04 ottobre 2011

Servi dell'Impero




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Dieci anni fa, di questi tempi, le parole d'ordine imposte dalla giaculatoria massmediale alla opinione del pubblico erano due. Dopo l'11 settembre, si diceva, il mondo non sarebbe stato «mai più come prima»: l'Occidente era stato ferito al cuore e avrebbe dovuto, di lì in poi, fronteggiare la tentacolare minaccia di un estremismo islamico che rischiava di metterlo in ginocchio. E per questo - ecco il secondo slogan - era venuto il momento del «siamo tutti americani», ovvero della solidarietà incondizionata con Washington, riassurta, a solo dodici anni dal crollo del muro di Berlino, al ruolo di baluardo del Mondo Libero contro l'Asse del Male, gli Stati canaglia e i loro sgherri, votati all'odio perché invidiosi del livello di vita e di ricchezza raggiunto dagli Usa e dai loro più fedeli alleati. Un'invidia che, non si mancava di aggiungere, si nascondeva dietro le invettive contro l'empietà e l'arroganza dei nemici dell'islam. Fummo tra i pochi, allora e dopo, che cercarono di opporre al frastuono della propaganda la voce critica della ragione, proponendo argomenti invece di proclami. Dicemmo chiaramente - chi vuole, può sincerarsene leggendo due libri (entrambi editi da Laterza) come il nostro Contro l'americanismo e La paura e l'arroganza curato da Franco Cardini - che, nei suoi tratti essenziali, la dinamica politica, economica e culturale del mondo non sarebbe stata modificata dall'attacco aereo alle Torri gemelle: la scalata all'egemonia planetaria degli Stati Uniti, in atto ormai da un abbondante decennio, ne avrebbe semmai tratto un ulteriore impulso; l'Europa avrebbe accentuato la già marcata sudditanza ai voleri d'oltre Atlantico, rinunciando a qualsiasi iniziativa indipendente; la tanto temuta propagazione di sentimenti antiamericani nell'ex Terzo mondo non ci sarebbe stata; il mondo islamico non avrebbe imboccato la via del radicalismo oltranzista. E, soprattutto, l'infiltrazione dell'american way of life, con il suo carico di precetti individualistici, materialistici e cosmopoliti, negli anfratti dell'immaginario collettivo delle popolazioni di ogni angolo del globo non solo non sarebbe rallentata ma avrebbe tratto nuova linfa dalla vittimizzazione degli States che gli attentati di New York e di Washington favorivano: rappresentare il paese della più potente, spietata e attiva macchina da guerra esistente nei panni del gigante buono e vulnerabile vigliaccamente colpito dai malvagi era un'arma formidabile per rafforzarne il mito e creare, sulla base della compassione, complicità verso le nuove imprese belliche che si annunciavano all'orizzonte.
A distanza di un decennio, è inevitabile constatare che avevamo azzeccato l'analisi. Sulle ali della retorica dell'11 settembre, che le attuali celebrazioni si incaricano di tenere ben viva con un intento politico celato, come di consueto, dietro il richiamo ai buoni e doverosi sentimenti, gli Usa hanno costruito un percorso lastricato di guerre, bombardamenti a tappeto, massacri di militari e civili dei paesi nemici, che soltanto in virtù degli accorgimenti tecnologici che consentono agli aggressori di distruggere dall'alto ogni bersaglio senza rischiare danni non hanno prodotto una contabilità di vittime equiparabile a quella dei maggiori conflitti del XX secolo. E nel loro sanguinoso itinerario verso il dominio, oltre a godere del plauso dell'apparato comunicativo dell'intera area di influenza occidentale, pronto a tacere, distorcere, negare, mentire a comando ogniqualvolta veniva ritenuto necessario, hanno potuto contare sull'efficace azione di una nutrita retroguardia economico-finanziaria, pronta a ricostruire ciò che era stato distrutto traendone e in parte distribuendo ai più servizievoli amici ampi profitti, e soprattutto sull'impegno di una fureria intellettuale, che nei paesi soggiogati a suon di bombe ha diffuso a piene mani, seguendo una tradizione consolidata, quei formidabili strumenti di condizionamento mentale che sono i gadgets della cultura di massa made in Usa.
La conquista dell'agognato ruolo di gendarme planetario è stata però, bisogna riconoscerlo, ostacolata dalla forte crescita economica di concorrenti inattesi, prime fra tutti Cina e India, e lo scenario unipolare disegnato dagli strateghi neoconservatori dell'amministrazione Bush si è rivelato sin qui impraticabile. L'esplosione della bolla economica interna del 2008 ha poi accentuato i problemi. Ma per assurgere a padroni del mondo, gli eredi dei Padri pellegrini ce l'hanno messa davvero tutta. E nella partita più importante, quella per il controllo delle mentalità collettive, il loro vantaggio è ancora straordinariamente consistente. Le aspettative che si sono create attorno alla cosiddetta "primavera araba", dalla quale ci si attende formalmente un'ondata di democratizzazione ma si esige sostanzialmente una robusta occidentalizzazione - dei costumi, dei consumi, delle leggi, degli stili di vita, delle credenze - ne sono una spia evidente. E non si può negare, come invece piace fare da sempre agli ambienti pervasi di un antiamericanismo pregiudiziale, rancoroso e sommario, mosso non dalla critica rigorosa di un modello di civiltà ma da un confuso mix di nostalgie ereditarie (di destra e/o di sinistra) e wishful thinking, che l'azione condotta dagli Usa e dai loro volenterosi complici sia stata, e sia, molto efficace. Tanto da rendersi pressoché impermeabile agli argomenti con cui coloro che non ne condividevano né le premesse né gli obiettivi hanno tentato di contrastarla.
I motivi di questo successo attengono sia all'ordine delle sue premesse teoriche sia a quello degli strumenti empirici incaricati di tradurle in realtà.
Sul primo di questi versanti, la carta vincente degli Usa è stata il ricorso sistematico e onnipervadente all'ideologia dei diritti dell'uomo, costruita ad immagine e somiglianza del loro modello di società e dei progetti di espansione imperiale connaturati al paese che aveva già partorito nel corso degli oltre due secoli di vita le dottrine del «destino manifesto» e del «cortile di casa» e che fin dalla nascita ha coltivato la convinzione di aver ricevuto da Dio il compito di adempiere ad una missione universale di conversione al Bene dei miscredenti, non esitando a ricorrere ai mezzi più crudeli per adempierla (gli ormai dimenticati nativi, ridotti dopo il genocidio a stereotipo per un genere cinematografico oggi non più di moda, ne sanno qualcosa). In nome e per conto dei dogmi contenuti in queste nuove Tavole della Legge, si è fatto strame del concetto di sovranità nazionale che per secoli aveva costituito un cardine del tentativo di imporre un diritto internazionale condiviso, si è negata la nozione di autodeterminazione dei popoli quando le scelte da questi compiute non andavano nella direzione auspicata, e soprattutto si è varata la mortifera formula della "guerra umanitaria" che ha derubricato le uccisioni di civili dei paesi aggrediti a "danni collaterali" riparabili a suon di scuse postume, ha legittimato l'uso di ordigni micidiali come i proiettili al fosforo e all'uranio impoverito. Insomma, si è celebrato il trionfo del principio per cui il fine giustifica i mezzi se ad utilizzare anche i più abietti fra questi sono i Buoni contro i Cattivi.
A far da velo a questa evidenza e a magnificare, per coprirla, la nobiltà del nuovo umanesimo sterminatore e devastatore ha provveduto un'armata intellettuale variegata, fatta perlopiù di convertiti dell'utopia comunista pronti a tutto pur di allinearsi al clima di opinione dominante e di goderne le rendite — si pensi a Bernard-Henri Lévy e André Glucksmann, esempi estremi di una specie molto diffusa e assai ben pagata dai giornali che ne pubblicano i periodici violenti sfoghi umorali —, mentre sui pochi critici (come l'Alain de Benoist di Oltre i diritti dell'uomo o il Danilo Zolo di Chi dice umanità) si è abbattuta la scure del silenzio, aggravata dallo stato semicomatoso in cui vegetano gli ambienti sedicenti nonconformisti, da tempo incapaci anche soltanto di leggere, far proprie e far circolare al di fuori delle rispettive nicchie le riflessioni attorno alle quali potrebbe essere costruita una linea di resistenza culturale all'omologazione sistemica.
L'imposizione di questa ideologia ipocrita e insidiosa, veicolata dalle migliaia di voci - dai conduttori di talk shows televisivi agli inviati sugli scenari bellici, dagli editorialisti dei quotidiani ai bloggers consenzienti, dai redattori radiofonici agli opinionisti, ai romanzieri, ai filosofi, sociologi e politologi accademici allineati allo spirito del tempo - di cui la odierna fabbrica del consenso dispone non sarebbe tuttavia stata sufficiente a raggiungere gli scopi che gli occidentalizzatori del mondo si proponevano se la declamazione teorica non fosse stata seguita dai fatti. Cioè dalle risoluzioni delle istituzioni internazionali, dagli embarghi, e poi dalle forniture di armi e denaro
a dissidenti e ribelli, dal lavorio dei servizi segreti, dalle incursioni aeree, dai bombardamenti, dalle invasioni di truppe. Delegittimazione del nemico e suo assoggettamento con la forza dovevano procedere di pari passo. E così è stato. Una volta dipinti i soggetti ostili come spietati tiranni e sfoderata la risorsa della demonizzazione dei "nuovi Hitler" - una galleria infinita, che dopo Milosevic, Saddam Hussein, Osama Bin Laden, non ha risparmiato né Assad né Gheddafi, inevitabilmente rappresentati con balletti e ciuffetto ribelle malgrado le evidenti incongruenze fisiognomiche, e ha sfiorato i capi di Hezbollah e Hamas e perfino Mubarak (I) -, si è potuti passare alle maniere spicce.
Un ruolo fondamentale è stato svolto, in questo quadro, dall'Organizzazione delle Nazioni Unite, di cui gli Usa e i loro vassalli da decenni deplorano e neutralizzano le ripetute pronunce di Assemblea, quando sono dirette a deplorare gli atti di violenza perpetrati da Israele, ma utilizzano le opportunità quando è il ristretto Consiglio di Sicurezza ad avallare, grazie a bilanciamenti di interessi, ricatti e compensi, le loro decisioni. Dall'indecorosa sceneggiata di Colin Powell all'epoca dell'invenzione delle inesistenti armi di distruzione di massa irachene ai contorsionismi dialettici adoperati per giustificare i diversi atti di aggressione, gonfiando o nascondendo a seconda dei casi e dei soggetti implicati stragi e repressioni, fino alla grottesca risoluzione che ha dato il via alle migliaia di bombardamenti contro gli obiettivi libici che hanno consentito di vincere la resistenza di Gheddafi e dei suoi, il catalogo delle genuflessioni dell'organo supremo dell'Onu ai voleri statunitensi è vastissimo, e ancora una volta basterebbe leggere quanto ha scritto in argomento uno studioso libero da tutele e condizionamenti come Danilo Zolo, in libri come Cosmopolis, I signori della pace e La giustizia dei vincitori per rendersene conto.
Se l'Onu ha costituito l'elemento fondamentale del circuito legittimante che ha all'altro capo l'ideologia dei diritti dell'uomo, e ha consentito di far apparire come repressioni di regimi tirannici contro popolazioni plebiscitariamente insorte quelle che erano in realtà guerre civili tra contrapposte minoranze desiderose di conquistare o mantenere il potere con ogni mezzo, autorizzando forze estranee allo scenario dello scontro a scendere in campo militarmente a favore dell'una fazione contro l'altra, a fare da braccio armato all'interventismo umanitario (sul quale la lettura d'obbligo è quella degli studi di Alessandro Colombo: La lunga alleanza, La guerra ineguale e La disunità del mondo) è stata, come è noto, la Nato. All'organizzazione militare transatlantica spetta infatti il ruolo più pesante ed ambiguo nella trama dell'imperialismo statunitense tessuta nell'arco dell'ultimo ventennio, dall'Afghanistan al Kosovo alla Libia senza trascurare i molti scenari collaterali e minori, e la trasfigurazione dei suoi obiettivi originari - in realtà, un vero e proprio tradimento degli intenti proclamati alla sua nascita — è la prova più eclatante dell'inconsistenza politica dell'Europa, che per suo tramite si è soggiogata completamente ai disegni e agli interessi dell'alleato-padrone d'oltreoceano, rinunciando anche solo ad un motivato diritto a dissentire dalle sue iniziative. Il bombardamento di Belgrado ha reso trasparenti gli intenti che i promotori dell"'adeguamento strategico" dell'Organizzazione del Trattato Nord-Atlantico (la cui ragion d'essere si era estinta con lo scioglimento del Patto di Varsavia) si prefiggevano: riaffermare ed ampliare il dominio sul Vecchio Continente, legarlo completamente a sé con le buone o con le cattive (il soft e l'hard power) e poi trascinarlo, facendogli pagare costi salati, nelle proprie avventure bellico-umanitarie. La spedizione libica, che si è tradotta in migliaia di bombardamenti giustificati sino all'ultimo, con suprema ipocrisia, dalla necessità di «proteggere la popolazione civile» che soltanto le loro micidiali incursioni contro gli obiettivi urbani potevano minacciare, ha dimostrato che, con l'andar del tempo, il potenziale bellico della struttura l'ha resa utilizzabile per scopi ancora più vasti, nel contesto di un piano di addomesticamento agli interessi occidentali in genere — e a quelli di alcuni paesi dell'area più in particolare — dei residui paesi riottosi. Giunti a questo punto, non è azzardato immaginare che in futuro la Nato potrà servire sistematicamente da maschera di comodo degli Stati Uniti in ogni conflitto, potendo vantare quella parvenza internazionale, ormai a vocazione universalistica, che nell'ambito della strategia adottata dai governi di Washington è una carta cruciale da giocare.
Lultimo tassello di questo mosaico, a suo modo non meno efficace degli altri, è il meccanismo dei Tribunali internazionali, primo fra tutti quello de L'Aia, che consente di ricorrere ad un altro strumento di condizionamento psicologico dell'opinione pubblica mondiale, l'accusa di crimini contro l'umanità, sostituto ben più impressionante della precedente nozione di crimini di guerra. Celando il sempiterno Vae victis sotto le prescrizioni di una legislazione ad hoc, voluta, amministrata ed interpretata ad hoc dai vincitori, questo presunto sistema di giustizia si è finora distinto per il rifiuto di assoggettare a procedimenti giudiziari i responsabili di notori atti di violenza perpetrati dalla "parte giusta" e per il clamore mediatico offerto ai processi o ai mandati d'arresto che hanno avuto per. oggetto alcune "bestie nere" degli Usa, da Milosevic a Karadzic e Mladic, da Bashir a Gheddafi (con il supporto di qualche capro espiatorio croato o bosniaco, utile per un'equanimità puramente di facciata e comunque additabile come esempio delle colpe del-l'esecrato nazionalismo altrui). Appare sempre più chiaro che la sua funzione, nell'ottica degli ispiratori, non consiste nel cercare le prove delle colpe degli indagati, ma nel dissuadere esemplarmente chiunque osi contrastare i principi santificati dall'ideologia dei diritti umani e, soprattutto, ostacolare l'omologazione del pianeta alla volontà e ai valori di chi si refigge di controllarlo integralmente. Pur con qualche intoppo, e con una rilevanza massmediale variabile a seconda dei casi, il meccanismo ha svolto il compito che gli era stato assegnato.
Il combinato di questi fattori ha prodotto nell'ultimo decennio, pur con modalità diverse e non sempre riuscendo a controllare sino in fondo gli esiti delle mosse compiute, un notevole impulso del processo di occidentalizzazione del mondo pilotato dagli Stati Uniti d'America. I vaticini sull'imminente implosione degli States che si ripetono periodicamente ad ogni accenno di crisi economica, e hanno trovato rinnovato vigore dall'autunno 2008 in poi, hanno nascosto agli occhi di molti osservatori pur non prevenuti questo dato di fatto, ma la sua sostanza resta, ed occorre capire, come il dossier di «Eléments» che pubblichiamo in questo numero si propone, se i recenti sconvolgimenti del mondo arabo siano o no un altro decisivo passo avanti in tale direzione. Ce lo dirà, comunque, il prossimo futuro.
Quel che è certo è che il progetto imperiale coltivato a Washington ai tempi di George W. Bush non si è estinto con la pur più riluttante e incerta presidenza Obama. E che ha trovato, oltre ai molti entusiasti corifei, un numero crescente di servitori volontari, talvolta inconsapevoli, i quali, abbracciando la dottrina che ne è alla base, predispongono il terreno per nuovi gravi conflitti a venire (in Siria? In Iran? In Libano? Nell'Asia orientale?) proprio mentre vanno celebrando l'epopea di una presunta età di. Pace perpetua, di Giustizia e di Libertà. Come ha scritto Alessandro Colombo, uno studioso attento delle relazioni internazionali che, oltre a conoscerle, sa interpretare ed applicare all'attualità le analisi schmittiane, nel suo recente La disunità del mondo (Feltrinelli), dopo il 1989 «l'eccezionale coerenza del mondo bipolare ha lasciato il posto a un sistema internazionale nel quale le diverse aree regionali continuano a essere in contatto tra loro grazie alla globalizzazione dell'economia e dell'informazione, ma nel quale ogni regione tende sempre più ad abbracciare protagonisti, interessi, conflitti e linguaggi diversi. Tale scomposizione è un potentissimo fattore di instabilità: accentua le differenze istituzionali e culturali tra le diverse regioni, aumenta il peso delle gerarchie di prestigio e potere al loro interno e, in questo modo, apre la strada a nuove diffidenze e competizioni sulla sicurezza. Ma, soprattutto, tale scomposizione rende sempre più inadeguate le risposte di portata globale, anzi rischia di trasformarle da fattori di ordine in fattori di disordine internazionale».
Questo è il lascito velenoso che la predicazione universalistica dell'ideologia liberale reca dentro di sé e che il progetto di dominio planetario statunitense sta liberando. Sarebbe davvero tempo di accorgersene e di reagire. Questa sì, ben più di altre, è una ragione profonda per indignarsi dello stato di cose che siamo costretti a sopportare.

