18 marzo 2009

L'esempio nei giornali della Casta. Yesman

yesmanNon ci sono martiri, né eroi in questa storia. E non c’è nemmeno un Humphrey Bogart che dica: “E’ la stampa, bellezza”.
Ci sono soltanto giornali e giornalisti. Fatti della vita, che spesso sono fatti scandalosi, e modi diversi di raccontarli. Poteri forti e uomini deboli.

Come forse qualcuno già sa, per il mio giornale, il Corriere della Sera, mi sono occupato per quasi due anni delle inchieste Poseidone, Why Not e Toghe Lucane dell’ex pm di Catanzaro, Luigi de Magistris, e delle disavventure, chiamiamole così, di Clementina Forleo, da quando l’ex gip di Milano ha cominciato a occuparsi delle scalate bancarie illegali Unipol-Bnl-Antoveneta-Rcs.

Su queste cose... e su altre molto simili, ho scritto anche un libro, “Roba Nostra” (il Saggiatore), in cui si narra di una Nuova Tangentopoli italiana: il primo punto fermo sul quale si basa questa riflessione.

Molti, a destra e a sinistra, naturalmente interessati a smontare sia il contenuto di queste inchieste, senza conoscerle né discuterle, sia l’idea stessa che possa esserci una Nuova Tangentopoli hanno di volta in volta cercato di liquidare le une e l’altra.
Come un rigurgito di giustizialismo, come l’irresistibile mania di protagonismo dei soliti magistrati in cerca di autore, o come l’insopprimibile desiderio di riattivare quel circolo (definito sarcasticamente anche circo) mediatico-giudiziario che porta certe notizie fin sui giornali (ma guarda un po’).
Insomma, tutto l’armamentario propagandistico che di fronte a un problema serio sposta sempre il problema un po’ più in là per parlar d’altro e rovesciare le parti.

Così il problema, il “caso”, per tornare a noi, sono diventati de Magistris e Forleo.
Sapete tutti com’è andata a finire. Forleo e de Magistris trasferiti con motivazioni risibili, pretestuose, addirittura inesistenti e le loro inchieste fatte a pezzi.
Anche se alcuni mesi dopo la loro defenestrazione e l’uscita di “Roba Nostra” sono stati in molti, a destra e a sinistra, a riconoscere come stanno realmente le cose.

Due persone, in modo particolare. L’ex presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, e Primo Greganti, sì, proprio l’uomo del “conto Gabbietta” e delle tangenti rosse. Entrambi, Ciampi e Greganti, hanno detto la stessa cosa: oggi non è “come”, ma è “peggio” di Tangentopoli ‘92.
Se la nuova Tangentopoli è più grave della vecchia, allora si capisce meglio perché scriverne e parlarne in tv e sui giornali è cosa molto, molto più difficile di quanto non lo fosse nel ‘92.

E non solo perché è cambiata l’aria, o perché ci sono dentro tutti (anche allora c’erano dentro tutti, ma alcuni hanno pagato e altri no), quanto perché questa Tangentopoli è davvero “nuova”: innanzi tutto è, al tempo stesso, più semplice e più raffinata nei meccanismi; poi, è più remunerativa e più nascosta; infine è di una trasversalità perfetta, in alcuni casi sembra studiata a tavolino affinché i suoi protagonisti “simul stabunt, simul cadent”.

Per questa ragione, nessuno di noi (pochi) giornalisti che avevamo deciso di scrivere ciò che sapevamo si è mai illuso che il giorno dopo avrebbe continuato a scrivere sull’argomento.
In questi ultimi due anni però, bene o male, ci siamo riusciti. Con prezzi alti, in termini di costi umani e professionali, ma ci siamo riusciti.
Abbiamo scritto di questa Nuova Tangentopoli nonostante non operassimo in “pool”, come facevano i cronisti ai tempi di Mani Pulite, ma fossimo altrettanti cercatori di notizie “maledetti e solitari”.

E nonostante tutti quei “colleghi” che, pur avendo le nostre stesse notizie, sceglievano di non pubblicarle, di non battersi all’interno dei rispettivi giornali per pubblicarle, o addirittura facessero a gara per “smentire” quelle notizie prima ancora di venirne a conoscenza e di verificarle.

Per questa “presenza” del Corriere della Sera sulle inchieste più delicate del Paese, nell’estate del 2007, i magistrati di Matera indagati in Toghe Lucane mi hanno accusato (assieme ad altri quattro giornalisti e a un capitano dei carabinieri) di “associazione a delinquere finalizzata alla diffamazione a mezzo stampa”, un reato inedito e delirante, per il quale sono ancora indagato.

Le indagini a nostro carico sono state prorogate quattro volte.
Ma per questa vicenda nessuna presa di posizione “garantista” da parte dei commentatori un tanto al chilo della “libera stampa”.
Per questa vergogna, nemmeno un decimo dell’attenzione riservata da stampa e tv per le proroghe d’indagine, naturalmente subito condannate, decise nelle vicende abruzzesi, campane, toscane, in cui sono indagati politici e imprenditori, cioè i principali protagonisti di ogni tangentopoli che si rispetti.

Con l’imputazione di “associazione a delinquere eccetera”, i magistrati di Matera mi hanno intercettato e hanno ascoltato tutto ciò che dicevo con i miei colleghi e con il mio direttore, e hanno intercettato – meglio sarebbe dire: spiato –, anche l’ufficiale dei carabinieri e il pm de Magistris che parlavano delle indagini su quei magistrati indagati. I quali si sono trasformati d’autorità in indagatori dei loro indagatori (una vera e propria anticipazione, quasi un esperimento, di quanto avverrà a dicembre 2008, nella cosiddetta “guerra” tra le procure di Salerno e Catanzaro).

Quando accadde tutto questo, che se non è un vero e proprio golpe giudiziario molto vi somiglia, tra i pochi a capire cosa stesse succedendo e cosa ci stessero combinando – come giornale e come informazione libera, intendo –, fu proprio Paolo Mieli.

L’ho scritto anche in “Roba Nostra”, in un momento non sospetto. Quindi il valore di questa testimonianza è doppio.

Mi disse Mieli: “La cosa più grave, più terribile che possano fare a uno di noi, a un giornalista, è questa. Intercettarlo e metterlo sotto controllo in questo modo. Dopo di che, possono solo sparargli”.

Io lamentai il silenzio degli altri giornalisti. Ma capii che anche il direttore del mio giornale era sotto tiro e sotto pressione come me, a causa di quelle inchieste raccontate dal Corriere, e uscii dalla sua stanza forte di una convinzione: che “l’intesa” con un direttore che rischiava di suo facendomi scrivere certe cose valesse molto di più di scontate dichiarazioni di solidarietà dei “colleghi” e della “categoria” (che in ogni caso non ci sono state).
Insomma, la migliore dimostrazione che non fossi solo e che non rischiassi l’isolamento era nel fatto che i miei articoli su quelle vicende, che ormai erano diventate il più grave scandalo giudiziario dal dopoguerra, potessero continuare a essere pubblicati.

