01 marzo 2009
I nuovi rapporti di forza internazionali.
Del Prof. Nico Perrone (professore di Storia dell’America e Storia Contemporanea all’Università di Bari) posso dire di avere un ottimo ricordo personale essendo stato il relatore, nel 2002, del mio lavoro di laurea sulla Storia e l’ideologia del Black Panther Party. Approfitto dell’occasione per ringraziarlo pubblicamente dei consigli che ha saputo darmi, in un periodo giovanile nel quale prevale spesso l’infervoramento dottrinario rispetto al più perspicuo ragionamento scientifico (G.P.)
Benvenuto Prof. Perrone. Ho chiesto agli altri membri del nostro gruppo (riunito intorno ai lavori teorici del prof. Gianfranco La Grassa) di poterle fare qualche domanda, in un momento storico così difficile per l’economia mondiale e la situazione politica del nostro Paese. Lei, oltre ad essere esperto di affari internazionali e di politica italiana, è tra i massimi conoscitori delle vicende di una delle più importanti imprese di punta della nazione, l’ENI, oltreché del suo storico presidente Enrico Mattei.
Detto ciò mi sembrava fruttuoso discutere con Lei di alcune questioni.
G.P. - Come valuta, in questo momento storico di ridefinizione dei rapporti di forza a livello
internazionale – con l’entrata del mondo in una fase pienamente multipolare che segna la fine del monocentrismo americano e il riaffacciarsi sullo scacchiere internazionale di vecchie e nuove potenze - la strategia di alleanze tra imprese del settore energetico che vede la nostra Eni e la russa Gazprom in piena comunità d’intenti? Tale alleanza sembra non piacere molto agli americani che puntano, invece, ad isolare la Russia e ad aggirare i suoi rifornimenti di gas attraverso progetti alternativi come il Nabucco, sul quale anche la BEI (Banca Europea Investimenti) si dice pronta a mettere il suo imprimatur, finanziando il 25% del costo totale del progetto. La strada più lungimirante per il nostro Paese, anche in previsione della costruzione di una politica estera meno supina a Washington, sarebbe invece quella intrapresa con il progetto South Stream che vede, ancora una volta, protagoniste l’Eni e la Gazprom (e i rispettivi governi). E’ possibile che si creeranno attriti molto forti con gli Usa simili a quelli che segnarono il destino di Mattei? Certamente Scaroni non è Mattei, diversa la capacità manageriale, diversa la visione complessiva del mondo, in un contesto internazionale nemmeno lontanamente paragonabile a quello della Guerra fredda, tuttavia, crede che l’attuale Ad di Eni si stia muovendo bene nei suoi rapporti con la politica interna e con i partner economici stranieri?
N.P. - I rapporti di forza sono cambiati per due ragioni. Il terrorismo, ha fortemente ridimensionato il peso strategico delle armi nucleari. Perché gli attentati possono seminare danni mirati e micidiali e se sono bene organizzati non ci sono armi che servano. Mentre la crisi finanziaria sta dimostrando la grande vulnerabilità di grandi potenze. Dell'ENI, dopo che lo stato italiano ne ha ceduto il controllo riducendo le proprie partecipazioni dal 100 per cento a un esiguo ? per cento, preferirei non parlare: non è più un fattore di forza del nostro paese, ma una multinazionale nella quale lo stato italiano conserva una significativa partecipazione di minoranza. Francia e Germania invece, sono state fermissime - con governi di qualsiasi colore politico - a mantenere il controllo dello stato nelle aziende strategiche.
G.P. - In Italia esiste un partito filo-americano, trasversale alla destra e alla sinistra, che tenta di scorporare l’ENI sottraendole la distribuzione per assegnarla alle municipalizzate (più o meno tutte facenti capo al Pd). Tutto ciò avrebbe il “nobile” obiettivo, si dice, di preservare la concorrenza e abbassare i prezzi al consumo, ma mi pare che le cose non stiano effettivamente così. Su questo tema si è fatto sentire anche il presidente di Gazprom il quale in una lettera a Il Giornale, di qualche mese fa, ha dichiarato di non capire le ragioni per cui, in una fase così delicata, i politici italiani si cimentino a depotenziare una delle aziende più forti del proprio tessuto imprenditoriale. Ciò è ancor più grave laddove i russi hanno detto esplicitamente di preferire un interlocutore unico ben strutturato, considerata la strategicità del settore, per accelerare le intese di partnership e rendere, al contempo, più fluido il processo decisionale.
N.P. - Sì, quel partito esiste. Ha presenza maggiore nel centro-sinistra. D'altronde furono proprio i governi di Prodi, Amato e Ciampi (le responsabilità maggiori le ebbe Prodi) a volere il rapido smantellamento delle partecipazioni statali, senza lasciare allo stato il controllo delle aziende strategiche.
G.P. - Dal punto di vista delle alleanze strategiche in campo energetico ugualmente importante è quella stretta dall’Eni con la Sonatrach algerina che è andata approfondendosi in quest’ultimo periodo; tanto più che Berlusconi ha recentemente dichiarato, dopo la vittoria elettorale in Sardegna, di voler far arrivare un gasdotto di quest'ultima sull'isola. C’è una similarità tra queste intese e quelle del passato?