(editoriale di Diorama Letterario, n. 305)

di Marco Tarchi

03 ottobre 2011

Il Grande Inganno: l’oro e la guerra




Prima del 1914 un’oncia d’oro valeva 20 dollari in United States Note. Con una banconota da 20 dollari si comprava, al netto delle spese di cambio, una moneta d’oro del peso di gr. 31 circa. Oggi occorrono 50 banconote da 20 dollari (Federal Reserve Notes) per comprare la stessa moneta d’oro, ammesso che sia disponibile.

Il che sembra ovvio o, meglio, “fisiologico”. Tutto si spiegherebbe con la perdita, nel corso del tempo, del potere d’acquisto della moneta, ignorando il fatto che chiunque ne faccia uso deve simultaneamente farsi carico di un debito e assumere l’onere perpetuo di pagarne gli interessi.
Il che, beninteso, non è evidente, ma grazie alle alchimie politiche e alla scienza attuariale è economicamente corretto, anche se eticamente truffaldino.

La moneta a corso legale, infatti, non è soltanto un mezzo di pagamento, ma può diventare, con estrema facilità, lo strumento di speculazione del capitale privato.
Chi non ci crede, potrebbe dare un’occhiata al capitale di Bankitalia o della BCE in regime Euro (nell’anno Domini 2011). Ma dovrebbe anche chiedersi perché a Londra esiste il LBMA (London Bullion Market Association), inaccessibile luogo in cui viene quotidianamente fissato il prezzo dell’oro sul mercato mondiale.

Che la cosa avvenga dal 1919 (l’anno dei diffusi sospetti) è poco convincente, anche se rivestita di ufficialità. La pratica infatti risale al 1815, ma il vero precedente è del 1773. Allora l’idea di Mayer Amschel Bauer diventa tecnica finanziaria che condizionerà l’economia dell’età contemporanea.
Costui (Mayer Amschel) ha una piccola bottega a Francoforte sul Meno, ma non è artigiano, bensì mercante d’oro, come lo chiameranno più tardi almeno due generazioni di regnanti inglesi, cioè “The Goldsmith” (che significa anche “gold dealer”). Appellativo che gli resterà appiccicato anche quando suo figlio, Nathan Mayer, sarà nominato baronetto da Re Carlo III (dinastia Hanover) e da questi assunto in via permanente alla corte britannica, in qualità di consigliere economico di Sua Maestà.

