08 agosto 2006

FIAT : la storia diversa (3)


Doppio e triplo gioco durante la guerra.
Alla vigilia della guerra, Mussolini fa la sua terza visita alla FIAT, il 15 maggio 1939. Lo stato maggiore aziendale è schierato in camicia nera, gli operai sono stati condotti a forza nel piazzale dello stabilimento non ancora completato di Mirafiori (inizialmente visto con diffidenza dal governo fascista, che temeva le concentrazioni operaie troppo numerose).

Mussolini arriva su un’Alfa Romeo, allora concorrente della FIAT, e questo non piace ai dirigenti né agli operai, che hanno però altre ragioni di dissenso. I 50.000 operai non rispondono con ovazioni alle consuete tirate oratorie del “duce”, il quale si irrita sempre più. Chiede se ricordano un suo precedente discorso, ma la piazza rimane muta, e Mussolini sbotta, paonazzo d’ira: “Se non lo avete letto, andate a leggerlo, se non lo ricordate, andate a rileggerlo” e volta le spalle, sibilando “questi piemontesi, tutti dei porci”.

Non c’entrava il Piemonte, evidentemente, ma la rinascita di un’opposizione di classe. Lo aveva ammesso poco tempo prima un rapporto riservato del Prefetto di Torino, che affermava:

la grande maggioranza delle maestranze metallurgiche della Fiat, nonostante la sua appartenenza formale al partito fascista, è rimasta quello che era, socialista e comunista per convinzione.

E il federale fascista Gazzotti aveva segnalato anch’esso con amarezza:

questa Fiat resta, nella sua manodopera, socialista e comunista, Non c’è quella partecipazione che ci si potrebbe attendere da una folla di miserabili disoccupati che da tutte le regioni d’Italia sale a Torino per fare della Fiat la più alta concentrazione operaia di tutto il Paese.

Agnelli, intanto, si preparava alla guerra che, però, sperava lasciasse fuori l’Italia: infatti, fino ad un giorno prima delle due aggressioni, aveva continuato a fornire autocarri alla Francia e alla Grecia… E durante la guerra mantiene buoni rapporti con l’occupante tedesco, un po’ meno buoni con la Repubblica sociale italiana, la Repubblichina di Salò, che lo vorrebbe come ministro e non conta nulla. Mantiene buoni rapporti attraverso vari dirigenti con gli antifascisti moderati, ma anche con i comunisti, che ai primi di marzo del 1943 hanno scatenato il grande sciopero generale contro la guerra. Difende i suoi operai dalla deportazione in Germania (che colpisce comunque una parte dei “facinorosi”), ma convincendo i nazisti che sono essenziali per la produzione e che, spostando i macchinari e gli uomini, si perderebbero mesi preziosi. Per fermare gli scioperi, di cui conosce bene il movente politico ma anche il legame con le rivendicazioni economiche, concede forti aumenti, indennità, premi. I nazisti capiscono, i fascisti protestano, ma vengono tacitati con una visita di Valletta a Salò, dove questi dichiara di essere riconoscente per la legge sulla socializzazione e di essere pronto ad applicarla. Il 6 marzo 1945 si svolgono le elezioni per approvare o respingere il progetto: parteciperanno solo alcuni fascistoni, pari allo 0,6% dei lavoratori. Mussolini è furioso e minaccia ritorsioni, ma non fa in tempo, perché deve cominciare a preparare lo sgombero del Garda, per arroccarsi nel “ridotto della Valtellina”, da cui far ripartire la controffensiva. In realtà, si prepara la fuga, che finirà a Dongo.

I comunisti salvano le fabbriche, che sono state minate dai nazisti, e se ne impossessano. Le restituiranno, poi, in nome dell’unità nazionale, ad Agnelli, Valletta sarà assolto dall’accusa di collaborazionismo, adducendo come meriti i contatti avuti con esponenti alleati, nonché la sua capacità di ottenere dagli ufficiali tedeschi la salvezza degli stabilimenti. In realtà, ad ogni minaccia di smantellarli, si rispondeva garantendo l’aumento della produzione, facendosela, peraltro, pagare subito, probabilmente con i beni rastrellati in tutta l’Europa. Il giovani Gianni Agnelli, che si era fatto mandare in Russia (dove stava comodamente installato in una casa ben riscaldata e fornita di ogni ben di Dio, assai lontano dal fronte) e poi in Africa 8ugualmente senza l’ombra di un pericolo), si presenterà con un curriculum di “partigiano”. In realtà, aveva tentato di raggiungere una sua tenuta vicino ad Arezzo su un’auto guidata da un maresciallo tedesco a cui era stata offerta una macchina per i suoi servigi, ma aveva avuto un’incidente d’auto ed era stato ricoverato a Firenze, dove aspettò gli alleati presso i quali si arruolò come ufficiale di collegamento.

Gli unici a pagare sono stati gli operai, che avevano salvato le fabbriche. Agnelli e Valletta aspettarono poco tempo, per avere l’appoggio dei governi centristi a un nuovo rilancio industriale e per trovare il momento buono per licenziare tutti i più combattivi. Per qualche tempo, si tratterà solo di spostamenti nei “reparti confino”; ma, una volta reciso il legame tra le avanguardie e la massa, disorientata per la perdita rapida di tutte le conquistefatte, sarà la cacciata definitiva dalla Fiat. Ma questa è un’altra storia…


[Tratto da: Il «capitalismo reale», di Antonio Moscato, Teti Editore, Milano 1999]

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08 agosto 2006

FIAT : la storia diversa (3)


Doppio e triplo gioco durante la guerra.
Alla vigilia della guerra, Mussolini fa la sua terza visita alla FIAT, il 15 maggio 1939. Lo stato maggiore aziendale è schierato in camicia nera, gli operai sono stati condotti a forza nel piazzale dello stabilimento non ancora completato di Mirafiori (inizialmente visto con diffidenza dal governo fascista, che temeva le concentrazioni operaie troppo numerose).

