a posto, il giusto profilo di rischio, un rapporto fiduciario consolidato con i clienti; pagano perché vengono vessate da nuove norme assurde, imposte dalle grandi banche, e perché subiscono senza colpa una crisi che trova origine proprio nel loro settore.

E l’Italia? Lo spettacolo sulla manovra a cui assistiamo in questi giorni è indecoroso, non solo per i continui cambiamenti di rotta ma per la natura profondamente immorale e ingiusta di gran parte dei provvedimenti. Pubblicare online i redditi di tutti é un incitamento alla delazione semplicemente inaccettabile, in quanto incivile, diseducativo e dunque incompatibile con un Paese moderno. Come primo passo il governo dovrebbe tagliare i fondi a chi li riceve in eccesso e li spreca, ma anche a chi gode di benefici oggi ingiustificati. Prima riforma: la Sicilia, pozzo senza fine ed esempio di malgoverno. Non viene mai toccata dai provvedimenti, perché ragione a statuo speciale. Ma anche il Trentino Alto Adige e la Valle d’Aosta, che non sprecano, ma che beneficiano di trattamenti fiscali e trasferimenti di denaro pubblico ormai ingiustificati. Se gli italiani devono soffrire, tutti devono contribuire. Anche queste regioni, a cominciare dalla Sicilia perché incassa molto e spreca tutto, ma chiedendo sacrifici anche alle altre due regioni in nome della solidarietà e nella consapevolezza che le regioni debbano diventare tutte uguali.

Invece: questo governo, che ha perso il filo con i propri elettori e con la propria identità, inventa balzelli strani, si puniscono tutti i comuni senza differenziare tra quelli in buone condizioni finanziarie e quelli che sprecano, si sbanda su prelievi Irpef, riforma delle pensioni, trasferimenti agli enti locali, si punta sulla delazione e magari domani sul condono. Risutato, come per le banche: chi già paga ed è un buon cittadino viene ulteriormente vessato, chi sgarra, chi elude la legge, chi evade ha molte più chances di farla franca. E non soffre, contribuisce marginalmente al risanamento del Paese

Io la chiamo ingiustizia. E con l’ingustizia non si risolvono i problemi… O no?
di Marcello Foa

05 settembre 2011

La guerra segreta dell'Inghilterra all'Italia

a guerra segreta dell'Inghilterra all'Italia
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La Gran Bretagna ha avuto un'influenza enorme sulla storia italiana, sull'economia del nostro Paese e sulle vicende politiche interne, almeno a partire dal Risorgimento. Si può dire che il rapporto strettissimo e spesso di dipendenza dell'Italia dalla Gran Bretagna sia iniziato con la nascita dello Stato Unitario nel 1861, e con l'Impresa dei Mille naturalmente è iniziato un anno prima. L'idea di uno Stato Unitario aveva radici interne, ma il progetto subì un'accelerazione quando gli inglesi capirono che attraverso l'apertura del Canale di Suez, progettata dai francesi, l'Italia sarebbe diventata una postazione strategicamente importantissima e quindi mettere le mani sul nostro paese, controllarlo politicamente, e spesso anche militarmente, avrebbe garantito agli inglesi il controllo anche delle rotte commerciali dal Mediterraneo all'estremo Oriente. E quindi la Gran Bretagna diede un colpo di acceleratore al progetto di unità nazionale
dell'Italia, finanziando e sostenendo in tutti i modi l'impresa Garibaldina.

Giovanni Fasanella

Intervista a Giovanni Fasanella, giornalista e co-autore de "Il golpe inglese":