N.P. - In queste alleanze, l'attuale ENI sembra rifarsi in qualche misura alla linea delle alleanze che fu di Mattei
G.P. - Mattei riuscì a rompere il monopolio delle sette sorelle grazie agli accordi vantaggiosi che proponeva ai paesi depositari di risorse. Le molteplici aperture nei confronti dei governi medioorientali, in questo sostenuto dalle correnti non-atlantiste della DC, permisero all’Eni di crearsi un mercato estero molto fiorente. Come Lei ha ben scritto, Enrico Mattei si fece promotore di accordi equilibrati, vedi quello con l’Iran, per convincere tali paesi che i contratti con le imprese italiane erano i più proficui per tutti. In Iran, per esempio, l’accordo siglato nel ‘57, prevedeva che il 50% dei proventi delle attività estrattive sarebbero andati direttamente allo Stato iraniano, mentre un altro 25% sarebbe finito nelle casse della NIOC, impresa dello stesso paese. Insomma, il 75% dei guadagni al paese detentore delle risorse energetiche e solo il 25% a chi ci metteva tecnologie e capacità imprenditoriali. Non è forse questo un esempio di come dovrebbe funzionare la collaborazione virtuosa tra paesi sviluppati e second comers? Ci rendiamo conto che Mattei non faceva questo per puro spirito solidaristico, tuttavia esiste un altro caso in cui un first comers si sia comportato alla stessa maniera? La storia non ha ancora fatto luce piena sulla fine di Mattei. Non vogliamo sapere come sono andati realmente i fatti perché un’idea ce l’abbiamo di già. Prescindendo dunque dalla cronistoria, quali sono le sue valutazioni storiche e politiche in merito alla strategia perseguita da Mattei in piena fase bipolare?
N.P. - Mattei fece politica estera con quegli accordi. Non dimentichiamo che nelle posizioni formalmente cruciali dello stato, c'erano il presidente del consiglio Fanfani e il presidente della Repubblica. La rottura delle condizioni del mercato realizzata da Mattei, tatticamente servì, anzi era indispensabile, ma dal punto di visto finanziario non poteva reggere a lungo, anche perché i giacimenti trovati non furono particolarmente vantaggiosi per l'Italia
G.P. - Mattei non gradiva gli stereotipi sugli italiani e mal digeriva l’accostamento che spesso si faceva all’estero del nostro popolo, mangiatore di spaghetti e suonatore di mandolino. Il ruolo internazionale dell’Italia è andato, dalla morte di Mattei in poi, accostandosi ad un sempre più basso profilo. Esiste secondo Lei la possibilità di invertire questa nefasta rotta e come?
N.P. - Credo che sugli spaghetti, Mattei sbagliasse: sono oggi una voce importante delle esportazioni. A parte il vantaggio culturale di avere diffuso nel mondo questa abitudine italiana. Il momento per la politica estera italiana, da qualche anno è infelice. Eravamo nella NATO ma facevamo sentire la nostra voce con tanti utili dissensi. In anni più recenti invece abbiamo rinunciato a fare una politica estera autonoma, e con D'Alema ci siamo accodati agli USA in posizione acritica, fino al punto di partecipare - contro la nostra costituzione – a qualche guerra.
Banche allo Stato, il potere gli Altri
Il cosiddetto salvataggio delle banche non può essere definito altrimenti, per il fatto che nel nostro sistema sono le banche a creare dal niente la moneta legale attraverso il meccanismo del “cinquantato credito” che deriva dal sistema della “riserva frazionaria” al 2%. Il valore di questa moneta bancaria pesca nel potere d’acquisto della collettività. Un esproprio silenzioso, paragonato al ladro che si introduce nottetempo nelle case per rubare ai cittadini ignari. Un meccanismo criminale, usato per affermare e promuovere una élite degna figlia di quel sistema. Si assiste così alla negazione plausibile della causa criminale della crisi che, come quella del 1929, viene portata avanti attraverso la contrazione dello sfintere bancario del credito. A che serve? Senza circolazione monetaria si crea una deflazione artificiale dei prezzi, fin quando il cittadino in bancarotta sarà costretto a cedere i suoi beni reali a due palle un soldo. Sempre sperando che nel frattempo non scopra la verità, e cioè che il 100% delle tasse trattenute in busta serve per ripagare l’inutile debito pubblico acquistato (con lo sconto) in prima battuta dalle banche. Debito inutile perché l’élite sa bene che se la funzione monetaria e creditizia fosse esercitata direttamente dallo Stato, tale debito non esisterebbe. Basterebbe emettere biglietti di Stato a corso legale (come accadeva con le 500 lire) che non creano debito pubblico e nemmeno enormi profitti privati. La diffusione dell’informazione in Rete sta aumentando la consapevolezza dei cittadini che cominciano a chiedersi se i governi siano solo specchietti per allodole che occultano ‘arricchimento di alcune èlite. Cominciano a dubitare che lo Stato sia diventato esattore per conto di una congrega di banchieri nati stanchi. Si chiedono se il Trattato ribattezzato di “Matrix” con la cessione della sovranità monetaria ai banchieri privati che si nascondono dietro la BCE, abbia rappresentato un atto di alto tradimento firmato da Cossiga, De Michelis, Carli e Andreotti. Dubitano che se le tasse servono a pagare il pizzo alla rendita monetaria privata, farebbero bene a ricorrere al nero ed ai paradisi fiscali. Durante il fascismo i partigiani venivano chiamati terroristi. Come saranno chiamati gli evasori fiscali? I resistenti al pizzo del signoraggio nella Terza Repubblica dove lo Stato non dovrà più nascondersi dietro ai suoi segreti monetari? Ma soprattutto, come ci arriveremo a questa Terza Repubblica? Col sangue per le strade? Dobbiamo aspettare