L’idea (sulle prime assai peregrina) di Mayer Amschel Bauer consiste nel finanziare il Re (in oro) a patto che questi gli affidi il compito esclusivo di esattore delle imposte, ferma restando la facoltà del finanziatore di negoziare i certificati di deposito equivalenti su piazze diverse.
Il progetto è geniale, ma per realizzarlo occorre entrare nel giro della “Judengasse”, dove l’oro si scambia col denaro liquido in cospicue quantità e ben oltre la competenza di meno nobili strozzini che prosperano nei vicoli adiacenti.

Nel salto di qualità è anche opportuno assumere un nuovo cognome, che (per legge) si deve cambiare. Lo suggerisce uno scudo rosso (Roth-Schild), simbolo che troneggia sopra la vecchia bottega del banco dei pegni. Mayer Amschel diventa Rothschild. Ma è solo il primo passo. Occorre coinvolgere i grandi “Gold Dealers” di Francoforte, invitandoli a impiegare i loro sostanziosi capitali in operazioni più redditizie (rispetto a quelle correnti e limitate alla sola piazza della città sul Meno). Maestro nell’arte della persuasione e assai dotato di fiuto diplomatico, Rothschild instaura una sorta di colossale gioco senza frontiere, puntando l’intera posta sul tallone d’Achille delle grandi potenze, il bilancio.
Pretese imperialistiche e fermenti sociali non sono per lui che segnali indicatori del giusto investimento dei crescenti capitali di cui egli può gradualmente disporre.

L’oro è “moneta” internazionale, capace di comprare popoli e sovrani e di sostituirsi alle banconote correnti (lo sanno i monarchi sognatori e i rivoluzionari che rincorrono utopie). Ma può diventare un vincolo o costituire viceversa credenziale necessaria (e non sempre, sufficiente) alle manovre finanziarie che le circostanze politiche possono giustificare. Tutte cose che Rothschild intuisce, prevedendo possibilità di guadagno sulla convertibilità della moneta, ma lucrando anche sulla negoziazione dei certificati di deposito che l’equivalente in oro dovrebbero rappresentare. Fra controversie mai pienamente definite, nasce così il gold-standard.

Ma il dubbio sulla concreta esistenza d’una riserva aurea (corrispondente alla circolante moneta) è secolare, come del resto quello sulla variabilità del rapporto oro/moneta.
L’idea del Rothschild diventa comunque, nell’Europa rivoluzionaria e nei decenni a venire, criterio monetario, in base al quale si crea moneta e si lucra sul gettito fiscale.
Questo è possibile anche quando dell’oro non si dispone (o se ne è perso il possesso). Come?
Contrattando i certificati di deposito equivalenti alle Borse di Parigi, Londra e Francoforte, per farne fra l’altro riserva sostitutiva che giustifichi l’emissione di altre banconote (nel linguaggio Fed, “legal tender”), cioè denaro d’uso corrente.

Nella circostanza (al tempo dell’”illuminato” Mayer Amschel) si prospetta al Re l’opportunità di tutelare la difesa del Regno, acquistando armamenti.
L’oro, in caso di guerra, è garanzia reale, ma nei mercati finanziari si trattano i titoli che lo rappresentano. Lo impareranno, a loro spese, il Bonaparte a Waterloo e, centotrenta anni più tardi, Adolf Hitler.
S’inaugura così l’economia speculativa del libero mercato che mal sopporta gli equilibri politici e vede, nel conflitto armato, ghiotte occasioni di guadagno.

Rothschild si garantisce l’esclusiva competenza sulla negoziabilità dei certificati di deposito e l’eventuale agganciamento al gold-standard, costituendo Rothschild Houses, a Londra, Parigi, Vienna e Napoli, alla cui guida il neo banchiere colloca (Francoforte compresa) i suoi cinque figli.
L’ordine è imperativo: prima di cedere l’oro al Re, gli si fa sottoscrivere un contratto, in cui egli riconosce il debito (del regno) e autorizza il finanziatore ad emettere moneta, in quantità equivalente, attraverso una o più banche. Vale in tal senso il noto certificato di deposito, sottoscritto dal monarca, che dell’oro ha bisogno, per fare una guerra o soffocare una rivoluzione (oppure, come spesso accade, per risanare il bilancio). La convertibilità dell’oro in moneta corrente è utilissima nel caso in cui il Re diventasse insolvente o rifiutasse di seguire certi consigli politici. I cospiratori in tali evenienze si pagano in banconote, così come le rivoluzioni che, senza soldi, non si possono fare.

Nello stesso modo si finanziano anche le forze reazionarie, purché il successivo governo, nato dalla restaurazione, affidi a Casa Rothschild il controllo della finanza pubblica.
Il Network dello Scudo Rosso funziona alla perfezione, visti i tempi che corrono in Europa e nel Nuovo Mondo, dove la Corona inglese rischia di perdere il controllo politico e monetario della sua colonia nordamericana. Il capostipite dei Rothschild, oltre che astuto mercante, è attento osservatore di una società in fermento, in cui le tensioni fra classi s’avvicinano al punto di rottura, mentre si va affermando nel Vecchio Continente la forza del “Terzo Stato” o Borghesia.

Il Teatro europeo sembra ideale campo di applicazione della tecnica generatrice del debito pubblico permanente, per mezzo della quale si può trasformare il patrimonio nazionale in capitale privato.
Essa è suggerita dal principio secondo cui il denaro (alias certificato di deposito in oro, la cui concreta esistenza può anche essere ipotetica) è mezzo di pagamento liberatorio dai vincoli di un debito, che pur dipende dal… dove e quando. Cioè dalla diversa valutazione dell’oro o del certificato che lo rappresenta. Questo spiega, fra l’altro, perché Edoardo III nel 1345 rifiutò di aderire alle richieste del banchiere Bardi di Firenze. Infatti, perdurando allora la Guerra dei Cent’Anni, la quotazione dell’oro era alle stelle nel Regno Inglese (grazie all’alta richiesta del metallo prezioso, destinato all’acquisto di armi e alla costituzione di nuovi eserciti) e costituiva pretesto per non soddisfare le pretese del banchiere fiorentino (che chiedeva, documenti alla mano, la restituzione della stessa quantità d’oro a suo tempo prestata al Monarca).

Capitale che, convertito in fiorini, “valea un Regno” come ci racconta il Villani, perché riferito al prezzo dell’oro, ma in circostanze e tempi diversi.
Quattrocento anni dopo, grazie al suo intuito, Rothschild può ovviare all’inconveniente mettendo in gioco i mercati finanziari (Amsterdam, Londra, Francoforte e più tardi Parigi e New York), nei quali sono negoziati i certificati di deposito. Di mezzo c’è sempre “Re Mida”, che ha messo insieme un bel mucchio di questi documenti rappresentativi e intende investirli dove l’oro vale di più: sulla piazza in cui c’è maggiore richiesta, perché si prevede una guerra e un aumento di spesa per gli armamenti, oppure un moto rivoluzionario e la fornitura d’armi e denaro agli insorti. Il clima teso, originato da spinte imperialistiche e prospettive d’indipendenza, agevola l’impiego di capitali (oro o corrispondenti certificati).

Ma, come già osservato, se il Re deve fare la guerra, il prezzo dell’oro sale. Di conseguenza uno scaltro investitore, messo nelle condizioni di poterlo fare, favorisce lo scoppio del conflitto, nascondendo opportunamente i meno nobili intenti che lo causano.
Il banchiere del Re, che non può ignorare i rapidi sviluppi del razional-liberalismo, troverà infatti buone occasioni d’investimento nel finanziare anche quelli che al Re si oppongono, a condizione che l’”affidamento” (o debito) sia poi pagato sotto forma di tributo dai cittadini contribuenti. Il ruolo del banchiere prevede dunque l’eventualità ch’egli possa, all’occorrenza, farsi portavoce di masse oppresse, se ciò favorisce i suoi obiettivi finanziari, non escludendo l’ipotesi di un proprio decisivo sostegno al presunto oppressore, contro cui sarà legittimo finanziare una guerra di liberazione. Quest’ultima rientra in tal modo nel novero delle guerre giuste, finanziariamente sostenute, allo scopo di trarne comunque un profitto.

Casa Rothschild diventa specialista del settore e opera attraverso una rete di selezionati agenti, sparsi in Europa, Asia e le due Americhe.
Nella Francia di Luigi XVI si nota l’allarmante aggravarsi del debito pubblico che sfiora nel 1783 il picco insostenibile di 1.640 milioni di “livres”, grazie alle incaute manovre del Ministro delle Finanze Calonne, che già è ricorso al mercato dell’oro gestito dal Rothschild. Le tasse a carico dei contadini non bastano a pagare gli interessi. S’impone la famigerata “taglia”, classica goccia che fa traboccare il vaso. E il resto che segue è noto. I titoli del Regno francese sono trattati alla Borsa di Francoforte e Londra che ne determinano un sensibile calo, tanto da indurre Parigi a sospendere le contrattazioni. Al Re che non paga si taglia la testa e… nasce l’età contemporanea. A Londra si costituiscono le prime “Accepting Houses” nei cui forzieri è custodita gran parte del Tesoro della Corona francese. La regìa della finanza londinese è affidata a Nathan Mayer Rothschild, il quale propone l’immediato sganciamento della sterlina dal gold standard quando si forma la Settima Coalizione che a Waterloo dovrà porre fine all’aggressività e ai sogni utopistici del Bonaparte, che da anni saccheggia l’oro di mezza Europa, Nord Africa e Russia. Sono queste le due facce del gold standard, sorta di feticcio che nasconde da un lato le virtù del Sacro Graal e nel rovescio il codice della perfetta fregatura.

Gli Stati Uniti hanno conquistato l’indipendenza politica, ma l’economia americana è sempre più schiava del “Metodo Rothschild”, grazie ad un meccanismo funzionale alla pratica del noto Fiat Money, che molti già chiamano London Connection.
Qualcosa che ricorda il “Trick or trade?” e la tradizione di Halloween. Si tramanda anch’essa da padre in figlio, come le generazioni di banchieri internazionali.
Così, le crisi economiche, ricorrenti dal 1837, quasi eguagliano in frequenza gli scherzetti di fine ottobre, come l’ordine di richiamo, improvviso e ingiustificato, dei “crediti a breve termine” e simili stregonerie bancarie. È il trucco che negli States (e non solo) causa insolvenze a catena, crack finanziari e sindromi da panico collettivo. Il trade è l’ovvia fase successiva che, tradotta, significa aumento del tasso di sconto e del gettito fiscale, diminuzione del potere d’acquisto della moneta e ulteriore indebitamento pubblico.