Invece, il 3 dicembre scorso, dopo un mio articolo ricco di nomi eccellenti sulle perquisizioni e sui sequestri ordinati dai magistrati di Salerno nei confronti dei magistrati di Catanzaro, sono stato improvvisamente “rimosso” da quel servizio.
Stop. Basta. Senz’alcuna motivazione.
E da quel momento non posso più scrivere di Salerno, Catanzaro, Poseidone, Why Not, Toghe Lucane.
Ma come, lo stesso Mieli che fino a quel momento si era fatto “garante” della mia libertà e quindi della mia incolumità, proprio lui dice basta? Articoli fatti male? Tutt’altro. Qualche grave “scivolone” su un fatto, su una circostanza di rilievo, su un dettaglio? Nemmeno.

Dopo, molti giorni dopo, nel mio giornale circolerà voce che ero stato rimosso perché ero “indagato”. Un tentativo debole di dare una motivazione alla mia rimozione.

Ma anche un tentativo maldestro, perché non specificava che ero, e sono, indagato per quella acrobazia giuridica definita “associazione a delinquere finalizzata alla diffamazione a mezzo stampa”, elaborata strumentalmente dalla procura di Matera. Avrebbe dovuto scattare come un sol uomo, la “categoria”, di fronte a un fatto così grave e così palesemente fuori dalle regole del diritto. Per difendere me, ma soprattutto per difendere il principio di libertà e indipendenza dell’informazione. E invece eccola pronta a farne un motivo di autogiustificazione della propria condotta.

Ma poi, cosa c’entra Matera con la cosiddetta “guerra” tra le procure di Salerno e Catanzaro, che stavo seguendo?
E in ogni caso, cosa c’entra accampare questa motivazione balorda basata su una figura di reato balorda, a sua volta basata sull’assenza di qualsivoglia processo o sentenza che abbia definito diffamatori i miei articoli?
Articoli che, al contrario, in questi due anni hanno trovato via via conferma negli sviluppi delle indagini. Articoli che in diversi casi sono stati inchieste giornalistiche dalle quali – dopo – sono scaturite inchieste giudiziarie.

Ancora. Si può davvero credere che siccome un giornalista viene querelato da un cittadino, o peggio da un indagato, debba per ciò stesso smettere di occuparsi dei fatti che coinvolgono quel cittadino o quell’indagato?
Se siamo a questo punto, allora chiunque (ma già siamo su questa strada) userebbe la querela (e ormai anche la citazione al risarcimento danni) proprio per centrare l’obiettivo di togliersi (o far togliere) dai piedi il giornalista “indesiderato”.
Come del resto è stato fatto per il pm Luigi de Magistris, quando ha iscritto tra gli indagati Clemente Mastella.
Qual è stata l’abnormità logica, prima che giuridica, concepita in quel caso per trasferire de Magistris? Si è detto: un pm che indaghi sul ministro si mette in una posizione di conflitto di interessi con il ministro indagato …

Ne consegue, quindi, che non si può indagare un ministro (nemmeno quando quel ministro, come nel caso di Mastella, era indagato per fatti risalenti al periodo in cui era senatore). Ma per favore!

La verità è che io dovevo smettere di occuparmi di ciò che avevo seguito per due anni per una ragione molto semplice. Una ragione che trascende i direttori di testata. In Italia, poi, li sopravanza di parecchie lunghezze, non c’è gara.
Ed è la ragione della forza.
La forza dei poteri forti, che si sono sentiti in pericolo per le inchieste di magistrati che svolgevano il proprio compito di servitori dello Stato senza accucciarsi sotto l’ala protettiva dei politici e dei magistrati come loro. Ma, al contrario, hanno messo sotto accusa proprio i magistrati, come mai era stato fatto prima, facendo emergere un dato sconvolgente, che nessun procedimento disciplinare e nessun trasferimento potranno mai fiaccare.

Questa storia, che non ha martiri e non ha eroi, è, pensateci bene, anche una storia di trasferimenti decisi da altrettanti poteri forti: la magistratura ha trasferito Forleo da Milano a Cremona e de Magistris da Catanzaro a Napoli, il Vaticano ha fatto cambiare aria al vescovo di Locri, monsignor Giancarlo Bregantini, mandandolo a Campobasso, l’Arma dei carabinieri ha trasferito nelle Marche il capitano Pasquale Zacheo, braccio destro di de Magistris in Basilicata, la procura generale di Catanzaro (quella che secondo i magistrati di Salerno ha avocato illegittimamente l’inchiesta Why Not) ha sollevato dall’incarico il consulente informatico del pm de Magistris, Gioacchino Genchi.

Mancava un giornalista. E’ toccato a me.
I poteri forti, dicevamo. Tra questi, vi è senz’altro la magistratura.
Ma cosa fa paura davvero in tutta questa storia? Qual è la novità indicibile? Eccola. Partendo dalla Calabria e dalla Lucania, su su per l’Italia intera, stava venendo fuori ciò che in fondo tutti pensavano ma non osavano confessare nemmeno a se stessi.

E cioè che non c’è mafia e non c’è tangentopoli e non c’è corruzione e non c’è sistema di malaffare che regga e prosperi, come purtroppo accade in Italia, se non ci sono interi pezzi di magistratura, soprattutto ai livelli direttivi, che garantiscono e coprono questo sistema di nefandezze e in moltissimi casi vi partecipano a pieno titolo.

E’ stata la prima volta che un potere forte come la magistratura si è trovata a doversi confrontare non con il problema di alcune “mele marce” al suo interno, ma con una realtà ben più estesa e radicata, che minacciava, partendo da Toghe Lucane, di provocare uno sconquassante effetto domino per “il sistema”.

Ecco dunque spiegata la corsa del ceto politico – ma non era l’avversario “storico” della magistratura? – a difendere i magistrati inquisiti per reati gravissimi e a garantirli nei loro posti e nelle loro funzioni. Mentre, insieme con il Csm e l’Anm, preparava il rogo per tutti i magistrati liberi, appassionati al loro lavoro, pronti a fare il proprio dovere, impartendo così una durissima lezione, che fosse d’esempio per tutti gli altri, ai due giudici “senza partito”, le pietre dello scandalo Clementina Forleo e Luigi de Magistris.

Il potere forte “magistratura”, per esempio, prima ancora che il potere forte “politica”, non gradisce che si dica, e infatti non lo dice nessuno, che nel Palazzo di giustizia di Milano è rimasta chiusa nei cassetti per due mesi la risposta della giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato riguardante l’iscrizione del senatore Nicola Latorre sul registro degli indagati (sempre per la vicenda delle scalate bancarie).