che la Polizia spari sui civili, sui disoccupati ed i poveracci per vedere riforme sensate? Ecco alcune modeste proposte per una transizione a bassa intensità. Introduzione della valuta Amazonida, adottata al Forum di Belèm (BRA) in concomitanza col Forum di Davos. Il principio di copertura valutaria già proposta da Giuseppe Mazzini ne “I doveri dell’uomo” del 1860, prevede l’istituzione di luoghi di deposito pubblici, dai quali, accertato il valore approssimativo delle merci consegnate, si rilascia un documento simile a un biglietto bancario, ammesso alla circolazione e allo sconto, tanto da render capace l’Associazione di poter continuare nei suoi lavori e di non essere strozzata dalla necessità d’una vendita immediata e a ogni patto”. La logica è semplice: si immettono sul mercato sia le merci (ed i servizi) che il mezzo congruo per poterle transare, senza bisogno di acquisire ad usura questo mezzo monetario, e quindi impedendo alle banche di intromettersi coi loro diktat strampalati nel libero commercio tra i cittadini. La proposta di adottare monete locali e/o complementari non attua - in queste condizioni - lo scopo più ampio della redistribuzione della ricchezza in senso lato, poiché si tratta di iniziative per forza di cose limitate dal punto di vista dell’impatto economico. Però svolgono una critica duplice funzione: fanno riflettere i cittadini sulla reale funzione e natura della moneta. Permettono di abituare la cittadinanza all’uso di un nuovo mezzo che potrebbe rivelarsi cruciale, nel caso molto prevedibile, di un abbandono brusco ed immediato del sistema a corso forzoso. E’ uno strumento su cui reindirizzare la fiducia che la cittadinanza sta ritirando dal sistema economico-politico attuale. La sua adozione su vasta scala costerebbe poco rispetto alle iniziative al vaglio dei G7. La stimo in circa due miliardi di euro una sua implementazione su scala europea nel giro di 6-12 mesi. La maggior spesa sarebbe nell’informare e istruire la cittadinanza, quindi nei mezzi di comunicazione di massa. Soluzione molto più sensata ed economica del ricorrere ad un indebitamento pari a 50.000 euro per ogni cittadino europeo per salvare un sistema corrotto e già condannato. Nell’improbabile ipotesi che venga scelta questa strada, le autorità statali potrebbero attivare istituzioni gia esistenti per la gestione dell’emissione dei biglietti di stato a corso legale: Banca d’Italia (post rinazionalizzazione), Cassa DD PP, Tesoreria dello Stato, sportelli delle Poste, codice fiscale come identificativo univoco del conto di cittadinanza, sedi distaccate della Banca d’Italia per la supervisione delle monete regionali, etc. Strada che va tentata perché di fronte ai venti di guerra civile che arrivano dagli Stati Uniti, nessuna precauzione va tralasciata. Sempre che non si voglia trasformare l’Europa in un enorme campo di concentramento economico, ma anche in questo caso non sarebbe da escludere la moneta locale, così come venne adottata nel campo di concentramento di Theresienstadt.
Marco Saba
22 febbraio 2009
Politici...(pernacchia)... andate a casa
Lo
slogan, già usato per la crisi Argentina, riecheggia ora nelle piazze
di mezzo mondo. Perché al crollo provocato dal libero mercato i governi
oppongono le stesse ricette colpendo i più deboli. Saranno spazzati
via a breve ? Un augurio o una speranza?
La
folla che in Islanda ha sbattuto pentole e tegami, fino a provocare la
caduta del governo contestato, mi ha fatto tornare alla mente lo slogan
in voga nei circoli anticapitalistici nel 2002: 'Voi siete l'Enron. Noi
siamo l'Argentina'. Il messaggio era molto semplice: voi, politici e
amministratori delegati riuniti in qualche summit economico, siete come
quei dirigenti sconsiderati e truffaldini della Enron (e naturalmente
non conoscevamo che la punta dell'iceberg). Noi, ovvero la plebaglia lì
fuori, siamo come il popolo argentino che, nel bel mezzo di una crisi
economica spaventosamente simile alla nostra, scese in piazza sbattendo
pentole e tegami.
Gridando 'Que se vayan todos' (devono andare
via tutti) costrinsero alle dimissioni quattro presidenti, uno dopo
l'altro, in tre settimane. La rivolta in Argentina nel 2001-2002 è
stata unica perché non mirava a un particolare partito politico o alla
corruzione in generale. L'obiettivo era il modello economico dominante.
È stata infatti la prima rivolta nazionale contro il moderno
capitalismo deregolamentato. È servito un po' di tempo, ma dall'Islanda
alla Lettonia, dalla Corea del Sud alla Grecia, alla fine anche per il
resto del mondo è arrivato il momento del 'Que se vayan todos'.
Le
stoiche matriarche islandesi che battevano le loro pentole, con i figli
che saccheggiavano il frigo in cerca di proiettili (va bene le uova, ma
lo yogurt?) richiamano alla mente le tattiche divenute famose a Buenos
Aires. Ma anche la rabbia collettiva verso chi deteneva il potere,
portando alla rovina un Paese un tempo florido pensando di poterla fare
franca.
Gudrun Jonsdottir, una trentaseienne impiegata
islandese, ha sintetizzato così: "Ne ho abbastanza di tutto quanto. Non
ho fiducia nel governo, non ho fiducia nelle banche, non ho fiducia nei
partiti politici e neanche nel Fondo monetario internazionale. Avevamo
un Paese forte e loro lo hanno rovinato". Ecco un altro richiamo alla
situazione argentina: a Reykjavik i manifestanti ovviamente non si
accontentano di un volto nuovo posto al vertice (anche se il neo primo
ministro è una donna omosessuale). Vogliono aiuti per la popolazione,
non solo per le banche, indagini sulle responsabilità del collasso e
una profonda riforma elettorale.