In questo modo indipendenza e autonomia (politica ed economica) vanno a farsi benedire.
Nel complesso gioco imperialistico del primo Novecento, si misurano astuzia finanziaria e la potenza delle armi, perché la posta in palio è il controllo dei territori ricchi di materie prime e, in particolare come già ricordato, del petrolio.
L’indebitamento dello Stato precede dunque l’emissione di moneta, cioè un flusso di liquidità da impiegare con urgenza per non causare ulteriore inflazione e passivi insostenibili.
I mercati finanziari stimolano così gli investimenti pubblici, obbligando lo Stato ad aumentare le spese per gli armamenti.

Cosa fa uno Stato indebitato e ben provvisto di armi? Cerca di usarle, per limitare il passivo. E poi perché le armi non impiegate sono inutili – servono come deterrente, ma non migliorano i bilanci – il loro impiego, dietro i più banali pretesti e le più artefatte provocazioni, può trasformare un passivo in attivo, fino a quando non interviene un altro Stato, pieno di debiti, ma armato fino ai denti che è costretto a proporsi come belligerante. Una sorta di reazione a catena, come quella ben meditata dai Rothschild, nel periodo che precede la Prima Guerra Mondiale. Debito, economia instabile, passivi insostenibili, ampia disponibilità di armamenti, obbligo al loro impiego, guerra.
Ecco lo scenario che si delinea in Europa, all’indomani dell’entrata in vigore del Federal Reserve Act (gennaio 1914), quando inizia la piena attività della Federal Reserve Bank of New York, strumento operativo della Bank of England, che a sua volta è in stretta connessione con la House of Rothschild.

Woodrow Wilson è ottimo giurista che non prescrive rimedi, come egli stesso confessa. Lasciando intendere che corruzione e degrado morale possono serpeggiare al Congresso e alla Casa Bianca, sotto gli occhi del Presidente, come se non fosse sua competenza e dovere adottare opportuni provvedimenti per eliminarli. A Washington però come nell’Atene di Pericle, libertà e democrazia sono miti dell’Olimpo, che vendono bene. Basta confezionarli come pregiata merce d’esportazione.
All’uopo viene fondata l’American International Corporation, secondogenita del Federal Reserve System e gigantesca rete del Corporate Banking.
La politica americana, che non rinuncia al costante richiamo al suo breviario mitologico, inaugura così la grande missione di propaganda fede, secondo un nuovo, perfezionato rituale, capace di nascondere, all’ombra di un mito, il raggiro e la truffa, pur evidenti, ma tanto consueti da essere infine ammissibili, perché origine di un mortificante, colossale e inconfessabile equivoco.
di Gian Paolo Pucciarelli

02 ottobre 2011

Come cambierebbe la fisica se si andasse più veloce della luce


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L´esperimento del Cern è finito in prima pagina su tutti i giornali del mondo: se davvero il neutrino fosse più veloce della luce si aprirebbe una nuova era. Non solo per la comunità degli studiosi. Tre delle idee più importanti del XX secolo dovrebbero essere riviste: tra queste la relatività speciale. In attesa di conferme dai fisici, vediamo cosa succede quando la scienza cambia paradigma

Fino alla fine dell´Ottocento i fisici erano convinti che lo spazio fosse pervaso di un mezzo invisibile attraverso il quale si propagava la luce: l´etere luminifero. La sua esistenza era necessaria per conciliare le leggi della fisica, e in particolare il principio di relatività galileiano con le equazioni di Maxwell che descrivono il legame tra il campo elettrico e il campo magnetico, da cui emergono le onde elettromagnetiche, che comprendono la luce visibile. Così, nell´ultimo quarto del secolo, fiorirono gli esperimenti per verificare la natura dell´etere. E nel 1887 Albert Abraham Michelson ed Edward Morley misero a punto un sofisticato strumento per misurare l´esistenza del "vento d´etere".
econdo le congetture dell´epoca, infatti, il misterioso mezzo avrebbe dovuto influenzare la velocità di qualunque cosa vi fosse stata immersa, compresa la luce. Michelson e Morley suddivisero dunque un fascio di luce in due fasci che percorrevano cammini perpendicolari, per studiarne l´interferenza nel punto in cui convergevano nuovamente su uno schermo, ma il loro ingegnoso trucco portò a un esito allarmante: la velocità della luce sembrava indipendente dalla direzione, e perciò non ci sarebbe stato nessun etere a trasportarne le onde.
Ripetuto in laboratori diversi e con differenti modalità fino al 1906, l´esperimento di Michelson e Morley sarebbe stato definito, più avanti nel Novecento, "il più riuscito esperimento fallito della storia della scienza". Ma la sua realizzazione spalancò le porte all´elaborazione delle trasformazioni di Poincaré e Lorentz prima e, in ultimo, alla teoria speciale della relatività di Albert Einstein.
Questa lunga premessa per dire che, pur con importanti differenze sotto il profilo epistemologico e storico, se i risultati ottenuti con il rivelatore Opera sul fascio di neutrini in viaggio tra il CERN e il Gran Sasso fossero validati e confermati da altri esperimenti analoghi, saremmo davanti a un evento di quelli che la scienza produce una volta per secolo, o giù di lì. Il condizionale è indispensabile, perché in fisica una conferma è la realizzazione di un esperimento indipendente da cui emergono i medesimi risultati.
Perché i neutrini superluminali diventino davvero una svolta epocale per la fisica del XXI secolo, dunque, occorre che si realizzino tre condizioni. La prima è che i dati resi pubblici dalla collaborazione Opera reggano ad analisi indipendenti. I risultati sulla velocità dei neutrini sono espressi in forma statistica, e la loro affidabilità dipende dal margine di errore intorno ai tempi misurati. Se fosse più rilevante di quanto indicato, allora i neutrini potrebbero avere una velocità compatibile con quella della luce nel vuoto, o anche leggermente inferiore.
La seconda condizione è la verifica dei risultati da parte di esperimenti indipendenti. Non è un caso se l´esperimento di Michelson e Morley fu ripetuto in condizioni diverse e in laboratori diversi per quasi vent´anni, prima di abbandonare l´idea dell´etere. Così pure il risultato ottenuto tra il Cern di Ginevra e i laboratori del Gran Sasso dell´INFN occorre sia replicato da altri. Negli Stati Uniti sono già in corso misurazioni della velocità di un fascio controllato di neutrini all´esperimento MINOS, e in Giappone l´esperimento K2K potrebbe fornire ulteriori dati indipendenti. Ci vorranno mesi perché possano essere disponibili i primi dati da questi laboratori, ma da lì potrebbero venire le prime conferme del fenomeno.
Infine, se la velocità superluminale dei neutrini sarà confermata, occorrerà inserire questo sorprendente risultato sperimentale in un quadro coerente. Che, naturalmente, non cancellerà Einstein e la relatività speciale, ma permetterà di estendere la portata delle leggi fisiche a un fenomeno nuovo e inaspettato. Il risultato di Opera coinvolgerebbe infatti tre delle più prolifiche teorie del XX secolo. La relatività speciale infatti, è consistente con la teoria dei campi elettromagnetici proprio in quel valore della velocità della luce nel vuoto che fino a oggi è considerato un limite universale. E la teoria dei campi elettromagnetici è unificata alla teoria delle interazioni deboli, quelle in cui si producono i neutrini, dalla teoria elettrodebole, la cui verifica valse il premio Nobel a Carlo Rubbia. Tra le molte ipotesi che sono già state avanzate, l´esistenza del fenomeno potrebbe significare che esiste un limite di energia oltre il quale particelle come i neutrini, prive di carica elettrica e di massa minuscola, che interagiscono molto debolmente con la materia, possono violare la velocità della luce nel vuoto.
Sono già al lavoro anche gli specialisti della gravità quantistica, ovvero i teorici che da più di mezzo secolo tentano di riconciliare le due grandi rivoluzioni del Novecento, la meccanica quantistica e la relatività, in una descrizione coerente della gravità, la forza più appariscente eppure più enigmatica del cosmo. Perché questo risultato potrebbe avere a che fare con una struttura discreta dello spazio-tempo che è stata ipotizzata proprio nell´ambito della gravità quantistica. E, naturalmente, non poteva mancare la schiera dei teorici delle stringhe. In questo complesso edificio matematico, infatti, si potrebbe annidare la spiegazione del fenomeno, ipotizzando che i neutrini possano arrivare in anticipo "prendendo una scorciatoia" nelle dimensioni extra dell´universo.
Per il momento siamo sul terreno delle ipotesi più ardite, ma comunque vada l´esperimento della collaborazione Opera ha già prodotto due risultati di rilievo. Il primo è sotto gli occhi di tutti. La comunicazione pubblica dei risultati sta permettendo a noi comuni mortali di gettare uno sguardo nei processi della scienza. Nel dibattito, anche aspro, si scontrano posizioni a volte inconciliabili, ma sempre fondate sull´osservazione dei fenomeni. E, soprattutto, senza alcun equivoco, anche gli scontri più duri – come quelli che videro protagonisti Einstein e Niels Bohr sulla natura della teoria dei quanti – sono sempre volti a un obiettivo comune: il progresso nella conoscenza delle leggi di natura. Per questo la scienza è la più straordinaria impresa collettiva dell´umanità.
Il secondo è forse più materia per addetti ai lavori. Dopo decenni, infatti, un risultato inatteso, ottenuto con quella serendipity che spesso accompagna le grandi rivoluzioni scientifiche (la misurazione della velocità dei neutrini non era l´obiettivo primario dell´esperimento), spinge i fisici di tutto il mondo a ripensare i fondamenti di una materia che negli ultimi decenni pareva un po´ stagnante, tra la celebrazione del modello standard della fisica delle particelle e le astrusità matematiche della teoria delle stringhe. Da tutto questo potrà forse emergere una nuova fisica, che non cancellerà certo i risultati acquisiti nell´ultimo secolo e mezzo, grazie ai quali esiste molta della nostra tecnologia di uso quotidiano, ma spingerà un po´ più in là gli orizzonti della nostra conoscenza. O forse no, se il lungo processo di validazione non darà conferma di questi risultati preliminari. Ma soltanto con i tempi della scienza sapremo se Opera sarà stato l´esperimento di Michelson e Morley del XXI secolo
di Marco Cattaneo