Siamo nella primavera-estate 2008. Il caso doveva essere trattato dal giudice competente, che era ancora il gip Clementina Forleo.
Invece le carte, regolarmente trasmesse dal Senato il 29 maggio al presidente del tribunale di Milano, Livia Pomodoro, sono state tenute letteralmente nascoste negli uffici del Palazzo di giustizia fino al 29 luglio.
Fino a quando cioè la Forleo, per un piccolo incidente domestico, ha dovuto ricorrere a qualche giorno di congedo per malattia.
Appena la Forleo va in malattia, con la motivazione della “urgenza a provvedere” (l’urgenza? due mesi dopo?) le carte vengono tirate fuori e assegnate ad altro gip, Pietro Gamacchio.
Il quale “in tempo reale” studia un processo complesso, che non conosce, e il primo agosto (il giorno prima del rientro della Forleo) rinnova la richiesta di autorizzazione all’iscrizione del parlamentare nel registro degli indagati.

Dov’è l’inghippo? Nel fatto che a quel punto la procura di Milano poteva tranquillamente iscrivere Latorre nel registro degli indagati (e così D’Alema e gli altri parlamentari, perché la Camera dei deputati aveva già dato il nulla osta, affermando che non era necessaria l’autorizzazione del Parlamento).
Ma non lo ha fatto. Grazie al gip Gamacchio. Infatti, in un caso del genere, dice la legge, il giudice “può” (può, non deve) rinnovare la richiesta di autorizzazione. Se Gamacchio non avesse fatto ciò che con ogni probabilità non avrebbe fatto la Forleo (qualora le avessero trasmesso gli atti che le spettava avere), a quest’ora le cose starebbero diversamente.
Non ci sarebbero state tutte le danze inutili tra Roma e Strasburgo, tra parlamento italiano ed europeo, e Latorre, D’Alema e gli altri telefonisti, a loro garanzia si capisce, come per ogni altro cittadino, risulterebbero iscritti nel registro degli indagati.

Ma questo, in Italia, non si può dire. Non si può dire che il “caimano” Berlusconi, bene o male, nelle aule di giustizia ci è entrato (giustamente) affinché alcuni processi a suo carico fossero celebrati. Mentre per il “caimano” D’Alema (e compagni) non ci può essere nemmeno la semplice iscrizione in un registro degli indagati.

Ognuno a questo punto tragga le conclusioni che vuole, anche quelli ancora convinti che la logica del “meno peggio” sia opportuna o necessaria. Per la cronaca, resta l’esito finale: Forleo trasferita e Gamacchio promosso a presidente di sezione.

Queste cose, per chi volesse conoscerne tutti i passaggi e i dettagli, sono state da me già scritte in una nota (“Su Forleo e de Magistris è calato il silenzio totale”) pubblicata non sul giornale per il quale lavoro, bensì sul blog del giudice Felice Lima, “Uguale per tutti”.
Quella nota è stata poi ripresa da “Dagospia” e ora è anche sul mio blog, carlovulpio.it.

“Ne dobbiamo scrivere in rete, quasi fossimo esuli o clandestini”, così concludevo quella ricostruzione, che in qualunque altro Paese “a democrazia occidentale” avrebbe trovato almeno un giornale o una tv disposti a parlarne.

Forse adesso si comprende meglio perché non è il 3 dicembre, non è la mia “rimozione” dai fatti di Catanzaro il cuore del problema.

Quell’episodio è solo l’acme di una patologia. Di un sistema malato. In cui vi sono poteri forti non controllati né temperati da necessari contrappesi, tra i quali – essenziale, vitale – l’informazione. Che invece è fatta da “uomini deboli”, i giornalisti, una categoria che non c’è.

Per i giornalisti, o per la maggior parte di loro, l’idea che l’informazione sia prima di tutto un mezzo per difendere e garantire la democrazia è un’idea superata, o peggio, inservibile per far carriera e per scalare posizioni di potere.
Se non fosse così, se fosse vero il contrario, non sarebbe passata sotto silenzio la intimidazione messa in atto da magistrati inquisiti che intercettano un intero giornale per sapere come ragionano i suoi giornalisti e per conoscere in anticipo cosa pubblicheranno.
Se non fosse così, quei magistrati inquisiti e coloro che li hanno sostenuti, a tutti i livelli istituzionali, si sarebbero ben guardati dall’attuare l’azione eversiva di spiare i magistrati che indagano su di loro.

Su questo, non c’è stata ancora una sola procura della Repubblica che abbia aperto un’inchiesta. Mentre il sistema dell’informazione si è ben guardato dal trattare l’argomento.
Ma il silenziatore non ha funzionato. Non può più funzionare. Perché c’è un mondo reale, ormai, fatto di persone reali, che utilizzano lo strumento virtuale della Rete e che si parlano, si informano, si confrontano. E’ molto difficile ingannarle.

E infatti, che questa mia “rimozione” dal “caso Catanzaro” non fosse solo un deprecabile episodio, ma il sintomo di una malattia ben più grave, che va ben oltre la mia persona e il mio lavoro, lo hanno capito subito qualche milione di frequentatori della Rete. Associazioni, singoli individui, blog noti come quelli di Beppe Grillo e di MicroMega, o meno noti (elencarli tutti non si può), e finanche un migliaio di giornalisti (ebbene sì, ce ne sono ancora) che hanno firmato un documento senza sbavature “corporativistiche”.

Tutto questo ha un valore ancora più grande se pensiamo che negli altri Paesi occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti, esiste una più o meno profonda convinzione che la stampa debba essere libera e indipendente. Mentre in Italia libertà di espressione e di informazione (sia come diritto a informare, sia come diritto a essere informati) sono ormai considerati beni di lusso, o armi improprie. O entrambe le cose.

E quindi vanno tenute sotto controllo.
Ecco, appunto, il controllo. Come si fa a controllare, a purgare, a troncare e a sopire, a narcotizzare, a seppellire? E qual è la “linea rossa” oltre la quale scatta il controllo e, zac, la tagliola si chiude?
Rispondere a queste domande sembra facile.
Si dirà: ci sono tanti modi per modificare un articolo, o per censurarne le parti più scomode.

Si potrebbe cominciare da quel “taglia e cuci” praticato all’insaputa dell’autore da tempo immemore in tutte le redazioni, magari in nome della esiguità dello spazio, e si potrebbe finire con il pressing e con le “raccomandazioni” di un caporedattore, o di un membro della direzione, o del direttore in persona: raccomandazioni che in certi casi sono più cogenti di quelle emanate dalla Unione europea …
Ma tagliare brutalmente un articolo è ormai considerato un modo primitivo di raggiungere l’obiettivo.

Mentre il pressing e la “raccomandazione”, oltre a scoprire i giochi, possono creare antipatici incidenti diplomatici.
E allora come si fa? Non si fa.
Siamo in una nuova era, ormai. Nella quale, l’Uomo Nuovo – immaginiamolo come la creatura di Aldous Huxley trasferita in tutti i mezzi di comunicazione di massa – è uno Yes Man perfetto.

Ecco, i giornalisti oggi sembrano dei replicanti, altrettanti Yes Men pronti a ubbidire.
Ma la grandezza di questa ultima fase dell’evoluzione della specie è nel fatto che costoro ubbidiscono senza nemmeno attendere gli ordini.
Che, attenzione, non sono sempre e necessariamente gli ordini di un Altro. Sono, ormai, gli ordini che lo Yes Man ha imparato a impartire a se stesso.
Se non lo facesse si sentirebbe perduto.
Oltre ogni autocensura, dunque, che pure si pensava fosse il massimo stadio del controllo della stampa “libera”. Poteri forti e uomini deboli, affinché il controllo totale delle notizie e delle loro chiavi di lettura sia sempre più efficace.