Richieste simili le sentiamo
in questi giorni anche in Lettonia, dove l'economia ha subito una
contrazione più forte che negli altri paesi europei e dove il governo
vacilla pericolosamente. Per diverse settimane le proteste hanno messo
in subbuglio la capitale, e il 13 gennaio si sono verificati anche
tafferugli e lanci di pietre. Come in Islanda, anche i lettoni sono
sconcertati di fronte al rifiuto dei governanti di assumersi le
responsabilità del disastro. Alla domanda dell'emittente televisiva
Bloomberg su quali fossero le cause della crisi, il ministro
dell'Economia lettone ha risposto: "Nulla di particolare".
I
problemi della Lettonia invece sono davvero 'particolari'. Le stesse
politiche che nel 2006 avevano consentito alla 'Tigre del Baltico' di
crescere del 12 per cento, sono anche la causa della violenta
contrazione di quest'anno, che secondo le previsioni dovrebbe arrivare
al 10 per cento. Quando il denaro è liberato da qualsiasi vincolo,
defluisce con la stessa rapidità con cui affluisce, considerando anche
che una buona quantità finisce nelle tasche dei politici. (Non è una
coincidenza che molti dei casi disperati di oggi siano i 'miracoli' di
ieri: Irlanda, Estonia, Islanda e Lettonia).
Ma c'è qualche
altra cosa di 'argentino' nell'aria. Nel 2001 in Argentina i leader
risposero alla crisi con un pacchetto all'insegna dell'austerity,
sollecitato dal Fondo monetario internazionale: 9 miliardi di dollari
furono tagliati alla spesa pubblica, in particolare alla sanità e
all'istruzione. Questo si è dimostrato un errore fatale. I sindacati
organizzarono uno sciopero generale, gli insegnanti portarono le loro
classi nelle piazze e le rivolte sembrarono non aver fine.
Il
medesimo rifiuto popolare a sopportare il peso maggiore della crisi
accomuna le proteste attuali. In Lettonia, gran parte della rabbia dei
cittadini è provocata dalle misure di austerity prese dal governo -
licenziamenti in massa, servizi assistenziali ridotti, stipendi dei
dipendenti pubblici diminuiti - e tutto per poter accedere al prestito
d'emergenza del Fmi (no, non è cambiato nulla). In Grecia i tafferugli
di dicembre sono seguiti all'uccisione da parte della polizia di un
ragazzo quindicenne.
Ma quello che li ha alimentati, anche
quando gli studenti hanno ceduto il comando agli agricoltori, è stata
la diffusa rabbia per la risposta del governo alla crisi: le banche
hanno ottenuto un finanziamento di 36 miliardi di dollari, mentre i
lavoratori si sono visti tagliare le pensioni e gli agricoltori non
hanno ricevuto quasi nulla. Malgrado i grandi inconvenienti causati dai
blocchi stradali posti dai manifestanti, il 78 per cento dei greci ha
dichiarato che le loro richieste erano giustificate. In modo simile, in
Francia il recente sciopero generale, provocato in parte dai piani del
presidente Sarkozy per ridurre drasticamente il numero degli
insegnanti, ha ottenuto l'approvazione del 70 per cento della
popolazione.
È probabile che il principale filo conduttore di
questa violenta reazione a livello mondiale sia il rigetto per la
logica della 'terapia dello shock' - espressione coniata dal politico
polacco Leszek Bacerowicz, per descrivere come nel corso di una crisi i
governanti possano accantonare le leggi e andare dritti verso 'riforme'
economiche impopolari. Questo espediente è diventato obsoleto, come ha
recentemente scoperto il governo della Corea del Sud. A dicembre il
partito al potere ha cercato di servirsi della crisi per far approvare
a tutti i costi un contrastato accordo di libero scambio con gli Stati
Uniti. Interpretando in maniera estrema la politica 'delle porte
chiuse', i legislatori si sono rinserrati nell'aula per votare in
privato, barricando la porta con tavolini, sedie e divani.
I
parlamentari dell'opposizione non sono rimasti a guardare, e servendosi
di mazze e persino di una sega elettrica, hanno fatto irruzione,
occupando il Parlamento per 12 giorni. Il voto è stato rimandato per
consentire un dibattito più prolungato. Una vittoria sulla 'terapia
dello shock'. Qui in Canada la politica è decisamente meno da filmato
suYouTube, ma è stata comunque sorprendentemente movimentata. In
ottobre il partito conservatore ha vinto le elezioni nazionali con un
programma poco ambizioso.
Sei settimane dopo, il nostro primo
ministro 'tory' ha scoperto l'ideologo che è in lui, presentando una
legge finanziaria che privava i dipendenti statali del diritto allo
sciopero, eliminava i fondi pubblici ai partiti e non conteneva alcun
incentivo allo sviluppo economico. I partiti dell'opposizione in
risposta hanno formato una coalizione storica, che non ha potuto
prendere il potere solo a causa dell'improvvisa sospensione del
Parlamento. I conservatori si sono da poco ripresentati con un piano
modificato, in cui sono spariti i provvedimenti preferiti della destra
e sono apparsi numerosi incentivi all'economia.
Il concetto è
chiaro: i governi che reagiscono alla crisi provocata dall'ideologia
del libero mercato insistendo sullo stesso programma contestato,
avranno vita breve. Come gridavano gli studenti italiani in piazza
durante i cortei dello scorso autunno: 'Non pagheremo noi la vostra
crisi'.
di Naomi Klein
01 marzo 2009
I nuovi rapporti di forza internazionali.