04 ottobre 2011

Servi dell'Impero




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Dieci anni fa, di questi tempi, le parole d'ordine imposte dalla giaculatoria massmediale alla opinione del pubblico erano due. Dopo l'11 settembre, si diceva, il mondo non sarebbe stato «mai più come prima»: l'Occidente era stato ferito al cuore e avrebbe dovuto, di lì in poi, fronteggiare la tentacolare minaccia di un estremismo islamico che rischiava di metterlo in ginocchio. E per questo - ecco il secondo slogan - era venuto il momento del «siamo tutti americani», ovvero della solidarietà incondizionata con Washington, riassurta, a solo dodici anni dal crollo del muro di Berlino, al ruolo di baluardo del Mondo Libero contro l'Asse del Male, gli Stati canaglia e i loro sgherri, votati all'odio perché invidiosi del livello di vita e di ricchezza raggiunto dagli Usa e dai loro più fedeli alleati. Un'invidia che, non si mancava di aggiungere, si nascondeva dietro le invettive contro l'empietà e l'arroganza dei nemici dell'islam. Fummo tra i pochi, allora e dopo, che cercarono di opporre al frastuono della propaganda la voce critica della ragione, proponendo argomenti invece di proclami. Dicemmo chiaramente - chi vuole, può sincerarsene leggendo due libri (entrambi editi da Laterza) come il nostro Contro l'americanismo e La paura e l'arroganza curato da Franco Cardini - che, nei suoi tratti essenziali, la dinamica politica, economica e culturale del mondo non sarebbe stata modificata dall'attacco aereo alle Torri gemelle: la scalata all'egemonia planetaria degli Stati Uniti, in atto ormai da un abbondante decennio, ne avrebbe semmai tratto un ulteriore impulso; l'Europa avrebbe accentuato la già marcata sudditanza ai voleri d'oltre Atlantico, rinunciando a qualsiasi iniziativa indipendente; la tanto temuta propagazione di sentimenti antiamericani nell'ex Terzo mondo non ci sarebbe stata; il mondo islamico non avrebbe imboccato la via del radicalismo oltranzista. E, soprattutto, l'infiltrazione dell'american way of life, con il suo carico di precetti individualistici, materialistici e cosmopoliti, negli anfratti dell'immaginario collettivo delle popolazioni di ogni angolo del globo non solo non sarebbe rallentata ma avrebbe tratto nuova linfa dalla vittimizzazione degli States che gli attentati di New York e di Washington favorivano: rappresentare il paese della più potente, spietata e attiva macchina da guerra esistente nei panni del gigante buono e vulnerabile vigliaccamente colpito dai malvagi era un'arma formidabile per rafforzarne il mito e creare, sulla base della compassione, complicità verso le nuove imprese belliche che si annunciavano all'orizzonte.
A distanza di un decennio, è inevitabile constatare che avevamo azzeccato l'analisi. Sulle ali della retorica dell'11 settembre, che le attuali celebrazioni si incaricano di tenere ben viva con un intento politico celato, come di consueto, dietro il richiamo ai buoni e doverosi sentimenti, gli Usa hanno costruito un percorso lastricato di guerre, bombardamenti a tappeto, massacri di militari e civili dei paesi nemici, che soltanto in virtù degli accorgimenti tecnologici che consentono agli aggressori di distruggere dall'alto ogni bersaglio senza rischiare danni non hanno prodotto una contabilità di vittime equiparabile a quella dei maggiori conflitti del XX secolo. E nel loro sanguinoso itinerario verso il dominio, oltre a godere del plauso dell'apparato comunicativo dell'intera area di influenza occidentale, pronto a tacere, distorcere, negare, mentire a comando ogniqualvolta veniva ritenuto necessario, hanno potuto contare sull'efficace azione di una nutrita retroguardia economico-finanziaria, pronta a ricostruire ciò che era stato distrutto traendone e in parte distribuendo ai più servizievoli amici ampi profitti, e soprattutto sull'impegno di una fureria intellettuale, che nei paesi soggiogati a suon di bombe ha diffuso a piene mani, seguendo una tradizione consolidata, quei formidabili strumenti di condizionamento mentale che sono i gadgets della cultura di massa made in Usa.
La conquista dell'agognato ruolo di gendarme planetario è stata però, bisogna riconoscerlo, ostacolata dalla forte crescita economica di concorrenti inattesi, prime fra tutti Cina e India, e lo scenario unipolare disegnato dagli strateghi neoconservatori dell'amministrazione Bush si è rivelato sin qui impraticabile. L'esplosione della bolla economica interna del 2008 ha poi accentuato i problemi. Ma per assurgere a padroni del mondo, gli eredi dei Padri pellegrini ce l'hanno messa davvero tutta. E nella partita più importante, quella per il controllo delle mentalità collettive, il loro vantaggio è ancora straordinariamente consistente. Le aspettative che si sono create attorno alla cosiddetta "primavera araba", dalla quale ci si attende formalmente un'ondata di democratizzazione ma si esige sostanzialmente una robusta occidentalizzazione - dei costumi, dei consumi, delle leggi, degli stili di vita, delle credenze - ne sono una spia evidente. E non si può negare, come invece piace fare da sempre agli ambienti pervasi di un antiamericanismo pregiudiziale, rancoroso e sommario, mosso non dalla critica rigorosa di un modello di civiltà ma da un confuso mix di nostalgie ereditarie (di destra e/o di sinistra) e wishful thinking, che l'azione condotta dagli Usa e dai loro volenterosi complici sia stata, e sia, molto efficace. Tanto da rendersi pressoché impermeabile agli argomenti con cui coloro che non ne condividevano né le premesse né gli obiettivi hanno tentato di contrastarla.
I motivi di questo successo attengono sia all'ordine delle sue premesse teoriche sia a quello degli strumenti empirici incaricati di tradurle in realtà.
Sul primo di questi versanti, la carta vincente degli Usa è stata il ricorso sistematico e onnipervadente all'ideologia dei diritti dell'uomo, costruita ad immagine e somiglianza del loro modello di società e dei progetti di espansione imperiale connaturati al paese che aveva già partorito nel corso degli oltre due secoli di vita le dottrine del «destino manifesto» e del «cortile di casa» e che fin dalla nascita ha coltivato la convinzione di aver ricevuto da Dio il compito di adempiere ad una missione universale di conversione al Bene dei miscredenti, non esitando a ricorrere ai mezzi più crudeli per adempierla (gli ormai dimenticati nativi, ridotti dopo il genocidio a stereotipo per un genere cinematografico oggi non più di moda, ne sanno qualcosa). In nome e per conto dei dogmi contenuti in queste nuove Tavole della Legge, si è fatto strame del concetto di sovranità nazionale che per secoli aveva costituito un cardine del tentativo di imporre un diritto internazionale condiviso, si è negata la nozione di autodeterminazione dei popoli quando le scelte da questi compiute non andavano nella direzione auspicata, e soprattutto si è varata la mortifera formula della "guerra umanitaria" che ha derubricato le uccisioni di civili dei paesi aggrediti a "danni collaterali" riparabili a suon di scuse postume, ha legittimato l'uso di ordigni micidiali come i proiettili al fosforo e all'uranio impoverito. Insomma, si è celebrato il trionfo del principio per cui il fine giustifica i mezzi se ad utilizzare anche i più abietti fra questi sono i Buoni contro i Cattivi.
A far da velo a questa evidenza e a magnificare, per coprirla, la nobiltà del nuovo umanesimo sterminatore e devastatore ha provveduto un'armata intellettuale variegata, fatta perlopiù di convertiti dell'utopia comunista pronti a tutto pur di allinearsi al clima di opinione dominante e di goderne le rendite — si pensi a Bernard-Henri Lévy e André Glucksmann, esempi estremi di una specie molto diffusa e assai ben pagata dai giornali che ne pubblicano i periodici violenti sfoghi umorali —, mentre sui pochi critici (come l'Alain de Benoist di Oltre i diritti dell'uomo o il Danilo Zolo di Chi dice umanità) si è abbattuta la scure del silenzio, aggravata dallo stato semicomatoso in cui vegetano gli ambienti sedicenti nonconformisti, da tempo incapaci anche soltanto di leggere, far proprie e far circolare al di fuori delle rispettive nicchie le riflessioni attorno alle quali potrebbe essere costruita una linea di resistenza culturale all'omologazione sistemica.
L'imposizione di questa ideologia ipocrita e insidiosa, veicolata dalle migliaia di voci - dai conduttori di talk shows televisivi agli inviati sugli scenari bellici, dagli editorialisti dei quotidiani ai bloggers consenzienti, dai redattori radiofonici agli opinionisti, ai romanzieri, ai filosofi, sociologi e politologi accademici allineati allo spirito del tempo - di cui la odierna fabbrica del consenso dispone non sarebbe tuttavia stata sufficiente a raggiungere gli scopi che gli occidentalizzatori del mondo si proponevano se la declamazione teorica non fosse stata seguita dai fatti. Cioè dalle risoluzioni delle istituzioni internazionali, dagli embarghi, e poi dalle forniture di armi e denaro
a dissidenti e ribelli, dal lavorio dei servizi segreti, dalle incursioni aeree, dai bombardamenti, dalle invasioni di truppe. Delegittimazione del nemico e suo assoggettamento con la forza dovevano procedere di pari passo. E così è stato. Una volta dipinti i soggetti ostili come spietati tiranni e sfoderata la risorsa della demonizzazione dei "nuovi Hitler" - una galleria infinita, che dopo Milosevic, Saddam Hussein, Osama Bin Laden, non ha risparmiato né Assad né Gheddafi, inevitabilmente rappresentati con balletti e ciuffetto ribelle malgrado le evidenti incongruenze fisiognomiche, e ha sfiorato i capi di Hezbollah e Hamas e perfino Mubarak (I) -, si è potuti passare alle maniere spicce.
Un ruolo fondamentale è stato svolto, in questo quadro, dall'Organizzazione delle Nazioni Unite, di cui gli Usa e i loro vassalli da decenni deplorano e neutralizzano le ripetute pronunce di Assemblea, quando sono dirette a deplorare gli atti di violenza perpetrati da Israele, ma utilizzano le opportunità quando è il ristretto Consiglio di Sicurezza ad avallare, grazie a bilanciamenti di interessi, ricatti e compensi, le loro decisioni. Dall'indecorosa sceneggiata di Colin Powell all'epoca dell'invenzione delle inesistenti armi di distruzione di massa irachene ai contorsionismi dialettici adoperati per giustificare i diversi atti di aggressione, gonfiando o nascondendo a seconda dei casi e dei soggetti implicati stragi e repressioni, fino alla grottesca risoluzione che ha dato il via alle migliaia di bombardamenti contro gli obiettivi libici che hanno consentito di vincere la resistenza di Gheddafi e dei suoi, il catalogo delle genuflessioni dell'organo supremo dell'Onu ai voleri statunitensi è vastissimo, e ancora una volta basterebbe leggere quanto ha scritto in argomento uno studioso libero da tutele e condizionamenti come Danilo Zolo, in libri come Cosmopolis, I signori della pace e La giustizia dei vincitori per rendersene conto.
Se l'Onu ha costituito l'elemento fondamentale del circuito legittimante che ha all'altro capo l'ideologia dei diritti dell'uomo, e ha consentito di far apparire come repressioni di regimi tirannici contro popolazioni plebiscitariamente insorte quelle che erano in realtà guerre civili tra contrapposte minoranze desiderose di conquistare o mantenere il potere con ogni mezzo, autorizzando forze estranee allo scenario dello scontro a scendere in campo militarmente a favore dell'una fazione contro l'altra, a fare da braccio armato all'interventismo umanitario (sul quale la lettura d'obbligo è quella degli studi di Alessandro Colombo: La lunga alleanza, La guerra ineguale e La disunità del mondo) è stata, come è noto, la Nato. All'organizzazione militare transatlantica spetta infatti il ruolo più pesante ed ambiguo nella trama dell'imperialismo statunitense tessuta nell'arco dell'ultimo ventennio, dall'Afghanistan al Kosovo alla Libia senza trascurare i molti scenari collaterali e minori, e la trasfigurazione dei suoi obiettivi originari - in realtà, un vero e proprio tradimento degli intenti proclamati alla sua nascita — è la prova più eclatante dell'inconsistenza politica dell'Europa, che per suo tramite si è soggiogata completamente ai disegni e agli interessi dell'alleato-padrone d'oltreoceano, rinunciando anche solo ad un motivato diritto a dissentire dalle sue iniziative. Il bombardamento di Belgrado ha reso trasparenti gli intenti che i promotori dell"'adeguamento strategico" dell'Organizzazione del Trattato Nord-Atlantico (la cui ragion d'essere si era estinta con lo scioglimento del Patto di Varsavia) si prefiggevano: riaffermare ed ampliare il dominio sul Vecchio Continente, legarlo completamente a sé con le buone o con le cattive (il soft e l'hard power) e poi trascinarlo, facendogli pagare costi salati, nelle proprie avventure bellico-umanitarie. La spedizione libica, che si è tradotta in migliaia di bombardamenti giustificati sino all'ultimo, con suprema ipocrisia, dalla necessità di «proteggere la popolazione civile» che soltanto le loro micidiali incursioni contro gli obiettivi urbani potevano minacciare, ha dimostrato che, con l'andar del tempo, il potenziale bellico della struttura l'ha resa utilizzabile per scopi ancora più vasti, nel contesto di un piano di addomesticamento agli interessi occidentali in genere — e a quelli di alcuni paesi dell'area più in particolare — dei residui paesi riottosi. Giunti a questo punto, non è azzardato immaginare che in futuro la Nato potrà servire sistematicamente da maschera di comodo degli Stati Uniti in ogni conflitto, potendo vantare quella parvenza internazionale, ormai a vocazione universalistica, che nell'ambito della strategia adottata dai governi di Washington è una carta cruciale da giocare.
Lultimo tassello di questo mosaico, a suo modo non meno efficace degli altri, è il meccanismo dei Tribunali internazionali, primo fra tutti quello de L'Aia, che consente di ricorrere ad un altro strumento di condizionamento psicologico dell'opinione pubblica mondiale, l'accusa di crimini contro l'umanità, sostituto ben più impressionante della precedente nozione di crimini di guerra. Celando il sempiterno Vae victis sotto le prescrizioni di una legislazione ad hoc, voluta, amministrata ed interpretata ad hoc dai vincitori, questo presunto sistema di giustizia si è finora distinto per il rifiuto di assoggettare a procedimenti giudiziari i responsabili di notori atti di violenza perpetrati dalla "parte giusta" e per il clamore mediatico offerto ai processi o ai mandati d'arresto che hanno avuto per. oggetto alcune "bestie nere" degli Usa, da Milosevic a Karadzic e Mladic, da Bashir a Gheddafi (con il supporto di qualche capro espiatorio croato o bosniaco, utile per un'equanimità puramente di facciata e comunque additabile come esempio delle colpe del-l'esecrato nazionalismo altrui). Appare sempre più chiaro che la sua funzione, nell'ottica degli ispiratori, non consiste nel cercare le prove delle colpe degli indagati, ma nel dissuadere esemplarmente chiunque osi contrastare i principi santificati dall'ideologia dei diritti umani e, soprattutto, ostacolare l'omologazione del pianeta alla volontà e ai valori di chi si refigge di controllarlo integralmente. Pur con qualche intoppo, e con una rilevanza massmediale variabile a seconda dei casi, il meccanismo ha svolto il compito che gli era stato assegnato.
Il combinato di questi fattori ha prodotto nell'ultimo decennio, pur con modalità diverse e non sempre riuscendo a controllare sino in fondo gli esiti delle mosse compiute, un notevole impulso del processo di occidentalizzazione del mondo pilotato dagli Stati Uniti d'America. I vaticini sull'imminente implosione degli States che si ripetono periodicamente ad ogni accenno di crisi economica, e hanno trovato rinnovato vigore dall'autunno 2008 in poi, hanno nascosto agli occhi di molti osservatori pur non prevenuti questo dato di fatto, ma la sua sostanza resta, ed occorre capire, come il dossier di «Eléments» che pubblichiamo in questo numero si propone, se i recenti sconvolgimenti del mondo arabo siano o no un altro decisivo passo avanti in tale direzione. Ce lo dirà, comunque, il prossimo futuro.
Quel che è certo è che il progetto imperiale coltivato a Washington ai tempi di George W. Bush non si è estinto con la pur più riluttante e incerta presidenza Obama. E che ha trovato, oltre ai molti entusiasti corifei, un numero crescente di servitori volontari, talvolta inconsapevoli, i quali, abbracciando la dottrina che ne è alla base, predispongono il terreno per nuovi gravi conflitti a venire (in Siria? In Iran? In Libano? Nell'Asia orientale?) proprio mentre vanno celebrando l'epopea di una presunta età di. Pace perpetua, di Giustizia e di Libertà. Come ha scritto Alessandro Colombo, uno studioso attento delle relazioni internazionali che, oltre a conoscerle, sa interpretare ed applicare all'attualità le analisi schmittiane, nel suo recente La disunità del mondo (Feltrinelli), dopo il 1989 «l'eccezionale coerenza del mondo bipolare ha lasciato il posto a un sistema internazionale nel quale le diverse aree regionali continuano a essere in contatto tra loro grazie alla globalizzazione dell'economia e dell'informazione, ma nel quale ogni regione tende sempre più ad abbracciare protagonisti, interessi, conflitti e linguaggi diversi. Tale scomposizione è un potentissimo fattore di instabilità: accentua le differenze istituzionali e culturali tra le diverse regioni, aumenta il peso delle gerarchie di prestigio e potere al loro interno e, in questo modo, apre la strada a nuove diffidenze e competizioni sulla sicurezza. Ma, soprattutto, tale scomposizione rende sempre più inadeguate le risposte di portata globale, anzi rischia di trasformarle da fattori di ordine in fattori di disordine internazionale».
Questo è il lascito velenoso che la predicazione universalistica dell'ideologia liberale reca dentro di sé e che il progetto di dominio planetario statunitense sta liberando. Sarebbe davvero tempo di accorgersene e di reagire. Questa sì, ben più di altre, è una ragione profonda per indignarsi dello stato di cose che siamo costretti a sopportare.

