Incontrare personaggi come Majid Rahnema è un’esperienza che capita poche volte nella vita. Esistono incontri illuminanti e luoghi che li rendono disponibili, come il Salone dell’Editoria Sociale.
Raccontare la biografia del co-autore – insieme a Jean Robert – de La potenza dei poveri (Jaca Book, 2010), sarebbe di per sè istruttivo: così densa di episodi significativi che l’assoluta originalità e l’alto valore intellettuale del pensiero dello scrittore iraniano, sembrano una naturale conseguenza di una vita passata tra ministeri, ruoli di primo piano nell’Onu e nell’Unesco.
Nella lezione organizzata dalla Scuola del Sociale della Provincia di Roma Rahnema conversa con il pubblico partendo sempre da episodi della sua biografia. Così ricorda, come quando gli fu affidato dall’Onu il compito di redigere un dossier sulla povertà, dopo 6 mesi di studio fervente su ciò che gli altri avevano detto in merito all’argomento, si accorse di non sapere ancora nulla. Come uno scettico antico sospese il giudizio, continuò a riflettere e a distanza di 25 anni capì che finalmente aveva qualcosa di diverso da dire sull’argomento. Anzitutto si tratta di rilevare come il concetto economico di sviluppo non rappresenti altro che l’ennesimo inganno che l’economia capitalista cerca di propugnare al resto del mondo. Tramite le parole l’Occidente cerca di colonizzare culture diversa dalla nostra, presupponendo che la loro qualità di vita debba essere misurata con gli standard – e il linguaggio – della Vecchia Europa. Partendo da questa riflessione Rahnema, riesce oggi, a distanza di un quarto di secolo dall’affidamento del dossier, a distinguere 3 tipi di povertà:
1 . La povertà conviviale. Si tratta del modo di vivere dignitoso con ciò che si ha. Fino all’anno mille, secondo le ricerche dell’intellettuale iraniano, non esisteva il sostantivo povertà. Esistevano semplicemente dei singoli poveri, che non erano neanche così definiti per mere questioni monetarie. Nella lingua persiana antica povero è colui che è solo e una simile condizione, si poteva riparare con l’ambiente circostante. In miseria – concetto diverso da quello di povertà – ci cadeva solo chi restava irrimediabilmente isolato.
2. La povertà volontaria. In questo caso si parla di chi rinuncia per scelta alla propria ricchezza. L’esempio lampante è quello di San Francesco d’Assisi, che Rahnema dice che potremo considerare il Rockfeller dell’epoca. Invece decide di abbandonare i suoi possidimenti. Significa che la povertà non è poi così male, o no?
3. La povertà modernizzata (definizione presa in prestito da Ivan Illich). Qui invece abbiamo a che fare con persoe che avrebbero di che vivere, ma i cui bisogni aumentano smisuratamente, perchè indotti dalla società. Questa è la nostra povertà, quella delle società occidentali.
La domanda che sorge spontanea è questa: se i 2/3 della popolazione si dicono poveri perchè guadagnano meno di un dollaro al giorno, perchè in Francia è povero chi ne guadagna meno di trenta? Qui qualcosa non quadra. Il fatto sconvolgente, è che i veri poveri in termini edonistici, vivono meglio di quelli delle società occidentali, che sono poveri per modo di dire, perchè hanno dei bisogni indotti, che chi riesce a vivere con pochi centesimi al giorno non conosce nemmeno. Come, a dire non sanno cosa si perdono e proprio per questo vivono meglio di noi.
Si tratta di una questione che secondo Rahnema andrebbe tratta dal punto di vista scientifico: la scienza – episteme – anzitutto non è una cosa innocente. Può essere definita in due modi: da una parte risponde al desiderio di vivere e qui si caratterizza come insieme di conoscenze. Per il potere però diventa ciò che è utile al dominio, rispondendo quindi a un desiderio di conquista. Purtroppo, secondo l’autore iraniano, quello che viene insegnata nelle grandi università è il secondo tipo di scienza. Così noi europei, vittime della seconda tipologia di episteme, non sappiamo mantenere la dignità che gli altri mantengono guadagnando molto di meno.
In conclusione si può dire che i veri miserabili siamo noi, perchè abbiamo costretto la maggior parte della popolazione a vivere con dei bisogni indotti, abbiamo escluso i 2/3 della popolazione dai nostri piani, ma tutto ciò va a nostro discapito. Loro, la maggioranza, ci potrebbero aiutare. Ci potrebbero insegnare a vivere dignitosamente con poco. In realtà noi siamo drogati dall’economia e dal concetto di sviluppo e tutte le teorie sulla decrescita, che presuppongono un radicale cambiamento dei nostri costumi, probabilmente arrivano troppo tardi. Saremo davvero capaci di cambiare così profondamente i nostri stili di vita? Oppure riusciremo a corrompere, con la nostra miseria, il patrimonio di dignità che quei ricconi degli africani hanno da insegnarci?
di Andrea Scutellà
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