Del Prof. Nico Perrone (professore di Storia dell’America e Storia Contemporanea all’Università di Bari) posso dire di avere un ottimo ricordo personale essendo stato il relatore, nel 2002, del mio lavoro di laurea sulla Storia e l’ideologia del Black Panther Party. Approfitto dell’occasione per ringraziarlo pubblicamente dei consigli che ha saputo darmi, in un periodo giovanile nel quale prevale spesso l’infervoramento dottrinario rispetto al più perspicuo ragionamento scientifico (G.P.)
Benvenuto Prof. Perrone. Ho chiesto agli altri membri del nostro gruppo (riunito intorno ai lavori teorici del prof. Gianfranco La Grassa) di poterle fare qualche domanda, in un momento storico così difficile per l’economia mondiale e la situazione politica del nostro Paese. Lei, oltre ad essere esperto di affari internazionali e di politica italiana, è tra i massimi conoscitori delle vicende di una delle più importanti imprese di punta della nazione, l’ENI, oltreché del suo storico presidente Enrico Mattei.
Detto ciò mi sembrava fruttuoso discutere con Lei di alcune questioni.
G.P. - Come valuta, in questo momento storico di ridefinizione dei rapporti di forza a livello
internazionale – con l’entrata del mondo in una fase pienamente multipolare che segna la fine del monocentrismo americano e il riaffacciarsi sullo scacchiere internazionale di vecchie e nuove potenze - la strategia di alleanze tra imprese del settore energetico che vede la nostra Eni e la russa Gazprom in piena comunità d’intenti? Tale alleanza sembra non piacere molto agli americani che puntano, invece, ad isolare la Russia e ad aggirare i suoi rifornimenti di gas attraverso progetti alternativi come il Nabucco, sul quale anche la BEI (Banca Europea Investimenti) si dice pronta a mettere il suo imprimatur, finanziando il 25% del costo totale del progetto. La strada più lungimirante per il nostro Paese, anche in previsione della costruzione di una politica estera meno supina a Washington, sarebbe invece quella intrapresa con il progetto South Stream che vede, ancora una volta, protagoniste l’Eni e la Gazprom (e i rispettivi governi). E’ possibile che si creeranno attriti molto forti con gli Usa simili a quelli che segnarono il destino di Mattei? Certamente Scaroni non è Mattei, diversa la capacità manageriale, diversa la visione complessiva del mondo, in un contesto internazionale nemmeno lontanamente paragonabile a quello della Guerra fredda, tuttavia, crede che l’attuale Ad di Eni si stia muovendo bene nei suoi rapporti con la politica interna e con i partner economici stranieri?
N.P. - I rapporti di forza sono cambiati per due ragioni. Il terrorismo, ha fortemente ridimensionato il peso strategico delle armi nucleari. Perché gli attentati possono seminare danni mirati e micidiali e se sono bene organizzati non ci sono armi che servano. Mentre la crisi finanziaria sta dimostrando la grande vulnerabilità di grandi potenze. Dell'ENI, dopo che lo stato italiano ne ha ceduto il controllo riducendo le proprie partecipazioni dal 100 per cento a un esiguo ? per cento, preferirei non parlare: non è più un fattore di forza del nostro paese, ma una multinazionale nella quale lo stato italiano conserva una significativa partecipazione di minoranza. Francia e Germania invece, sono state fermissime - con governi di qualsiasi colore politico - a mantenere il controllo dello stato nelle aziende strategiche.
G.P. - In Italia esiste un partito filo-americano, trasversale alla destra e alla sinistra, che tenta di scorporare l’ENI sottraendole la distribuzione per assegnarla alle municipalizzate (più o meno tutte facenti capo al Pd). Tutto ciò avrebbe il “nobile” obiettivo, si dice, di preservare la concorrenza e abbassare i prezzi al consumo, ma mi pare che le cose non stiano effettivamente così. Su questo tema si è fatto sentire anche il presidente di Gazprom il quale in una lettera a Il Giornale, di qualche mese fa, ha dichiarato di non capire le ragioni per cui, in una fase così delicata, i politici italiani si cimentino a depotenziare una delle aziende più forti del proprio tessuto imprenditoriale. Ciò è ancor più grave laddove i russi hanno detto esplicitamente di preferire un interlocutore unico ben strutturato, considerata la strategicità del settore, per accelerare le intese di partnership e rendere, al contempo, più fluido il processo decisionale.
N.P. - Sì, quel partito esiste. Ha presenza maggiore nel centro-sinistra. D'altronde furono proprio i governi di Prodi, Amato e Ciampi (le responsabilità maggiori le ebbe Prodi) a volere il rapido smantellamento delle partecipazioni statali, senza lasciare allo stato il controllo delle aziende strategiche.
G.P. - Dal punto di vista delle alleanze strategiche in campo energetico ugualmente importante è quella stretta dall’Eni con la Sonatrach algerina che è andata approfondendosi in quest’ultimo periodo; tanto più che Berlusconi ha recentemente dichiarato, dopo la vittoria elettorale in Sardegna, di voler far arrivare un gasdotto di quest'ultima sull'isola. C’è una similarità tra queste intese e quelle del passato?
