15 ottobre 2012
Domare i banchieri non è facile come domare i tori
Ovviamente tutti sanno che in nessun caso è facile domare un toro, anzi, è del tutto impossibile. È vero che qui in Texas, nei numerosi rodei che vengono organizzati un po’ ovunque, diversi cow boys si cimentano nella gara a chi resiste di più in groppa ad un toro inferocito, ma solo i campioni resistono più di una dozzina di secondi, e molti finiscono a terra molto prima, qualcuno con un po’ di ossa rotte.
Quindi quello che voglio dire è che, se domare i tori è impossibile, anche sperare di piegare i banchieri a fare ciò che non vogliono lo è in uguale misura. Loro sono troppo più forti di quelli che vorrebbero cavalcarli per accettare di essere cavalcati.
Perché ho fatto questa similitudine? Perché proprio in questi giorni qualcuno in Europa ha finalmente avanzato una proposta, pur piccola ma seria, per risolvere il problema delle banche europee diventate troppo grosse.
Essere grosse fa bene alle banche (finché non arrivano le crisi) ma fa male alla gente, perché quando le banche sono troppo grosse fanno quello che vogliono limitandosi (più o meno) a rispettare ciò che impongono le leggi. Includendo però in questo assunto anche il potere occulto di ottenere dai Parlamenti le leggi che fanno loro comodo.
Ma quanto sono grandi queste banche per riuscire ad imporre a nazioni intere, e persino a grandi federazioni di Stati, come gli USA e l’Europa, i loro interessi?
Lo dice, con una semplice comparazione, Jan Pieter Krahnen professore di Scienza delle Finanze all’Università di Francoforte (Germania): l’insieme di tutto il patrimonio delle banche europee è pari al 350% il volume di tutto il Prodotto Lordo della Comunità Europea. Vale a dire che le banche europee amministrano un patrimonio (cioè capitale proprio + debiti) che è tre volte e mezzo il valore di tutto quello che si produce in Europa. Ciò può significare due cose: o che hanno molte operazioni sull’estero, o che hanno in deposito nel patrimonio molta aria fritta (leggi: crediti inesigibili). Probabilmente sono vere un po’ entrambe le cose.
Ma per capire l’entità, e l’anomalia, di questa cifra, basta fare il raffronto con lo stesso parametro calcolato sugli Stati Uniti: l’insieme patrimoniale di tutte le banche USA è pari all’80% del volume di tutto il Prodotto Lordo statunitense.
Quindi si capisce agevolmente che le banche europee sono largamente sottocapitalizzate e pertanto sottoposte ad un livello del rischio di default (fallimento) molto più elevato.
Si capisce altrettanto bene però che con queste dimensioni patrimoniali nessun paese si può permettere di far fallire le proprie banche e pertanto... “a mali estremi, estremi rimedi”, si salvano le banche sostenendole con aiuti di Stato (in inglese il “bailout”), oppure con le nazionalizzazioni (sempre più rare però, perché non conviene ai banchieri).
Quindi il famoso “too big to fail” (troppo grandi per fallire) pronunciato nel 2008 come motivo per salvare con denaro pubblico le grandi banche americane, è tuttora in piena applicazione anche in Europa, soltanto che, visto cosa stava per succedere negli USA, gli europei non si azzardano a lasciarne fallire nemmeno una (di quelle molto grosse).
Fino a circa metà degli anni 90 esisteva sia in Europa che in America una legge che teneva nettamente separata l’attività delle banche ordinarie da quella delle banche d’affari o d’investimenti (dette anche di medio-termine). Per effetto di questa legge in Italia le banche ordinarie potevano fare solo operazioni ordinarie con durata fino a 18 mesi, gli Istituti di credito a medio termine potevano fare solo operazioni con durata da 18 mesi in su. La differenza sostanziale però era nella forma di approvvigionamento dei capitali necessari a finanziare queste attività. Le prime (le banche ordinarie) si finanziavano massimamente con i depositi dei correntisti e con i depositi del risparmio a breve. Le seconde (gli Istituti di medio termine), non avendo sportelli per i conti correnti, si dovevano finanziare con l’emissione di certificati di deposito, perlopiù vincolati fino a scadenza, superiore ai 18 mesi.
In questo modo veniva evitato che il denaro depositato a breve andasse a finanziare prestiti a scadenza lontana. Con l’invenzione della “cartolarizzazione” del debito, cioè la trasformazione di un debito a scadenza lunga (per es. i mutui) in titoli a risparmio trattati quotidianamente in borsa, si è pensato che quella prudenza non fosse più necessaria (Greenspan convinse Clinton in questo senso) e la legge venne abolita prima negli USA e poi in tutta Europa.
Ma nel 2008 si è visto che quell’assunto era solo un illusione.