Mussolini arriva su un’Alfa Romeo, allora concorrente della FIAT, e questo non piace ai dirigenti né agli operai, che hanno però altre ragioni di dissenso. I 50.000 operai non rispondono con ovazioni alle consuete tirate oratorie del “duce”, il quale si irrita sempre più. Chiede se ricordano un suo precedente discorso, ma la piazza rimane muta, e Mussolini sbotta, paonazzo d’ira: “Se non lo avete letto, andate a leggerlo, se non lo ricordate, andate a rileggerlo” e volta le spalle, sibilando “questi piemontesi, tutti dei porci”.

Non c’entrava il Piemonte, evidentemente, ma la rinascita di un’opposizione di classe. Lo aveva ammesso poco tempo prima un rapporto riservato del Prefetto di Torino, che affermava:

la grande maggioranza delle maestranze metallurgiche della Fiat, nonostante la sua appartenenza formale al partito fascista, è rimasta quello che era, socialista e comunista per convinzione.

E il federale fascista Gazzotti aveva segnalato anch’esso con amarezza:

questa Fiat resta, nella sua manodopera, socialista e comunista, Non c’è quella partecipazione che ci si potrebbe attendere da una folla di miserabili disoccupati che da tutte le regioni d’Italia sale a Torino per fare della Fiat la più alta concentrazione operaia di tutto il Paese.

Agnelli, intanto, si preparava alla guerra che, però, sperava lasciasse fuori l’Italia: infatti, fino ad un giorno prima delle due aggressioni, aveva continuato a fornire autocarri alla Francia e alla Grecia… E durante la guerra mantiene buoni rapporti con l’occupante tedesco, un po’ meno buoni con la Repubblica sociale italiana, la Repubblichina di Salò, che lo vorrebbe come ministro e non conta nulla. Mantiene buoni rapporti attraverso vari dirigenti con gli antifascisti moderati, ma anche con i comunisti, che ai primi di marzo del 1943 hanno scatenato il grande sciopero generale contro la guerra. Difende i suoi operai dalla deportazione in Germania (che colpisce comunque una parte dei “facinorosi”), ma convincendo i nazisti che sono essenziali per la produzione e che, spostando i macchinari e gli uomini, si perderebbero mesi preziosi. Per fermare gli scioperi, di cui conosce bene il movente politico ma anche il legame con le rivendicazioni economiche, concede forti aumenti, indennità, premi. I nazisti capiscono, i fascisti protestano, ma vengono tacitati con una visita di Valletta a Salò, dove questi dichiara di essere riconoscente per la legge sulla socializzazione e di essere pronto ad applicarla. Il 6 marzo 1945 si svolgono le elezioni per approvare o respingere il progetto: parteciperanno solo alcuni fascistoni, pari allo 0,6% dei lavoratori. Mussolini è furioso e minaccia ritorsioni, ma non fa in tempo, perché deve cominciare a preparare lo sgombero del Garda, per arroccarsi nel “ridotto della Valtellina”, da cui far ripartire la controffensiva. In realtà, si prepara la fuga, che finirà a Dongo.

I comunisti salvano le fabbriche, che sono state minate dai nazisti, e se ne impossessano. Le restituiranno, poi, in nome dell’unità nazionale, ad Agnelli, Valletta sarà assolto dall’accusa di collaborazionismo, adducendo come meriti i contatti avuti con esponenti alleati, nonché la sua capacità di ottenere dagli ufficiali tedeschi la salvezza degli stabilimenti. In realtà, ad ogni minaccia di smantellarli, si rispondeva garantendo l’aumento della produzione, facendosela, peraltro, pagare subito, probabilmente con i beni rastrellati in tutta l’Europa. Il giovani Gianni Agnelli, che si era fatto mandare in Russia (dove stava comodamente installato in una casa ben riscaldata e fornita di ogni ben di Dio, assai lontano dal fronte) e poi in Africa 8ugualmente senza l’ombra di un pericolo), si presenterà con un curriculum di “partigiano”. In realtà, aveva tentato di raggiungere una sua tenuta vicino ad Arezzo su un’auto guidata da un maresciallo tedesco a cui era stata offerta una macchina per i suoi servigi, ma aveva avuto un’incidente d’auto ed era stato ricoverato a Firenze, dove aspettò gli alleati presso i quali si arruolò come ufficiale di collegamento.

Gli unici a pagare sono stati gli operai, che avevano salvato le fabbriche. Agnelli e Valletta aspettarono poco tempo, per avere l’appoggio dei governi centristi a un nuovo rilancio industriale e per trovare il momento buono per licenziare tutti i più combattivi. Per qualche tempo, si tratterà solo di spostamenti nei “reparti confino”; ma, una volta reciso il legame tra le avanguardie e la massa, disorientata per la perdita rapida di tutte le conquistefatte, sarà la cacciata definitiva dalla Fiat. Ma questa è un’altra storia…


[Tratto da: Il «capitalismo reale», di Antonio Moscato, Teti Editore, Milano 1999]

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