(editoriale di Diorama Letterario, n. 305)

di Marco Tarchi

03 ottobre 2011

Il Grande Inganno: l’oro e la guerra




Prima del 1914 un’oncia d’oro valeva 20 dollari in United States Note. Con una banconota da 20 dollari si comprava, al netto delle spese di cambio, una moneta d’oro del peso di gr. 31 circa. Oggi occorrono 50 banconote da 20 dollari (Federal Reserve Notes) per comprare la stessa moneta d’oro, ammesso che sia disponibile.

Il che sembra ovvio o, meglio, “fisiologico”. Tutto si spiegherebbe con la perdita, nel corso del tempo, del potere d’acquisto della moneta, ignorando il fatto che chiunque ne faccia uso deve simultaneamente farsi carico di un debito e assumere l’onere perpetuo di pagarne gli interessi.
Il che, beninteso, non è evidente, ma grazie alle alchimie politiche e alla scienza attuariale è economicamente corretto, anche se eticamente truffaldino.

La moneta a corso legale, infatti, non è soltanto un mezzo di pagamento, ma può diventare, con estrema facilità, lo strumento di speculazione del capitale privato.
Chi non ci crede, potrebbe dare un’occhiata al capitale di Bankitalia o della BCE in regime Euro (nell’anno Domini 2011). Ma dovrebbe anche chiedersi perché a Londra esiste il LBMA (London Bullion Market Association), inaccessibile luogo in cui viene quotidianamente fissato il prezzo dell’oro sul mercato mondiale.

Che la cosa avvenga dal 1919 (l’anno dei diffusi sospetti) è poco convincente, anche se rivestita di ufficialità. La pratica infatti risale al 1815, ma il vero precedente è del 1773. Allora l’idea di Mayer Amschel Bauer diventa tecnica finanziaria che condizionerà l’economia dell’età contemporanea.
Costui (Mayer Amschel) ha una piccola bottega a Francoforte sul Meno, ma non è artigiano, bensì mercante d’oro, come lo chiameranno più tardi almeno due generazioni di regnanti inglesi, cioè “The Goldsmith” (che significa anche “gold dealer”). Appellativo che gli resterà appiccicato anche quando suo figlio, Nathan Mayer, sarà nominato baronetto da Re Carlo III (dinastia Hanover) e da questi assunto in via permanente alla corte britannica, in qualità di consigliere economico di Sua Maestà.