N.P. - In queste alleanze, l'attuale ENI sembra rifarsi in qualche misura alla linea delle alleanze che fu di Mattei
G.P. - Mattei riuscì a rompere il monopolio delle sette sorelle grazie agli accordi vantaggiosi che proponeva ai paesi depositari di risorse. Le molteplici aperture nei confronti dei governi medioorientali, in questo sostenuto dalle correnti non-atlantiste della DC, permisero all’Eni di crearsi un mercato estero molto fiorente. Come Lei ha ben scritto, Enrico Mattei si fece promotore di accordi equilibrati, vedi quello con l’Iran, per convincere tali paesi che i contratti con le imprese italiane erano i più proficui per tutti. In Iran, per esempio, l’accordo siglato nel ‘57, prevedeva che il 50% dei proventi delle attività estrattive sarebbero andati direttamente allo Stato iraniano, mentre un altro 25% sarebbe finito nelle casse della NIOC, impresa dello stesso paese. Insomma, il 75% dei guadagni al paese detentore delle risorse energetiche e solo il 25% a chi ci metteva tecnologie e capacità imprenditoriali. Non è forse questo un esempio di come dovrebbe funzionare la collaborazione virtuosa tra paesi sviluppati e second comers? Ci rendiamo conto che Mattei non faceva questo per puro spirito solidaristico, tuttavia esiste un altro caso in cui un first comers si sia comportato alla stessa maniera? La storia non ha ancora fatto luce piena sulla fine di Mattei. Non vogliamo sapere come sono andati realmente i fatti perché un’idea ce l’abbiamo di già. Prescindendo dunque dalla cronistoria, quali sono le sue valutazioni storiche e politiche in merito alla strategia perseguita da Mattei in piena fase bipolare?
N.P. - Mattei fece politica estera con quegli accordi. Non dimentichiamo che nelle posizioni formalmente cruciali dello stato, c'erano il presidente del consiglio Fanfani e il presidente della Repubblica. La rottura delle condizioni del mercato realizzata da Mattei, tatticamente servì, anzi era indispensabile, ma dal punto di visto finanziario non poteva reggere a lungo, anche perché i giacimenti trovati non furono particolarmente vantaggiosi per l'Italia
G.P. - Mattei non gradiva gli stereotipi sugli italiani e mal digeriva l’accostamento che spesso si faceva all’estero del nostro popolo, mangiatore di spaghetti e suonatore di mandolino. Il ruolo internazionale dell’Italia è andato, dalla morte di Mattei in poi, accostandosi ad un sempre più basso profilo. Esiste secondo Lei la possibilità di invertire questa nefasta rotta e come?
N.P. - Credo che sugli spaghetti, Mattei sbagliasse: sono oggi una voce importante delle esportazioni. A parte il vantaggio culturale di avere diffuso nel mondo questa abitudine italiana. Il momento per la politica estera italiana, da qualche anno è infelice. Eravamo nella NATO ma facevamo sentire la nostra voce con tanti utili dissensi. In anni più recenti invece abbiamo rinunciato a fare una politica estera autonoma, e con D'Alema ci siamo accodati agli USA in posizione acritica, fino al punto di partecipare - contro la nostra costituzione – a qualche guerra.
Banche allo Stato, il potere gli Altri
Il cosiddetto salvataggio delle banche non può essere definito altrimenti, per il fatto che nel nostro sistema sono le banche a creare dal niente la moneta legale attraverso il meccanismo del “cinquantato credito” che deriva dal sistema della “riserva frazionaria” al 2%. Il valore di questa moneta bancaria pesca nel potere d’acquisto della collettività. Un esproprio silenzioso, paragonato al ladro che si introduce nottetempo nelle case per rubare ai cittadini ignari. Un meccanismo criminale, usato per affermare e promuovere una élite degna figlia di quel sistema. Si assiste così alla negazione plausibile della causa criminale della crisi che, come quella del 1929, viene portata avanti attraverso la contrazione dello sfintere bancario del credito. A che serve? Senza circolazione monetaria si crea una deflazione artificiale dei prezzi, fin quando il cittadino in bancarotta sarà costretto a cedere i suoi beni reali a due palle un soldo. Sempre sperando che nel frattempo non scopra la verità, e cioè che il 100% delle tasse trattenute in busta serve per ripagare l’inutile debito pubblico acquistato (con lo sconto) in prima battuta dalle banche. Debito inutile perché l’élite sa bene che se la funzione monetaria e creditizia fosse esercitata direttamente dallo Stato, tale debito non esisterebbe. Basterebbe emettere biglietti di Stato a corso legale (come accadeva con le 500 lire) che non creano debito pubblico e nemmeno enormi profitti privati. La diffusione dell’informazione in Rete sta aumentando la consapevolezza dei cittadini che cominciano a chiedersi se i governi siano solo specchietti per allodole che occultano ‘arricchimento di alcune èlite. Cominciano a dubitare che lo Stato sia diventato esattore per conto di una congrega di banchieri nati stanchi. Si chiedono se il Trattato ribattezzato di “Matrix” con la cessione della sovranità monetaria ai banchieri privati che si nascondono dietro la BCE, abbia rappresentato un atto di alto tradimento firmato da Cossiga, De Michelis, Carli e Andreotti. Dubitano che se le tasse servono a pagare il pizzo alla rendita monetaria privata, farebbero bene a ricorrere al nero ed ai paradisi fiscali. Durante il fascismo i partigiani venivano chiamati terroristi. Come saranno chiamati gli evasori fiscali? I resistenti al pizzo del signoraggio nella Terza Repubblica dove lo Stato non dovrà più nascondersi dietro ai suoi segreti monetari? Ma soprattutto, come ci arriveremo a questa Terza Repubblica? Col sangue per le strade? Dobbiamo aspettare