Il mercato non si regola da solo, compete e basta. Lo squilibrio che si era formato tra un debito di durata ultradecennale (i mutui di 20 o 30 anni) e il loro derivato finanziario, trasformato in titoli al portatore che possono essere messi all’incasso tutti insieme nella stessa giornata, ha funzionato finché il mercato delle case e quello dei mutui è stato in crescita, ma quando è crollato e tutti (o buona parte) di quei possessori dei derivati finanziari hanno cercato tutti assieme di rientrare in possesso del loro credito, la crisi di liquidità è esplosa repentinamente, e le banche hanno rischiato tutte di fare la fine che ha fatto la Lehman Brother, cioè fallire.
Allora qualcuno, tra i pochi nelle stanze dei bottoni che sembrano non del tutto legati al grande carrozzone, ha pensato che, non riuscendo a imporre legislativamente il ritorno della vecchia legge che separava le banche (negli Usa era la Glass-Steagall, in Italia il DPR 601), si sarebbe potuto ottenere più o meno lo stesso risultato separando quelle diverse attività all’interno della stessa banca. In Europa è stato in questi giorni Erkky Liikanen, delegato Europeo per la Banca Centrale Finlandese, a proporre ufficialmente di intervenire con la nuova regola sulle banche mettendo un differente parametro di capitalizzazione per i due comparti al fine di limitare il rischio proveniente dall’esagerata esposizione proveniente dalle operazioni sui derivati finanziari.
Ovviamente, poiché il capitale proprio della banca è uno solo, il parametro diverso funzionerebbe per stabilire l’ammontare massimo delle operazioni sui derivati, che dovrebbe essere più rigido rispetto all’altro parametro, rivolto invece ad operazioni ordinarie molto meno rischiose.
Questa proposta, che per le banche sarebbe certamente il male minore rispetto a quella di ripristinare le leggi anni ‘90, si scontra però con la già annunciata opposizione dei grandi banchieri, i quali lamentano che costringerebbe le loro banche a sostenere un grande onere amministrativo per creare all’interno della stessa banca due separate contabilità.
Questo appare palesemente come un grande pretesto per non fare niente, dato che ogni grande banca ha già separate contabilità per ogni comparto di attività, ci mancherebbe altro!
Il tutto si riunisce poi nel bilancio aggregato e consolidato.
Quello che le banche non riuscirebbero a fare non è la separata contabilità, ma la capitalizzazione per mantenere adeguato il volume di attività rischiose. Questo è il principale motivo, insieme alla completa avversione per le “ingerenze” dei politici, per cui la proposta non piace e viene già contestata.
Riusciranno i nostri baldi politici a fargliela digerire?
È quasi impossibile. Io prevedo che il destino del povero Liikanen e dei suoi (pochi) alleati, sia lo stesso di quei cow boy che pretendono di cavalcare i tori.
di Roberto Marchesi
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15 ottobre 2012
Domare i banchieri non è facile come domare i tori
Ovviamente tutti sanno che in nessun caso è facile domare un toro, anzi, è del tutto impossibile. È vero che qui in Texas, nei numerosi rodei che vengono organizzati un po’ ovunque, diversi cow boys si cimentano nella gara a chi resiste di più in groppa ad un toro inferocito, ma solo i campioni resistono più di una dozzina di secondi, e molti finiscono a terra molto prima, qualcuno con un po’ di ossa rotte.
Quindi quello che voglio dire è che, se domare i tori è impossibile, anche sperare di piegare i banchieri a fare ciò che non vogliono lo è in uguale misura. Loro sono troppo più forti di quelli che vorrebbero cavalcarli per accettare di essere cavalcati.
Perché ho fatto questa similitudine? Perché proprio in questi giorni qualcuno in Europa ha finalmente avanzato una proposta, pur piccola ma seria, per risolvere il problema delle banche europee diventate troppo grosse.
Essere grosse fa bene alle banche (finché non arrivano le crisi) ma fa male alla gente, perché quando le banche sono troppo grosse fanno quello che vogliono limitandosi (più o meno) a rispettare ciò che impongono le leggi. Includendo però in questo assunto anche il potere occulto di ottenere dai Parlamenti le leggi che fanno loro comodo.
Ma quanto sono grandi queste banche per riuscire ad imporre a nazioni intere, e persino a grandi federazioni di Stati, come gli USA e l’Europa, i loro interessi?
Lo dice, con una semplice comparazione, Jan Pieter Krahnen professore di Scienza delle Finanze all’Università di Francoforte (Germania): l’insieme di tutto il patrimonio delle banche europee è pari al 350% il volume di tutto il Prodotto Lordo della Comunità Europea. Vale a dire che le banche europee amministrano un patrimonio (cioè capitale proprio + debiti) che è tre volte e mezzo il valore di tutto quello che si produce in Europa. Ciò può significare due cose: o che hanno molte operazioni sull’estero, o che hanno in deposito nel patrimonio molta aria fritta (leggi: crediti inesigibili). Probabilmente sono vere un po’ entrambe le cose.
Ma per capire l’entità, e l’anomalia, di questa cifra, basta fare il raffronto con lo stesso parametro calcolato sugli Stati Uniti: l’insieme patrimoniale di tutte le banche USA è pari all’80% del volume di tutto il Prodotto Lordo statunitense.
Quindi si capisce agevolmente che le banche europee sono largamente sottocapitalizzate e pertanto sottoposte ad un livello del rischio di default (fallimento) molto più elevato.