150 anni di Unità condizionata
Dalla nascita dello Stato Unitario in poi l'Inghilterra ha sempre avuto un ruolo fondamentale nelle nostre vicende politiche interne e in tutti i passaggi cruciali della storia italiana. L'ha avuto quando Mussolini e il Fascismo presero il potere, grazie anche all'appoggio dei conservatori inglesi; lo ha avuto anche durante il ventennio fascista controllando e condizionando le scelte di una parte, quella più anglofila del regime; l'ha avuto nella caduta poi di Mussolini,
organizzando il colpo di stato del 25 luglio; l'ha avuto durante la guerra, nella lotta contro i nazisti e la Repubblica sociale durante l' intero arco della Guerra Fredda e lo ha avuto anche dopo, perché c'è lo zampino inglese anche in molte delle vicende che hanno segnato la storia italiana dell' ultimo ventennio.
Gli inglesi hanno, nel corso dei 150 anni di storia unitaria, costruito delle loro quinte colonne interne attraverso le quali hanno condizionato il corso della politica italiana; avevano un' influenza enorme nel mondo dell'informazione, nel mondo della cultura e dell'industria editoriale, della diplomazia, degli apparati, quindi dentro le nostre Forze Armate e gli stessi Servizi Segreti Italiani, nelle organizzazioni sindacali, nella politica italiana. In tutti questi ambienti gli inglesi avevano costruito una sorta di loro partito che in qualche modo ubbidiva agli ordini di Londra o comunque era particolarmente sensibile agli input che partivano dalla Gran Bretagna.
Ci sono state anche delle fasi caratterizzate da aspri conflitti tra Italia e Gran Bretagna. Questo è successo tutte le volte che l'Italia ha tentato di emanciparsi dai vincoli che derivavano dall'esito della Seconda Guerra Mondiale, perché per i britannici, a differenza degli americani, l'Italia non era un paese che si era liberato dal nazi-fascismo combattendo al fianco degli eserciti alleati, ma era un paese sconfitto in guerra e quindi soggetto alle leggi dei paesi vincitori.



Enrico Mattei e Aldo Moro
Secondo la dottrina britannica, elaborata da Churchill già nella fase finale della Seconda Guerra Mondiale e formalizzata subito dopo, c'erano tre cose che l'Italia non poteva assolutamente fare. La prima: avere, costruire un sistema politico compiutamente democratico, cioè con l'alternarsi al governo di maggioranza e opposizione, per la presenza di un partito comunista, che era il più forte del mondo occidentale; la seconda era pensare autonomamente a una politica della sicurezza; e la terza cosa, la più importante che l'Italia non poteva fare, secondo la dottrina di Churchill, era avere una politica estera autonoma basata su un proprio interesse nazionale.
Ogni mossa di politica estera del nostro governo doveva essere concordata con gli inglesi e avere il visto britannico.
Quando l'Italia, nel tentativo di emanciparsi da questa condizione di dipendenza, ha tentato di bypassare quelle regole, sono nati i conflitti più duri con gli inglesi. Fra i tanti personaggi della politica italiana del Secondo Dopoguerra che hanno incarnato un'idea nazionale dell'Italia, cioè di un paese che pur appartenendo ad un sistema di alleanze politico-militare internazionale, qual era l'Alleanza Atlantica alla Nato, non rinunciava ad una propria linea di politica estera autonoma nell'ambito più naturale, che era quello del Mediterraneo.
Tra questi personaggi io vorrei ricordarne due, in particolare Enrico Mattei, che attraverso la sua politica energetica contribuì a fare dell'Italia una delle potenze economiche mondiali, e il suo successore Aldo Moro. Entrambi erano considerati dai britannici dei nemici mortali, dei nemici degli interessi inglesi da eliminare con ogni mezzo.
Enrico Mattei morì in un incidente aereo provocato da un sabotaggio e qualche decennio dopo Aldo Moro morì assassinato dalle Brigate Rosse.
America e Inghilterra non avevano la stessa visione del problema italiano, per gli americani eravamo il paese in cui sviluppare il sistema democratico, per gli inglesi invece il sistema democratico doveva rimanere un sistema sostanzialmente chiuso.
In passaggi delicati della nostra storia, in passaggi anche drammatici, come a cavallo tra il '69 e il 1970, quando Junio Valerio Borghese progettava con l'aiuto inglese un colpo di stato in Italia, gli americani si opposero. E la stessa cosa gli americani fecero quando nella seconda metà degli anni 70, si pose il problema dell'ingresso del partito comunista nel governo italiano. Per gli americani il problema poteva essere superato limitando all'Italia la possibilità di accesso ai segreti Nato più sensibili, per l'Inghilterra invece il problema doveva essere risolto in modo più radicale, addirittura attraverso un golpe che avevano progettato e organizzato nei minimi particolari per un anno intero e che poi lasciarono cadere perché, come dicono gli stessi documenti desecretati della diplomazia britannica, il governo inglese optò per, parole testuali, l'appoggio a una diversa azione eversiva.

di Giovanni Fasanella