che la Polizia spari sui civili, sui disoccupati ed i poveracci per vedere riforme sensate? Ecco alcune modeste proposte per una transizione a bassa intensità. Introduzione della valuta Amazonida, adottata al Forum di Belèm (BRA) in concomitanza col Forum di Davos. Il principio di copertura valutaria già proposta da Giuseppe Mazzini ne “I doveri dell’uomo” del 1860, prevede l’istituzione di luoghi di deposito pubblici, dai quali, accertato il valore approssimativo delle merci consegnate, si rilascia un documento simile a un biglietto bancario, ammesso alla circolazione e allo sconto, tanto da render capace l’Associazione di poter continuare nei suoi lavori e di non essere strozzata dalla necessità d’una vendita immediata e a ogni patto”. La logica è semplice: si immettono sul mercato sia le merci (ed i servizi) che il mezzo congruo per poterle transare, senza bisogno di acquisire ad usura questo mezzo monetario, e quindi impedendo alle banche di intromettersi coi loro diktat strampalati nel libero commercio tra i cittadini. La proposta di adottare monete locali e/o complementari non attua - in queste condizioni - lo scopo più ampio della redistribuzione della ricchezza in senso lato, poiché si tratta di iniziative per forza di cose limitate dal punto di vista dell’impatto economico. Però svolgono una critica duplice funzione: fanno riflettere i cittadini sulla reale funzione e natura della moneta. Permettono di abituare la cittadinanza all’uso di un nuovo mezzo che potrebbe rivelarsi cruciale, nel caso molto prevedibile, di un abbandono brusco ed immediato del sistema a corso forzoso. E’ uno strumento su cui reindirizzare la fiducia che la cittadinanza sta ritirando dal sistema economico-politico attuale. La sua adozione su vasta scala costerebbe poco rispetto alle iniziative al vaglio dei G7. La stimo in circa due miliardi di euro una sua implementazione su scala europea nel giro di 6-12 mesi. La maggior spesa sarebbe nell’informare e istruire la cittadinanza, quindi nei mezzi di comunicazione di massa. Soluzione molto più sensata ed economica del ricorrere ad un indebitamento pari a 50.000 euro per ogni cittadino europeo per salvare un sistema corrotto e già condannato. Nell’improbabile ipotesi che venga scelta questa strada, le autorità statali potrebbero attivare istituzioni gia esistenti per la gestione dell’emissione dei biglietti di stato a corso legale: Banca d’Italia (post rinazionalizzazione), Cassa DD PP, Tesoreria dello Stato, sportelli delle Poste, codice fiscale come identificativo univoco del conto di cittadinanza, sedi distaccate della Banca d’Italia per la supervisione delle monete regionali, etc. Strada che va tentata perché di fronte ai venti di guerra civile che arrivano dagli Stati Uniti, nessuna precauzione va tralasciata. Sempre che non si voglia trasformare l’Europa in un enorme campo di concentramento economico, ma anche in questo caso non sarebbe da escludere la moneta locale, così come venne adottata nel campo di concentramento di Theresienstadt.
Marco Saba
22 febbraio 2009
Politici...(pernacchia)... andate a casa
Lo
slogan, già usato per la crisi Argentina, riecheggia ora nelle piazze
di mezzo mondo. Perché al crollo provocato dal libero mercato i governi
oppongono le stesse ricette colpendo i più deboli. Saranno spazzati
via a breve ? Un augurio o una speranza?
La
folla che in Islanda ha sbattuto pentole e tegami, fino a provocare la
caduta del governo contestato, mi ha fatto tornare alla mente lo slogan
in voga nei circoli anticapitalistici nel 2002: 'Voi siete l'Enron. Noi
siamo l'Argentina'. Il messaggio era molto semplice: voi, politici e
amministratori delegati riuniti in qualche summit economico, siete come
quei dirigenti sconsiderati e truffaldini della Enron (e naturalmente
non conoscevamo che la punta dell'iceberg). Noi, ovvero la plebaglia lì
fuori, siamo come il popolo argentino che, nel bel mezzo di una crisi
economica spaventosamente simile alla nostra, scese in piazza sbattendo
pentole e tegami.
Gridando 'Que se vayan todos' (devono andare
via tutti) costrinsero alle dimissioni quattro presidenti, uno dopo
l'altro, in tre settimane. La rivolta in Argentina nel 2001-2002 è
stata unica perché non mirava a un particolare partito politico o alla
corruzione in generale. L'obiettivo era il modello economico dominante.
È stata infatti la prima rivolta nazionale contro il moderno
capitalismo deregolamentato. È servito un po' di tempo, ma dall'Islanda
alla Lettonia, dalla Corea del Sud alla Grecia, alla fine anche per il
resto del mondo è arrivato il momento del 'Que se vayan todos'.
Le
stoiche matriarche islandesi che battevano le loro pentole, con i figli
che saccheggiavano il frigo in cerca di proiettili (va bene le uova, ma
lo yogurt?) richiamano alla mente le tattiche divenute famose a Buenos
Aires. Ma anche la rabbia collettiva verso chi deteneva il potere,
portando alla rovina un Paese un tempo florido pensando di poterla fare
franca.
Gudrun Jonsdottir, una trentaseienne impiegata
islandese, ha sintetizzato così: "Ne ho abbastanza di tutto quanto. Non
ho fiducia nel governo, non ho fiducia nelle banche, non ho fiducia nei
partiti politici e neanche nel Fondo monetario internazionale. Avevamo
un Paese forte e loro lo hanno rovinato". Ecco un altro richiamo alla
situazione argentina: a Reykjavik i manifestanti ovviamente non si
accontentano di un volto nuovo posto al vertice (anche se il neo primo
ministro è una donna omosessuale). Vogliono aiuti per la popolazione,
non solo per le banche, indagini sulle responsabilità del collasso e
una profonda riforma elettorale.