L’idea (sulle prime assai peregrina) di Mayer Amschel Bauer consiste nel finanziare il Re (in oro) a patto che questi gli affidi il compito esclusivo di esattore delle imposte, ferma restando la facoltà del finanziatore di negoziare i certificati di deposito equivalenti su piazze diverse.
Il progetto è geniale, ma per realizzarlo occorre entrare nel giro della “Judengasse”, dove l’oro si scambia col denaro liquido in cospicue quantità e ben oltre la competenza di meno nobili strozzini che prosperano nei vicoli adiacenti.

Nel salto di qualità è anche opportuno assumere un nuovo cognome, che (per legge) si deve cambiare. Lo suggerisce uno scudo rosso (Roth-Schild), simbolo che troneggia sopra la vecchia bottega del banco dei pegni. Mayer Amschel diventa Rothschild. Ma è solo il primo passo. Occorre coinvolgere i grandi “Gold Dealers” di Francoforte, invitandoli a impiegare i loro sostanziosi capitali in operazioni più redditizie (rispetto a quelle correnti e limitate alla sola piazza della città sul Meno). Maestro nell’arte della persuasione e assai dotato di fiuto diplomatico, Rothschild instaura una sorta di colossale gioco senza frontiere, puntando l’intera posta sul tallone d’Achille delle grandi potenze, il bilancio.
Pretese imperialistiche e fermenti sociali non sono per lui che segnali indicatori del giusto investimento dei crescenti capitali di cui egli può gradualmente disporre.

L’oro è “moneta” internazionale, capace di comprare popoli e sovrani e di sostituirsi alle banconote correnti (lo sanno i monarchi sognatori e i rivoluzionari che rincorrono utopie). Ma può diventare un vincolo o costituire viceversa credenziale necessaria (e non sempre, sufficiente) alle manovre finanziarie che le circostanze politiche possono giustificare. Tutte cose che Rothschild intuisce, prevedendo possibilità di guadagno sulla convertibilità della moneta, ma lucrando anche sulla negoziazione dei certificati di deposito che l’equivalente in oro dovrebbero rappresentare. Fra controversie mai pienamente definite, nasce così il gold-standard.

Ma il dubbio sulla concreta esistenza d’una riserva aurea (corrispondente alla circolante moneta) è secolare, come del resto quello sulla variabilità del rapporto oro/moneta.
L’idea del Rothschild diventa comunque, nell’Europa rivoluzionaria e nei decenni a venire, criterio monetario, in base al quale si crea moneta e si lucra sul gettito fiscale.
Questo è possibile anche quando dell’oro non si dispone (o se ne è perso il possesso). Come?
Contrattando i certificati di deposito equivalenti alle Borse di Parigi, Londra e Francoforte, per farne fra l’altro riserva sostitutiva che giustifichi l’emissione di altre banconote (nel linguaggio Fed, “legal tender”), cioè denaro d’uso corrente.

Nella circostanza (al tempo dell’”illuminato” Mayer Amschel) si prospetta al Re l’opportunità di tutelare la difesa del Regno, acquistando armamenti.
L’oro, in caso di guerra, è garanzia reale, ma nei mercati finanziari si trattano i titoli che lo rappresentano. Lo impareranno, a loro spese, il Bonaparte a Waterloo e, centotrenta anni più tardi, Adolf Hitler.
S’inaugura così l’economia speculativa del libero mercato che mal sopporta gli equilibri politici e vede, nel conflitto armato, ghiotte occasioni di guadagno.

Rothschild si garantisce l’esclusiva competenza sulla negoziabilità dei certificati di deposito e l’eventuale agganciamento al gold-standard, costituendo Rothschild Houses, a Londra, Parigi, Vienna e Napoli, alla cui guida il neo banchiere colloca (Francoforte compresa) i suoi cinque figli.
L’ordine è imperativo: prima di cedere l’oro al Re, gli si fa sottoscrivere un contratto, in cui egli riconosce il debito (del regno) e autorizza il finanziatore ad emettere moneta, in quantità equivalente, attraverso una o più banche. Vale in tal senso il noto certificato di deposito, sottoscritto dal monarca, che dell’oro ha bisogno, per fare una guerra o soffocare una rivoluzione (oppure, come spesso accade, per risanare il bilancio). La convertibilità dell’oro in moneta corrente è utilissima nel caso in cui il Re diventasse insolvente o rifiutasse di seguire certi consigli politici. I cospiratori in tali evenienze si pagano in banconote, così come le rivoluzioni che, senza soldi, non si possono fare.

Nello stesso modo si finanziano anche le forze reazionarie, purché il successivo governo, nato dalla restaurazione, affidi a Casa Rothschild il controllo della finanza pubblica.
Il Network dello Scudo Rosso funziona alla perfezione, visti i tempi che corrono in Europa e nel Nuovo Mondo, dove la Corona inglese rischia di perdere il controllo politico e monetario della sua colonia nordamericana. Il capostipite dei Rothschild, oltre che astuto mercante, è attento osservatore di una società in fermento, in cui le tensioni fra classi s’avvicinano al punto di rottura, mentre si va affermando nel Vecchio Continente la forza del “Terzo Stato” o Borghesia.

Il Teatro europeo sembra ideale campo di applicazione della tecnica generatrice del debito pubblico permanente, per mezzo della quale si può trasformare il patrimonio nazionale in capitale privato.
Essa è suggerita dal principio secondo cui il denaro (alias certificato di deposito in oro, la cui concreta esistenza può anche essere ipotetica) è mezzo di pagamento liberatorio dai vincoli di un debito, che pur dipende dal… dove e quando. Cioè dalla diversa valutazione dell’oro o del certificato che lo rappresenta. Questo spiega, fra l’altro, perché Edoardo III nel 1345 rifiutò di aderire alle richieste del banchiere Bardi di Firenze. Infatti, perdurando allora la Guerra dei Cent’Anni, la quotazione dell’oro era alle stelle nel Regno Inglese (grazie all’alta richiesta del metallo prezioso, destinato all’acquisto di armi e alla costituzione di nuovi eserciti) e costituiva pretesto per non soddisfare le pretese del banchiere fiorentino (che chiedeva, documenti alla mano, la restituzione della stessa quantità d’oro a suo tempo prestata al Monarca).

Capitale che, convertito in fiorini, “valea un Regno” come ci racconta il Villani, perché riferito al prezzo dell’oro, ma in circostanze e tempi diversi.
Quattrocento anni dopo, grazie al suo intuito, Rothschild può ovviare all’inconveniente mettendo in gioco i mercati finanziari (Amsterdam, Londra, Francoforte e più tardi Parigi e New York), nei quali sono negoziati i certificati di deposito. Di mezzo c’è sempre “Re Mida”, che ha messo insieme un bel mucchio di questi documenti rappresentativi e intende investirli dove l’oro vale di più: sulla piazza in cui c’è maggiore richiesta, perché si prevede una guerra e un aumento di spesa per gli armamenti, oppure un moto rivoluzionario e la fornitura d’armi e denaro agli insorti. Il clima teso, originato da spinte imperialistiche e prospettive d’indipendenza, agevola l’impiego di capitali (oro o corrispondenti certificati).

Ma, come già osservato, se il Re deve fare la guerra, il prezzo dell’oro sale. Di conseguenza uno scaltro investitore, messo nelle condizioni di poterlo fare, favorisce lo scoppio del conflitto, nascondendo opportunamente i meno nobili intenti che lo causano.
Il banchiere del Re, che non può ignorare i rapidi sviluppi del razional-liberalismo, troverà infatti buone occasioni d’investimento nel finanziare anche quelli che al Re si oppongono, a condizione che l’”affidamento” (o debito) sia poi pagato sotto forma di tributo dai cittadini contribuenti. Il ruolo del banchiere prevede dunque l’eventualità ch’egli possa, all’occorrenza, farsi portavoce di masse oppresse, se ciò favorisce i suoi obiettivi finanziari, non escludendo l’ipotesi di un proprio decisivo sostegno al presunto oppressore, contro cui sarà legittimo finanziare una guerra di liberazione. Quest’ultima rientra in tal modo nel novero delle guerre giuste, finanziariamente sostenute, allo scopo di trarne comunque un profitto.

Casa Rothschild diventa specialista del settore e opera attraverso una rete di selezionati agenti, sparsi in Europa, Asia e le due Americhe.
Nella Francia di Luigi XVI si nota l’allarmante aggravarsi del debito pubblico che sfiora nel 1783 il picco insostenibile di 1.640 milioni di “livres”, grazie alle incaute manovre del Ministro delle Finanze Calonne, che già è ricorso al mercato dell’oro gestito dal Rothschild. Le tasse a carico dei contadini non bastano a pagare gli interessi. S’impone la famigerata “taglia”, classica goccia che fa traboccare il vaso. E il resto che segue è noto. I titoli del Regno francese sono trattati alla Borsa di Francoforte e Londra che ne determinano un sensibile calo, tanto da indurre Parigi a sospendere le contrattazioni. Al Re che non paga si taglia la testa e… nasce l’età contemporanea. A Londra si costituiscono le prime “Accepting Houses” nei cui forzieri è custodita gran parte del Tesoro della Corona francese. La regìa della finanza londinese è affidata a Nathan Mayer Rothschild, il quale propone l’immediato sganciamento della sterlina dal gold standard quando si forma la Settima Coalizione che a Waterloo dovrà porre fine all’aggressività e ai sogni utopistici del Bonaparte, che da anni saccheggia l’oro di mezza Europa, Nord Africa e Russia. Sono queste le due facce del gold standard, sorta di feticcio che nasconde da un lato le virtù del Sacro Graal e nel rovescio il codice della perfetta fregatura.

Gli Stati Uniti hanno conquistato l’indipendenza politica, ma l’economia americana è sempre più schiava del “Metodo Rothschild”, grazie ad un meccanismo funzionale alla pratica del noto Fiat Money, che molti già chiamano London Connection.
Qualcosa che ricorda il “Trick or trade?” e la tradizione di Halloween. Si tramanda anch’essa da padre in figlio, come le generazioni di banchieri internazionali.
Così, le crisi economiche, ricorrenti dal 1837, quasi eguagliano in frequenza gli scherzetti di fine ottobre, come l’ordine di richiamo, improvviso e ingiustificato, dei “crediti a breve termine” e simili stregonerie bancarie. È il trucco che negli States (e non solo) causa insolvenze a catena, crack finanziari e sindromi da panico collettivo. Il trade è l’ovvia fase successiva che, tradotta, significa aumento del tasso di sconto e del gettito fiscale, diminuzione del potere d’acquisto della moneta e ulteriore indebitamento pubblico.