La perfezione però si raggiunge quando il controllo si evolve in riflesso condizionato. La tomba di ogni senso critico. I cani di Pavlov.
Se invece il meccanismo dell’autoimposizione non dovesse funzionare per una ragione qualsiasi, scatta il sistema d’allarme tradizionale. La catena di sant’Antonio delle telefonate. Da un giornalista all’altro, come dal brigadiere al maresciallo al colonnello, fino al generale e oltre.
E naturalmente anche in senso contrario, poiché non si telefona mica soltanto “dal” giornale (o dalla tv). Si telefona anche “al” giornale (o alla tv). E le telefonate da un Palazzo all’altro non sono mica soltanto chiamate urbane, è ovvio.
“E’ la stampa, bellezza”.

Sollevarne uno per far sentire sollevati tutti gli altri. Ma non dura, vedrete.

di Carlo vulpio

17 marzo 2009

E' possibile lo scoppio di una grande guerra? La Storia insegna





cimitero-di-guerra

In queste esposizioni mi arrischierò a rispondere ad alcuni dei punti interrogativi sollevati dalla prospettiva di una guerra di grande portata. Le note a questi studi sono state scritte fuori orario, in un angolo del mio soggiorno. Si tratta dunque di sapere in che modo il capitalismo americano, nella sua condizione attuale di indebitamento, pauperizzazione di massa e disintegrazione finanziaria, riuscirà a competere a livello internazionale. Basti sapere che è una questione di vita o di morte, che ci conduce nei più profondi recessi delle contraddizioni conflittive interne al capitalismo e all'imperialismo [1], e ci darà un'idea più delineata di cosa intendiamo dicendo che la Cina è diventata il fulcro industriale del globo, nonché un'idea di quello che intendiamo quando parliamo di squilibrio finanziario.

Le Ramificazioni Qualcuno fra voi ha evocato la possibilità che un conflitto mondiale si verifichi nel corso del 2009... Nello scatenamento di una guerra, il ruolo della follia non si può mai escludere. Conduce una guerra a Gaza, tramite i suoi delegati; conduce una guerra in Iraq; e naturalmente sta moltiplicando il suo impegno militare in Afghanistan; ha esteso il campo di battaglia fino al Pakistan. Come dobbiamo affrontare la questione? Qual è il metodo più adatto? Sono cosciente del fato che scendere nel dettaglio delle potenziali aree critiche ci fornisce singoli punti che però non hanno linee che li uniscano. La selezione e interpretazione degli eventi sono perciò condizionate dalle inclinazioni ideologiche e filosofiche dello storico. Come notava Lloyd George, il più scaltro tra i costruttori dell'impero e uno dei principali sicari della Grande Guerra: "Se il 1914 non fosse arrivato quando è arrivato, sarebbe inevitabilmente giunto più tardi". Le guerre del capitalismo erano il sigillo della sua politica di espansione [3]. La USCO sta già spendendo più del doppio o del triplo di quello che il resto del mondo spende in armamenti. La USCO e i suoi lacchè militari sono in guerra permanente fin dal 1945. Questo include il suo ruolo nella guerra civile cinese che si concluse nel 1949, in Indocina a partire dal 1945, in Corea, due volte di seguito in Iraq, eccetera. Le sue guerre coloniali, combattute esclusivamente contro popoli di colore, hanno condotto l'economia degli Stati Uniti alla bancarotta. Secondo l'ultimo conteggio, ci sono 250 basi militari al di fuori del territorio degli USA. Sono il più grande mendicante del mondo. È stato sicuramente il caso del Terzo Reich di Hitler, nel quale le spese militari produssero un'espansione che riassorbì le masse di disoccupati. È stato il caso del regno Unito, dal 1937 in poi. Il risultato fu ottenuto da massicce spese militari nel settore pubblico, finanziate dal debito. Lasciatemi ribadire che ciò che pose fine al diabolico rovescio innescato nel '29, fu lo scatenamento della II Guerra Mondiale. Si può quindi suggerire che la guerra, insieme con la sua preparazione, offra la "soluzione finale" per raggiungere la piena occupazione? Nel caso del capitalismo statunitense la risposta inequivocabile è no. I debiti del capitalismo americano - del governo, delle imprese, delle famiglie - non verranno mai ripagati. Si potrebbe sostenere che saranno le entrate dei produttori di armamenti ad aumentare. Data l'alta capitalizzazione della moderna produzione bellica, l'immissione di forza lavoro si riduce drasticamente. Torniamo alle cifre citate da Stigliz. Solo in Iraq, la spesa è di 3,5 bilioni di dollari. La USCO vive di tempo e denaro presi in prestito da altri, un'abbuffata parassitaria pagata dal 70% del risparmio mondiale, una situazione palesemente insostenibile, anche a breve termine.

Israele e il Medio Oriente Sospetto che sia corretto supporre che Gaza sia un'area troppo ridotta per essere considerata un probabile catalizzatore di un grande conflitto mondiale. Eccoci dunque arrivati al ruolo nella storia, non di forze astratte, ma degli individui. Il sig. Obama è un politico fragile, e le incontrollabili convulsioni del capitalismo, in patria e all'estero, lo getteranno in mezzo a un mare in tempesta. Sappiamo bene chi sia il duo Netanyahu/Lieberman. La posizione incontrastata del duo all'interno delle lobby sioniste, come all'interno delle alte sfere della USCO, è molto importante. Per cui non possiamo ignorare la possibilità che nella loro disperazione possano scatenare una guerra di più vaste proporzioni. E il corso degli eventi non resterebbe confinato alla regione. L'obbiettivo dell'imperialismo statunitense, congiunto con quello israeliano, è la distruzione dell'Iran, alleato sia di Hamas sia di Hezbollah. Il lancio di satelliti [da parte dell'Iran] introduce nei nostri calcoli nuove e inquietanti variabili. Se ne parlò sul New York Times. Si tratta delle relazioni tra USA e Cina, che hanno raggiunto nuovi picchi di tensione commerciale, a dispetto delle tiritere che affermano il contrario.