Richieste simili le sentiamo
in questi giorni anche in Lettonia, dove l'economia ha subito una
contrazione più forte che negli altri paesi europei e dove il governo
vacilla pericolosamente. Per diverse settimane le proteste hanno messo
in subbuglio la capitale, e il 13 gennaio si sono verificati anche
tafferugli e lanci di pietre. Come in Islanda, anche i lettoni sono
sconcertati di fronte al rifiuto dei governanti di assumersi le
responsabilità del disastro. Alla domanda dell'emittente televisiva
Bloomberg su quali fossero le cause della crisi, il ministro
dell'Economia lettone ha risposto: "Nulla di particolare".
I
problemi della Lettonia invece sono davvero 'particolari'. Le stesse
politiche che nel 2006 avevano consentito alla 'Tigre del Baltico' di
crescere del 12 per cento, sono anche la causa della violenta
contrazione di quest'anno, che secondo le previsioni dovrebbe arrivare
al 10 per cento. Quando il denaro è liberato da qualsiasi vincolo,
defluisce con la stessa rapidità con cui affluisce, considerando anche
che una buona quantità finisce nelle tasche dei politici. (Non è una
coincidenza che molti dei casi disperati di oggi siano i 'miracoli' di
ieri: Irlanda, Estonia, Islanda e Lettonia).
Ma c'è qualche
altra cosa di 'argentino' nell'aria. Nel 2001 in Argentina i leader
risposero alla crisi con un pacchetto all'insegna dell'austerity,
sollecitato dal Fondo monetario internazionale: 9 miliardi di dollari
furono tagliati alla spesa pubblica, in particolare alla sanità e
all'istruzione. Questo si è dimostrato un errore fatale. I sindacati
organizzarono uno sciopero generale, gli insegnanti portarono le loro
classi nelle piazze e le rivolte sembrarono non aver fine.
Il
medesimo rifiuto popolare a sopportare il peso maggiore della crisi
accomuna le proteste attuali. In Lettonia, gran parte della rabbia dei
cittadini è provocata dalle misure di austerity prese dal governo -
licenziamenti in massa, servizi assistenziali ridotti, stipendi dei
dipendenti pubblici diminuiti - e tutto per poter accedere al prestito
d'emergenza del Fmi (no, non è cambiato nulla). In Grecia i tafferugli
di dicembre sono seguiti all'uccisione da parte della polizia di un
ragazzo quindicenne.
Ma quello che li ha alimentati, anche
quando gli studenti hanno ceduto il comando agli agricoltori, è stata
la diffusa rabbia per la risposta del governo alla crisi: le banche
hanno ottenuto un finanziamento di 36 miliardi di dollari, mentre i
lavoratori si sono visti tagliare le pensioni e gli agricoltori non
hanno ricevuto quasi nulla. Malgrado i grandi inconvenienti causati dai
blocchi stradali posti dai manifestanti, il 78 per cento dei greci ha
dichiarato che le loro richieste erano giustificate. In modo simile, in
Francia il recente sciopero generale, provocato in parte dai piani del
presidente Sarkozy per ridurre drasticamente il numero degli
insegnanti, ha ottenuto l'approvazione del 70 per cento della
popolazione.
È probabile che il principale filo conduttore di
questa violenta reazione a livello mondiale sia il rigetto per la
logica della 'terapia dello shock' - espressione coniata dal politico
polacco Leszek Bacerowicz, per descrivere come nel corso di una crisi i
governanti possano accantonare le leggi e andare dritti verso 'riforme'
economiche impopolari. Questo espediente è diventato obsoleto, come ha
recentemente scoperto il governo della Corea del Sud. A dicembre il
partito al potere ha cercato di servirsi della crisi per far approvare
a tutti i costi un contrastato accordo di libero scambio con gli Stati
Uniti. Interpretando in maniera estrema la politica 'delle porte
chiuse', i legislatori si sono rinserrati nell'aula per votare in
privato, barricando la porta con tavolini, sedie e divani.
I
parlamentari dell'opposizione non sono rimasti a guardare, e servendosi
di mazze e persino di una sega elettrica, hanno fatto irruzione,
occupando il Parlamento per 12 giorni. Il voto è stato rimandato per
consentire un dibattito più prolungato. Una vittoria sulla 'terapia
dello shock'. Qui in Canada la politica è decisamente meno da filmato
suYouTube, ma è stata comunque sorprendentemente movimentata. In
ottobre il partito conservatore ha vinto le elezioni nazionali con un
programma poco ambizioso.
Sei settimane dopo, il nostro primo
ministro 'tory' ha scoperto l'ideologo che è in lui, presentando una
legge finanziaria che privava i dipendenti statali del diritto allo
sciopero, eliminava i fondi pubblici ai partiti e non conteneva alcun
incentivo allo sviluppo economico. I partiti dell'opposizione in
risposta hanno formato una coalizione storica, che non ha potuto
prendere il potere solo a causa dell'improvvisa sospensione del
Parlamento. I conservatori si sono da poco ripresentati con un piano
modificato, in cui sono spariti i provvedimenti preferiti della destra
e sono apparsi numerosi incentivi all'economia.
Il concetto è
chiaro: i governi che reagiscono alla crisi provocata dall'ideologia
del libero mercato insistendo sullo stesso programma contestato,
avranno vita breve. Come gridavano gli studenti italiani in piazza
durante i cortei dello scorso autunno: 'Non pagheremo noi la vostra
crisi'.
di Naomi Klein