In questo modo indipendenza e autonomia (politica ed economica) vanno a farsi benedire.
Nel complesso gioco imperialistico del primo Novecento, si misurano astuzia finanziaria e la potenza delle armi, perché la posta in palio è il controllo dei territori ricchi di materie prime e, in particolare come già ricordato, del petrolio.
L’indebitamento dello Stato precede dunque l’emissione di moneta, cioè un flusso di liquidità da impiegare con urgenza per non causare ulteriore inflazione e passivi insostenibili.
I mercati finanziari stimolano così gli investimenti pubblici, obbligando lo Stato ad aumentare le spese per gli armamenti.

Cosa fa uno Stato indebitato e ben provvisto di armi? Cerca di usarle, per limitare il passivo. E poi perché le armi non impiegate sono inutili – servono come deterrente, ma non migliorano i bilanci – il loro impiego, dietro i più banali pretesti e le più artefatte provocazioni, può trasformare un passivo in attivo, fino a quando non interviene un altro Stato, pieno di debiti, ma armato fino ai denti che è costretto a proporsi come belligerante. Una sorta di reazione a catena, come quella ben meditata dai Rothschild, nel periodo che precede la Prima Guerra Mondiale. Debito, economia instabile, passivi insostenibili, ampia disponibilità di armamenti, obbligo al loro impiego, guerra.
Ecco lo scenario che si delinea in Europa, all’indomani dell’entrata in vigore del Federal Reserve Act (gennaio 1914), quando inizia la piena attività della Federal Reserve Bank of New York, strumento operativo della Bank of England, che a sua volta è in stretta connessione con la House of Rothschild.

Woodrow Wilson è ottimo giurista che non prescrive rimedi, come egli stesso confessa. Lasciando intendere che corruzione e degrado morale possono serpeggiare al Congresso e alla Casa Bianca, sotto gli occhi del Presidente, come se non fosse sua competenza e dovere adottare opportuni provvedimenti per eliminarli. A Washington però come nell’Atene di Pericle, libertà e democrazia sono miti dell’Olimpo, che vendono bene. Basta confezionarli come pregiata merce d’esportazione.
All’uopo viene fondata l’American International Corporation, secondogenita del Federal Reserve System e gigantesca rete del Corporate Banking.
La politica americana, che non rinuncia al costante richiamo al suo breviario mitologico, inaugura così la grande missione di propaganda fede, secondo un nuovo, perfezionato rituale, capace di nascondere, all’ombra di un mito, il raggiro e la truffa, pur evidenti, ma tanto consueti da essere infine ammissibili, perché origine di un mortificante, colossale e inconfessabile equivoco.
di Gian Paolo Pucciarelli

02 ottobre 2011

Come cambierebbe la fisica se si andasse più veloce della luce


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L´esperimento del Cern è finito in prima pagina su tutti i giornali del mondo: se davvero il neutrino fosse più veloce della luce si aprirebbe una nuova era. Non solo per la comunità degli studiosi. Tre delle idee più importanti del XX secolo dovrebbero essere riviste: tra queste la relatività speciale. In attesa di conferme dai fisici, vediamo cosa succede quando la scienza cambia paradigma

Fino alla fine dell´Ottocento i fisici erano convinti che lo spazio fosse pervaso di un mezzo invisibile attraverso il quale si propagava la luce: l´etere luminifero. La sua esistenza era necessaria per conciliare le leggi della fisica, e in particolare il principio di relatività galileiano con le equazioni di Maxwell che descrivono il legame tra il campo elettrico e il campo magnetico, da cui emergono le onde elettromagnetiche, che comprendono la luce visibile. Così, nell´ultimo quarto del secolo, fiorirono gli esperimenti per verificare la natura dell´etere. E nel 1887 Albert Abraham Michelson ed Edward Morley misero a punto un sofisticato strumento per misurare l´esistenza del "vento d´etere".
econdo le congetture dell´epoca, infatti, il misterioso mezzo avrebbe dovuto influenzare la velocità di qualunque cosa vi fosse stata immersa, compresa la luce. Michelson e Morley suddivisero dunque un fascio di luce in due fasci che percorrevano cammini perpendicolari, per studiarne l´interferenza nel punto in cui convergevano nuovamente su uno schermo, ma il loro ingegnoso trucco portò a un esito allarmante: la velocità della luce sembrava indipendente dalla direzione, e perciò non ci sarebbe stato nessun etere a trasportarne le onde.
Ripetuto in laboratori diversi e con differenti modalità fino al 1906, l´esperimento di Michelson e Morley sarebbe stato definito, più avanti nel Novecento, "il più riuscito esperimento fallito della storia della scienza". Ma la sua realizzazione spalancò le porte all´elaborazione delle trasformazioni di Poincaré e Lorentz prima e, in ultimo, alla teoria speciale della relatività di Albert Einstein.
Questa lunga premessa per dire che, pur con importanti differenze sotto il profilo epistemologico e storico, se i risultati ottenuti con il rivelatore Opera sul fascio di neutrini in viaggio tra il CERN e il Gran Sasso fossero validati e confermati da altri esperimenti analoghi, saremmo davanti a un evento di quelli che la scienza produce una volta per secolo, o giù di lì. Il condizionale è indispensabile, perché in fisica una conferma è la realizzazione di un esperimento indipendente da cui emergono i medesimi risultati.
Perché i neutrini superluminali diventino davvero una svolta epocale per la fisica del XXI secolo, dunque, occorre che si realizzino tre condizioni. La prima è che i dati resi pubblici dalla collaborazione Opera reggano ad analisi indipendenti. I risultati sulla velocità dei neutrini sono espressi in forma statistica, e la loro affidabilità dipende dal margine di errore intorno ai tempi misurati. Se fosse più rilevante di quanto indicato, allora i neutrini potrebbero avere una velocità compatibile con quella della luce nel vuoto, o anche leggermente inferiore.
La seconda condizione è la verifica dei risultati da parte di esperimenti indipendenti. Non è un caso se l´esperimento di Michelson e Morley fu ripetuto in condizioni diverse e in laboratori diversi per quasi vent´anni, prima di abbandonare l´idea dell´etere. Così pure il risultato ottenuto tra il Cern di Ginevra e i laboratori del Gran Sasso dell´INFN occorre sia replicato da altri. Negli Stati Uniti sono già in corso misurazioni della velocità di un fascio controllato di neutrini all´esperimento MINOS, e in Giappone l´esperimento K2K potrebbe fornire ulteriori dati indipendenti. Ci vorranno mesi perché possano essere disponibili i primi dati da questi laboratori, ma da lì potrebbero venire le prime conferme del fenomeno.
Infine, se la velocità superluminale dei neutrini sarà confermata, occorrerà inserire questo sorprendente risultato sperimentale in un quadro coerente. Che, naturalmente, non cancellerà Einstein e la relatività speciale, ma permetterà di estendere la portata delle leggi fisiche a un fenomeno nuovo e inaspettato. Il risultato di Opera coinvolgerebbe infatti tre delle più prolifiche teorie del XX secolo. La relatività speciale infatti, è consistente con la teoria dei campi elettromagnetici proprio in quel valore della velocità della luce nel vuoto che fino a oggi è considerato un limite universale. E la teoria dei campi elettromagnetici è unificata alla teoria delle interazioni deboli, quelle in cui si producono i neutrini, dalla teoria elettrodebole, la cui verifica valse il premio Nobel a Carlo Rubbia. Tra le molte ipotesi che sono già state avanzate, l´esistenza del fenomeno potrebbe significare che esiste un limite di energia oltre il quale particelle come i neutrini, prive di carica elettrica e di massa minuscola, che interagiscono molto debolmente con la materia, possono violare la velocità della luce nel vuoto.
Sono già al lavoro anche gli specialisti della gravità quantistica, ovvero i teorici che da più di mezzo secolo tentano di riconciliare le due grandi rivoluzioni del Novecento, la meccanica quantistica e la relatività, in una descrizione coerente della gravità, la forza più appariscente eppure più enigmatica del cosmo. Perché questo risultato potrebbe avere a che fare con una struttura discreta dello spazio-tempo che è stata ipotizzata proprio nell´ambito della gravità quantistica. E, naturalmente, non poteva mancare la schiera dei teorici delle stringhe. In questo complesso edificio matematico, infatti, si potrebbe annidare la spiegazione del fenomeno, ipotizzando che i neutrini possano arrivare in anticipo "prendendo una scorciatoia" nelle dimensioni extra dell´universo.
Per il momento siamo sul terreno delle ipotesi più ardite, ma comunque vada l´esperimento della collaborazione Opera ha già prodotto due risultati di rilievo. Il primo è sotto gli occhi di tutti. La comunicazione pubblica dei risultati sta permettendo a noi comuni mortali di gettare uno sguardo nei processi della scienza. Nel dibattito, anche aspro, si scontrano posizioni a volte inconciliabili, ma sempre fondate sull´osservazione dei fenomeni. E, soprattutto, senza alcun equivoco, anche gli scontri più duri – come quelli che videro protagonisti Einstein e Niels Bohr sulla natura della teoria dei quanti – sono sempre volti a un obiettivo comune: il progresso nella conoscenza delle leggi di natura. Per questo la scienza è la più straordinaria impresa collettiva dell´umanità.
Il secondo è forse più materia per addetti ai lavori. Dopo decenni, infatti, un risultato inatteso, ottenuto con quella serendipity che spesso accompagna le grandi rivoluzioni scientifiche (la misurazione della velocità dei neutrini non era l´obiettivo primario dell´esperimento), spinge i fisici di tutto il mondo a ripensare i fondamenti di una materia che negli ultimi decenni pareva un po´ stagnante, tra la celebrazione del modello standard della fisica delle particelle e le astrusità matematiche della teoria delle stringhe. Da tutto questo potrà forse emergere una nuova fisica, che non cancellerà certo i risultati acquisiti nell´ultimo secolo e mezzo, grazie ai quali esiste molta della nostra tecnologia di uso quotidiano, ma spingerà un po´ più in là gli orizzonti della nostra conoscenza. O forse no, se il lungo processo di validazione non darà conferma di questi risultati preliminari. Ma soltanto con i tempi della scienza sapremo se Opera sarà stato l´esperimento di Michelson e Morley del XXI secolo
di Marco Cattaneo