La Cina e gli Stati Uniti Prima di proseguire nell'esame della possibilità che le tensioni in aumento, commerciali e finanziarie, possano condurre a un letale confronto bellico, dobbiamo comunque rievocare la natura delle rivalità commerciali e le armi dispiegate nelle guerre economiche degli anni 30. Il discorso del Presidente cinese a Davos, molto sferzante nei confronti degli USA (come quello di Putin), è indicativo della direzione presa dalla guerra economica. Davos è il perno della globalizzazione. È la cabina di comando del potere corporativo, dei leader e aspiranti leader mondiali. Davos ha evidenziato la miserevole fragilità delle istituzioni finanziarie, un tempo viste come la colonna portante del sistema. La rilevanza che hanno oggi queste parole è ovvia: "Stiamo vivendo una guerra... Mentre i passi dell'attuale crisi suonano sempre più pesanti, il capitalismo non ha più la forza di scalare le pareti del pozzo della defstag. La guerra globale per il controllo dei mercati e del mercato azionario continua a ritmo serrato. Questo si rispecchia nelle relative prestazioni economica di USA e Cina, che è diventata il fulcro della produzione manifatturiera mondiale. Di contro, la USCO è in preda all'agonia della disaccumulazione del capitale e al declino dell'industria di base. Così come nel Regno Unito, la sua base industriale, una volta tanto potente, è stata eviscerata. Diamo uno sguardo alle cifre, per osservarne le divergenze e scoprire quali di esse indicano le tensioni che potrebbero condurre a una guerra. Col disfacimento dell'indebitato capitalismo nipponico, a un passo dalla crescita zero, [la Cina] si predispone a mandare il Giappone nel sottoscala della storia. Prendiamo in considerazione per primi i maggiori indicatori (2008) degli USA, e confrontiamoli con quelli cinesi: USA: PIL (+0,9% [rispetto all'anno prima]); Bilancia Commerciale (- $ 833 miliardi); Saldo delle Partite Correnti (- $ 697 miliardi); Produzione Industriale (-7,8%) CINA: PIL (+9,1%); BC (+$295 miliardi); SPC (+$371 miliardi); PI (+5,7%) Le cifre evidenziano la sempre maggiore disparità economica tra i due paesi. Le importazioni degli USA crescono più delle esportazioni. Il capitalismo statunitense sta cadendo in una spirale deflazionaria che ricorda il cosiddetto "decennio perduto" giapponese degli anni 80 [10]. Prestito significa debito. La Cina ricicla il suo surplus commerciale acquistando titoli e buoni del tesoro statunitensi. Stabilire se l'élite politica cinese continuerà a riciclare i guadagni del commercio estero per puntellare i deficit USA resta problematico. Il capitalismo americano è ormai da due decenni il maggior debitore del mondo. Le dimensioni delle cifre è rilevante. Le riserve di valuta e titoli esteri della Cina, che ammontano a 2000 miliardi di dollari, sono le più grandi del mondo. Di questa cifra, 1700 miliardi vengono investiti in beni pagati in dollari, il che rende la Cina il maggior creditore del capitalismo americano, e il secondo maggior compratore di buoni del tesoro statunitensi. [Il capitalismo americano] è dipendente totalmente dal denaro cinese. Mai nella sua storia la USCO era stata così dipendente da un creditore estero. La Cina ha già perso miliardi. Questo è dovuto al deprezzamento del dollaro, derivato dal crescente indebitamento, dal risparmio in calo, dagli interessi [sui titoli] ridotti a zero, e da un PIL che allo zero ci si sta avvicinando. Senza la cascata di denaro dalla Cina, la USCO sarebbe incapace di perseguire la sua espansione militaristica all'estero. Quello che possiamo dire è che lo status del dollaro come valuta delle riserve mondiali, che ha conferito un potere "stravagante" (questa l'espressione di de Gaulle [11]) all'imperialismo statunitense, questo status ovviamente non può durare. I buoni del tesoro USA sono un porto sicuro. Evitando di usare un gergo tecnico, i proprietari del salvadanaio cinese hanno talmente tanti soldi da non sapere dove investirli, tranne che nei pessimamente redditizi titoli statunitensi. La battaglia sui tassi di cambio si combatte sui campi di battaglia del mercato dei cambi.

L'Indice Big Mac Per capire la ragione per cui, secondo me, non può esserci una soluzione amichevole alla guerra commerciale sino-americana, dobbiamo fare qualche accenno alla natura del mercato dei cambi. La Regina delle merci. Il mercato all'interno del quale si conducono queste transazioni viene chiamato Forex. In Cina, il Big Mac costa 1,53 dollari. Di qui la nostra conclusione (ripeto: non si tratta del solo modo di valutare le disparità valutarie, ma di certo è il più semplice ed efficace), che il Renminbi (o Yuan) cinese è sopravvalutato del 40% rispetto al dollaro, il che, secondo la valutazione del Tesoro americano, gli concederebbe un vantaggio nelle esportazioni [12]. Il governo statunitense ha già caricato delle tariffe sui prodotti cinesi, accusando la Cina di manipolazione dei tassi di cambio. Il problema del vantaggio competitivo della Cina ovviamente va al di là il tasso dei cambi. Il relativo livello dei salari è altrettanto rilevante. Il livello dei salari nel settore manifatturiero cinese è inferiore del 10% rispetto a quello degli USA. Ma non si tratta solo di una differenza nel costo della mano d'opera. Mettiamoci anche che la produttività industriale della Cina è stata notevole. La Cina è presente su tutti i mercati mondiali, e il suo commercio con l'estero e i suoi investimenti diretti degli ultimi dieci anni sono schizzati alle stelle, particolarmente in America Latina e in Africa. Australia e tutto il mercato asiatico, per non parlare della Russia. Il ruolo della USCO, dell'Unione Europea e del Giappone, per il Venezuela sono diventati periferici. La conquista cinese dei mercati mondiali continua inarrestabile. Diciamolo senza la minima ambiguità: l'obbiettivo della dirigenza cinese è un'espansione del mercato.