Si capisce altrettanto bene però che con queste dimensioni patrimoniali nessun paese si può permettere di far fallire le proprie banche e pertanto... “a mali estremi, estremi rimedi”, si salvano le banche sostenendole con aiuti di Stato (in inglese il “bailout”), oppure con le nazionalizzazioni (sempre più rare però, perché non conviene ai banchieri).
Quindi il famoso “too big to fail” (troppo grandi per fallire) pronunciato nel 2008 come motivo per salvare con denaro pubblico le grandi banche americane, è tuttora in piena applicazione anche in Europa, soltanto che, visto cosa stava per succedere negli USA, gli europei non si azzardano a lasciarne fallire nemmeno una (di quelle molto grosse).
Fino a circa metà degli anni 90 esisteva sia in Europa che in America una legge che teneva nettamente separata l’attività delle banche ordinarie da quella delle banche d’affari o d’investimenti (dette anche di medio-termine). Per effetto di questa legge in Italia le banche ordinarie potevano fare solo operazioni ordinarie con durata fino a 18 mesi, gli Istituti di credito a medio termine potevano fare solo operazioni con durata da 18 mesi in su. La differenza sostanziale però era nella forma di approvvigionamento dei capitali necessari a finanziare queste attività. Le prime (le banche ordinarie) si finanziavano massimamente con i depositi dei correntisti e con i depositi del risparmio a breve. Le seconde (gli Istituti di medio termine), non avendo sportelli per i conti correnti, si dovevano finanziare con l’emissione di certificati di deposito, perlopiù vincolati fino a scadenza, superiore ai 18 mesi.
In questo modo veniva evitato che il denaro depositato a breve andasse a finanziare prestiti a scadenza lontana. Con l’invenzione della “cartolarizzazione” del debito, cioè la trasformazione di un debito a scadenza lunga (per es. i mutui) in titoli a risparmio trattati quotidianamente in borsa, si è pensato che quella prudenza non fosse più necessaria (Greenspan convinse Clinton in questo senso) e la legge venne abolita prima negli USA e poi in tutta Europa.
Ma nel 2008 si è visto che quell’assunto era solo un illusione.
Il mercato non si regola da solo, compete e basta. Lo squilibrio che si era formato tra un debito di durata ultradecennale (i mutui di 20 o 30 anni) e il loro derivato finanziario, trasformato in titoli al portatore che possono essere messi all’incasso tutti insieme nella stessa giornata, ha funzionato finché il mercato delle case e quello dei mutui è stato in crescita, ma quando è crollato e tutti (o buona parte) di quei possessori dei derivati finanziari hanno cercato tutti assieme di rientrare in possesso del loro credito, la crisi di liquidità è esplosa repentinamente, e le banche hanno rischiato tutte di fare la fine che ha fatto la Lehman Brother, cioè fallire.
Allora qualcuno, tra i pochi nelle stanze dei bottoni che sembrano non del tutto legati al grande carrozzone, ha pensato che, non riuscendo a imporre legislativamente il ritorno della vecchia legge che separava le banche (negli Usa era la Glass-Steagall, in Italia il DPR 601), si sarebbe potuto ottenere più o meno lo stesso risultato separando quelle diverse attività all’interno della stessa banca. In Europa è stato in questi giorni Erkky Liikanen, delegato Europeo per la Banca Centrale Finlandese, a proporre ufficialmente di intervenire con la nuova regola sulle banche mettendo un differente parametro di capitalizzazione per i due comparti al fine di limitare il rischio proveniente dall’esagerata esposizione proveniente dalle operazioni sui derivati finanziari.
Ovviamente, poiché il capitale proprio della banca è uno solo, il parametro diverso funzionerebbe per stabilire l’ammontare massimo delle operazioni sui derivati, che dovrebbe essere più rigido rispetto all’altro parametro, rivolto invece ad operazioni ordinarie molto meno rischiose.
Questa proposta, che per le banche sarebbe certamente il male minore rispetto a quella di ripristinare le leggi anni ‘90, si scontra però con la già annunciata opposizione dei grandi banchieri, i quali lamentano che costringerebbe le loro banche a sostenere un grande onere amministrativo per creare all’interno della stessa banca due separate contabilità.
Questo appare palesemente come un grande pretesto per non fare niente, dato che ogni grande banca ha già separate contabilità per ogni comparto di attività, ci mancherebbe altro!
Il tutto si riunisce poi nel bilancio aggregato e consolidato.
Quello che le banche non riuscirebbero a fare non è la separata contabilità, ma la capitalizzazione per mantenere adeguato il volume di attività rischiose. Questo è il principale motivo, insieme alla completa avversione per le “ingerenze” dei politici, per cui la proposta non piace e viene già contestata.
Riusciranno i nostri baldi politici a fargliela digerire?
È quasi impossibile. Io prevedo che il destino del povero Liikanen e dei suoi (pochi) alleati, sia lo stesso di quei cow boy che pretendono di cavalcare i tori.
di Roberto Marchesi
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