Dinamica della sovraproduzione Una delle carratteristiche della corrente defstag, e non esagero usando questo termine, è che ci sono troppi beni per troppo pochi acquirenti, troppo denaro e troppo poche occasioni di investimento, troppi lavoratori e troppo pochi posti di lavoro, troppe banche e troppo pochi risparmiatori, eccetera. Questo vale non solo per l'attuale caduta ciclica del capitalismo, ma anche per gli altri aspetti della crisi. L'essenza della crisi del capitalismo è la sovraproduzione. L'obbiettivo dell'accumulazione capitalistica è quello di espandere e garantire una sempre crescente massa di profitti alla classe proprietaria. La sovraproduzione non è quindi un'aberrazione del sistema, ma è insita nel suo funzionamento. Si può risalire alla prima Grande Depressione del capitalismo, quella del 1873 [-1890], come venne riportato dalla Commissione Reale [che si occupò della crisi] nel suo rapporto finale, con parole che sarebbero state adatte sia alla futura crisi del 1929 sia all'attuale crollo [13]: "Riteniamo che (...) la sovraproduzione sia stata uno dei tratti maggiormente rilevanti dell'andamento dei commerci durante gli ultimi anni, e che la depressione di cui ora ci troviamo a soffrire possa essere parzialmente spiegata da questo elemento (...). La caratteristica rimarchevole della presente situazione, e che a nostro avviso la rende diversa da altri precedenti periodi di depressione, è la lunghezza del periodo durante il quale questa sovraproduzione si è protratta (...). Abbiamo la convinzione che negli ultimi anni, e più in particolare negli anni in cui è emersa la depressione nei commerci, la produzione di merci e l'accumulazione di capitali abbia proceduto in questo paese secondo un tasso più rapido di quello dell'aumento della popolazione." La profondità di queste osservazioni sottolinea non solo la natura, la genesi e la logica del ciclo affaristico (che esploreremo in esposizioni successive), ma la sua sua connessione con le altre grandi depressioni che hanno devastato il capitalismo mondiale, come la Grande depressione del 1929 e la depressione economica che stiamo vivendo attualmente. L'avvento dei monopoli e le sue implicazioni Il capitalismo, col suo dominio di classe, è un sistema guidato dalla competizione, in tutte le fasi del suo sviluppo. Il periodo che va dal 1873 al 1914, che fece strada al grande massacro [della I Guerra Mondiale], vide il cambiamento strutturale del capitalismo, dalla fase della competizione a quella dei monopoli. La Grande Depressione diede di sprone alla concentrazione e centralizzazione del capitale che Marx aveva analizzato con tanta efficacia. I nomi Rockfeller, Buchanan (il re del tabacco), Krupp, Vanderbilt, Morgan, Carnegie, incarnano il volto del capitale. Costoro non erano semplicemente quelli che il Presidente Theodore Roosevelt chiamò "i malfattori della Grande Ricchezza". Questa era la nuova fase del capitalismo monopolistico, generata dalla crescente competizione all'interno e tra gli stati nazione, e dal declino dei tassi di profitto. Una sempre maggiore competizione portò a un eccesso di capacità produttiva, col corollario di una spietata corsa al ribasso dei prezzi, la caduta dei prezzi al dettaglio e all'ingrosso, indici di una fase deflattiva. Quel periodo ha spalancato le porte a quella che George Bernard Shaw, ai tempi della Guerre Boere, chiamò l'era dei Mercanti di Morte [14]. Ricorderete quello che il Presidente Eisenhower, nel suo discorso di commiato, definì il complesso militare/industriale, il che generò grandi quantità di letteratura. La concretezza di questo fenomeno si manifestò in forma concentrata nei decenni che portarono alla Grande Guerra. Quasi il 70% dei pezzi di artiglieria, e le loro munizioni, utilizzati dall'esercito del Kaiser, per non parlare dell'acciaio che permise l'espansione della flotta tedesca sin dal 1890, era di produzione Krupp. La casata dei Krupp si mescolò a quella degli Hoenzollern per mezzo di legami matrimoniali. Tale era il potere della interconnessione matrimoniale all'interno dell'imperialismo.

Una rete di conquiste La spinta impetuosa che spingeva le potenze europee alle conquiste imperiali non erano meno vive per Stati Uniti e Giappone. Quindi l'imperialismo è l'estrema globalizzazione dell'accumulazione del capitale a livello mondiale nel suo momento di crisi e sommovimento. A partire dal Rinnovamento Meiji [20], in effetti in tre soli decenni, il capitalismo giapponese raggiunse con velocità stupefacente il livello di una nazione forte nell'industria e nel commercio mondiale, alla caccia incessante di espansione e conquiste coloniali. Insieme al potere militare (il gumbatsu) divennero il cuneo dell'espansione coloniale con l'occupazione di Formosa, che immise il Giappone nel circuito imperialistico. A questo seguì, nel 1895, la conquista della Corea e della Manciuria meridionale. Era pronta la scena per un'altra guerra imperialistica, stavolta tra la Russia degli Zar e il Giappone, che culminò nella cocente disfatta della Russia nella battaglia della Baia di Tsushima del 1905,e la conquista dell'isola di Sakhalin. Potremmo aggiungere, di passaggio, che questa sconfitta portò alla Rivoluzione Russa del 1905, che influì sugli eventi storici successivi. "Ora siamo una potenza mondiale, e la gloria della nostra razza e nazione non ha raggiunto la fine della nostra strada, e dobbiamo andare sempre più avanti". Lo svigorito e inglorioso Impero Spagnolo, sopravvissuto per 500 anni, fu demolito nel 1898 - un'impresa conclusa in un paio di settimane - con l'appropriazione delle sue colonie, in particolare i gioielli della corona Cuba e Filippine. Questo contrassegnò un'ulteriore fase nella redistribuzione del mercato mondiale, che portò l'imminente Armageddon un passo più vicino.

Il Trattato di Versailles La Grande Guerra non fu la "guerra che porrà fine a tutte le guerre", come affermò scioccamente Woodrow Wilson. Il desiderio da parte dei nostalgici della politica del laissez-faire di un ritorno a una supposta normalità fu completamente disatteso. Dopo Versailles (1919) la mappa mondiale venne mandata al macero. Gli Asburgo, i Romanov, gli Hoenzollern e gli Ottomani vennero scaricati nella pattumiera della Storia. Ora la Germania era una nazione sconfitta, privata di Alsazia e Lorena, così come delle sue colonie. Un punto militare/industriale di strategica importanza, comunque, era che una burocrazia non riformata, una classe militare e finanziaria e una potente borghesia nazionale - l'elemento portante del dominio di classe - erano ancora intatte. Una Russia rivoluzionaria, la cui dirigenza si era opposta risolutamente alla guerra, aveva usato quella guerra come testa d'ariete per un assalto all'autocrazia zarista. Facendo così, recise i legami [dello stato russo] con l'imperialismo e lo sciovinismo nazionalistico della socialdemocrazia, e orientò i suoi sforzi verso la costruzione di un ordine socialista, con l'eliminazione delle vestigia coloniali/capitalistiche/imperialistiche. Clemenceau sintetizzò quel tragico momento della verità quando confessò cupamente: "Abbiamo vinto la guerra, ma siamo rovinati". I vecchi imperi coloniali ancora in piedi, Francia e regno unito, erano dissanguati e sull'orlo della bancarotta finanziaria. Il loro mercato dei cambi e le riserve di oro vennero utilizzati per pagare i costi della guerra. La questione delle riparazioni [di guerra] da imporre alla Germania di Weimar era uno dei punti caldi delle relazioni internazionali e del battibecco imperialista. Fu in quel contesto che John Maynard Keynes (1883-1946) acquistò rinomanza internazionale con la sua opposizione alle clausole del Trattato, redatte in "The Economic Consequences of the Peace" (1919), che analizzava le conseguenze delle riparazioni. A questo punto devo parlare di una delle più efficaci controargomentazioni al pamphlet di JMK, scritta da un accademico americano la cui brevissima recensione apparve in un oscura pubblicazione nel 1920. In appena tre pagine Thorstein Veblen (1857-1929) identificava con efficacia il punto che JMK (che partecipava alla Conferenza di Parigi come membro della delegazione britannica) aveva accuratamente evitato, [ma che era] il nucleo stesso del Trattato. Prima di continuare, però, vorrei aggiungere che Veblen fu un acuto teorico e osservatore del capitalismo americano durante l'età dorata dei Robber Baron (1890-1914). Mai, però, fu un attivo avversario del sistema. Non credette mai che fosse fattibile un progetto alternativo dei rapporti di classe e proprietà. Fu un catalizzatore che lo colpì nell'autunno della vita. In quella recensione, pubblicata nel 1920 dal Political Science Quarterly, un anno dopo la pubblicazione del pamphlet di JMK, Veblen vide con estrema chiarezza quale fosse la realtà celata dal Trattato, la realtà che Keynes aveva ignorato. Fa venire in mente la descrizione che Jacques Attali ha fatto del World Economic Forum di Davos, definendolo "le bavardage" [la ciancia]. Facendo così, Veblen portava la realtà dell'imperialismo all'epicentro delle relazioni internazionali. Il nocciolo della critica di Keynes era il negativo effetto di contrazione sulla produzione, l'occupazione e la domanda interna della Germania. Venivano ignorate le ben più ampie conseguenze geostrategiche, politiche e ideologiche che erano in gioco. Arrivati alla primavera del 1919, quando i negoziati sul Trattato avevano raggiunto il loro punto cruciale, la guerra di intervento per distruggere la Rivoluzione Russa toccava anch'essa il suo punto più alto. Veblen faceva un'acuta considerazione che mostrava la precorrenza del suo ragionamento: "Se non fosse per la loro volpina segretezza, il carattere i fini di quell'occulto conclave di imbonitori politici sarebbe già stato evidente agli occhi di tutti un anno fa. Il Trattato è quindi congegnato in modo da prescrivere che la clausola più rigida del Trattato (e della Lega) sia una disposizione non scritta [unrecorded] dei governi delle grandi potenze che si associano per la soppressione della Russia sovietica..." Fondamentale nella sua critica era il fatto che Keynes avesse impedito a se stesso di accorgersi che l'obbiettivo del Conclave era la distruzione del bolscevismo, che questo aveva plasmato la forma del Trattato. Demolendo le argomentazioni di Keynes, antisovietico e anticomunista per tutta la sua vita, Veblen non mancò di arrivare alla conclusione che la contrapposizione bolscevismo/imperialismo era diventata ormai una lotta all'ultimo sangue. Allo stesso tempo, l'ordine sociale ed economico odierno si fonda sulla proprietà assenteista". Veblen ovviamente [non] si sbagliava affermando che gli "imbonitori" avrebbero dichiarato una guerra ufficiosa contro una Russia rinascente. Per la fine del 1917, era una guerra clandestina che dispiegava eserciti imponenti. Furono le conseguenze delle crisi e convulsioni del capitalismo. Veblen di sicuro non aveva dimenticato che Rosa Luxemburg (1871-1919) e Karl Liebknecht (1871-1919), i due leggendari socialdemocratici tedeschi, erano contrari alla guerra, cosa per cui pagarono il prezzo più caro. Furono arrestati e assassinati da militaristi di destra del Reichswehr. E lo stesso accadde al leader socialdemocratico Leo Jogiches (1867-1919). L'anno 1919 è un anno cruciale nella storia della socialdemocrazia, del trattato e dell'imperialismo. La Russia Sovietica, ben presto ribattezzata Unione Sovietica, e la Germania erano adesso diventati gli attori principali nel dramma che stava andando in scena: la prima allungando sul mondo la sua portata rivoluzionaria, la seconda come eletto bastione della contro-rivoluzione. Nel 1932, rivolgendosi ai suoi pretoriani SS, Hitler tuonava che "le strade della nostra nazione sono in tumulto.

Frederic F. Clairmont Fonte: www.globalresearch.ca

16 marzo 2009

Il mercato è morto! Viva il mercato!

Più questa crisi avanza, e più m’accorgo ch’era assolutamente certo che avvenisse. Lo sapevo da tanto: anzi, era una domanda che avevo iniziato a pormi quand’ero adolescente.
Nessuno proferiva la parola “crisi” negli anni ’60: il vocabolo utilizzato era “congiuntura”. La “congiuntura”, etimologicamente, è qualcosa che “congiunge” due periodi ed è quindi un elemento di labile rottura nel continuum temporale: dunque, la “congiuntura” può essere anche un periodo favorevole, un “giro di boa”. L’uso del termine, in economia, deriva dal tedesco Konjunktur, e non è che un passaggio leggero fra due, diversi approcci del capitalismo internazionale.
E’ interessante notare che la “congiuntura” non considera essenziale l’intervento umano: è una sorta di leggera influenza, che si risolve da sola, stando a letto e bevendo spremute d’agrumi.


Il passaggio dai sistemi elettromeccanici controllati dall’uomo – nella grande industria – a quelli a controllo numerico (informatico), degli anni 70-80 del Novecento, può essere indicato come un fattore determinante della “congiuntura”, ossia il transito da un sistema meno automatizzato (maggior presenza umana) ad un altro più efficiente, per la diminuzione delle ore/lavoro necessarie per produrre un singolo bene.
Fin qui, nulla di strano: basta rileggere Marx.
Oggi, il termine è desueto: solo per una questione di stile? Parrebbe di no, ed alcune “prudenze” linguistiche sono state addirittura consigliate dal Presidente del Consiglio. Perché?


La tessera P2 n. 1816 – Silvio Berlusconi – lavora alacremente per ridurre l’Italia ad una sorta di “grande Mediaset" – questo lo sappiamo – laddove un solo Konducator indica la via da seguire. Gli altri, seguono.
Ne è un esempio la recente bagarre scoppiata in seno al Consiglio dei Ministri – Scajola ha abbandonato la seduta sbattendo la porta ed esclamando il classico “non finisce qui” (finirà lì Scajola, mi creda, e lei tornerà ad assentire, ossequiente, come sempre ha fatto, così come i suoi colleghi Bossi, Bondi, Gelmini, Carfagna…) – perché Berlusconi ha avocato a sé la gestione di tutti i fondi stanziati per fronteggiare la crisi (in gran parte “riciclati” da precedenti stanziamenti, addirittura del precedente governo, si veda la prima stesura del D.M. n. 122).
In effetti, quelli che Berlusconi indica come “abbondanti risorse” stanziate, in realtà sono soltanto indicazioni di bilancio ma, in cassa, non c’è nulla. Per questa ragione strombazzano solo grandi opere: perché, per fare quelle piccole (per le quali, sarebbe difficile accampare scuse) i soldi dovrebbero scucirli davvero.
Ovviamente, tutti hanno mostrato il borsellino drammaticamente vuoto, ma il Konducator è passato oltre, adducendo che la situazione richiede procedure eccezionali. Perché? Per superare la crisi.


Ecco, il termine che viene oggi usato per indicare le mestizie nella quali siamo imprigionati.
L’etimo della parola “crisi” – krisis (gr) – non indica, però, un elemento di per sé negativo poiché significa “scelta” o “giudizio”, ossia un’azione che prevede la partecipazione attiva del soggetto: sì, scegliere, proprio quello che ci viene impedito di fare.
E’ allucinante leggere i comunicati dell’Epsco (Consiglio per l'Occupazione, la Politica Sociale, Salute e Consumatori), dove si leggono le proposte per affrontare la crisi economica e la disoccupazione[1]:

(la crisi) “sta arrecando grossi danni ed esige interventi urgenti,,,(per prevenire e combattere la disoccupazione) senza intaccare le riforme del mercato del lavoro…evitare le misure che favoriscono il ritiro prematuro dalla vita lavorativa, quali programmi di prepensionamento o limiti d'età per le opportunità di formazione, in modo tale da mantenere e aumentare la partecipazione al mercato del lavoro…affrontare l'adeguatezza e la sostenibilità a lungo termine dei sistemi pensionistici con riforme adeguate…



Siamo nelle mani di una masnada di folli e nessuno, ovviamente, ha intenzione di cambiare strada: le cose vanno bene così e, se dovessero peggiorare, accelereremo ancor più nel percorso che ci ha condotti a questo sfacelo. Speriamo che il muro, in fondo alla via, non sia di cemento armato.
Ovviamente – se qualcuno potesse scegliere – le scelte dovrebbero essere agghindate d’aggettivi, anzi, è quasi essenziale indicare, tramite la coloritura di un aggettivo, ciò che c’attende. Avremo così scelte difficili, gioiose, liberatorie, drammatiche, ininfluenti, coraggiose…


L’unico aggettivo proibito dal Konducator è stato proprio quel “drammatico”, subito cassato a Tremonti, perché – checché se ne dica – la tessera P2 n. 1816 è il più formidabile comunicatore della Penisola. I suoi fini sono marci fino al midollo, ridurrà l’Italia ad una pletora di zombie – perché è bravo a comunicare e ad organizzare, ma manca della cultura di base necessaria per svolgere una vera funzione politica e di governo – ma, sull’esternazione, nessuno lo batte. Potrete scrivere e blaterare ciò che vorrete: lui, farà la solita battuta cretina, s’arrufferà in ragionamenti semplici, da mercato rionale, e quel 60% d’italiani che non legge mai un libro abboccherà contento. Non c’è niente da fare.
Si può batterlo usando le sue stesse armi, soprattutto l’informazione e la satira: questa asserzione, è rivolta a coloro i quali credono che basti una solida “linea Maginot” per la difesa della Costituzione (per la tutela della quale, sia ben inteso, il sottoscritto ha firmato). Lui, della Costituzione, se ne frega: pubblicherà (a nostre spese) qualche libercolo nel quale comparirà con la solita calza di nylon per mascherare le rughe e magari racconterà una barzelletta.
Perché la parola “crisi” deve essere bandita? Poiché esiste sempre quel 20% di persone che leggono e s’informano, le quali oggi non hanno peso ma domani, qualora i morsi della rovina economica dovessero dissanguarci, potrebbero ricordare che c’era “crisi”, e dunque scelta. Quali scelte?


Spicchiamo, prima, un salto indietro nel tempo, quando c’era soltanto “congiuntura”.
Una delle immagini che iniziò a sconcertare, nella placida prima “congiuntura” degli anni ’60, fu quella dei trattori che distruggevano tonnellate d’arance nel Meridione. Per comprendere quanto quelle immagini fossero dirompenti, dobbiamo riflettere che non erano ancora trascorsi vent’anni dalla Seconda Guerra Mondiale, quando un chilo di pasta era ciò che s’aveva per campare una settimana. Distruggere il cibo?!? Una bestemmia, e così era colta dalla maggior parte degli italiani i quali, già allora, non s’accorsero che quelle erano già “scelte”, solo che qualcuno le compiva al posto nostro. Conosciamo la ragione di quelle distruzioni: sovrapproduzione, concorrenza internazionale, ecc…ma il messaggio che – già allora! – passò era che si doveva, in primis, salvaguardare il mercato degli agrumi. Siccome il “mercato” non poteva che salvaguardarsi da solo, s’applicava la legge della domanda e dell’offerta, e via col tango.


Senza scomodare la scomodissima ragione illuminista, basta il buon senso per capire che non è logico né razionale impiegare ore/lavoro, concimi, energia, ecc, per poi schiacciare il prodotto sotto le ruote dei trattori: c’era, evidente, un vulnus perché, da quando mondo è mondo, le derrate alimentari servono per sfamarsi.
Dopo qualche anno di trasmissioni della solita scena – i trattori che schiacciano, ecc – la notizia non fu più notizia, e s’addormentò nel retrobottega dei palinsesti televisivi. Così, il primo imprinting era stato dato.


Ma gli anni ’60 – da qualcuno definiti “favolosi”, non saprei perché – volgono al termine e, nel 1969, una scolaresca attende, nelle assolate giornate di Maggio, che s’arrivi finalmente a Luglio per correre alla lotteria della nuova maturità – “provvisoria”, beninteso – declamata come la rivoluzione della scuola italiana, quella del ministro Sullo. Tanto “provvisoria” che durò fino al 1999.
La tensione per la nuova maturità scivola, sotterranea, fra i banchi e fa caldo: la finestra è aperta, giungono effluvi di fiori e la voglia è poca. Anche il professore – un meridionale colto, fisico un po’ flaccido, aria perennemente stanca – non ha gran voglia, e allora si parla. “Si fa” a domande e risposte: talvolta si tenta ancora oggi di farlo, solo che si corre il rischio che ti domandino se hai guardato l’Isola dei Penosi.


Un allievo medita, ricorda precedenti discussioni – formali ed informali – e domanda «Professore, lei sostiene che è inevitabile una contrazione della manodopera nell’industria poiché il fordismo e la produzione su vasta scala s’affermano ovunque. Il fenomeno produce inesorabilmente disoccupazione: chi non avrà lavoro, che farà?»
Il professore quasi ringrazia per la domanda, che consente a quella piccola comunità di scapolare una mezzora noiosa, ma si rende conto che la risposta non può essere che sintetica: «Vede (allora, ci si dava del “Lei”), solo lo Stato può compensare la diminuzione dell’occupazione: le persone che non troveranno occupazione nell’industria saranno assorbite dai servizi. Il mondo dei servizi al cittadino è in espansione: quella è l’unica strada percorribile.»
Certo – pensa il ragazzo – meno occupati a costruire automobili e più infermieri negli ospedali…ma…chi paga?
Intanto, altri stanno argomentando e deve attendere il suo turno.
Finalmente, può porre la domanda: «Professore, se lei afferma che i disoccupati saranno assorbiti nei ruoli pubblici, il gravame economico per lo Stato aumenterà, dovranno aumentare le tasse…insomma, chi pagherà?»
Il professore non aveva una risposta, però lui era il professore e gli altri semplici allievi: «Come le ho già detto, lo Stato sarà la cassa di compensazione, ci sarà un’inevitabile aumento dei dipendenti statali.»
Già, lui può ripetere due volte la risposta senza rispondere: se lo fai tu, mica la passi liscia. Di più: è pure fortunato, perché suona la campanella.

In ogni modo, il professore ebbe ragione: l’anno seguente (1970) fu varato l’ordinamento regionale ed iniziò “l’otto volante” della spesa pubblica. Nuove competenze furono inventate per nutrire l’espansione incontrollata del ceto politico da piazzare nelle Regioni, le Province furono compensate – già allora, per salvarle! – con la ripartizione del personale scolastico, mentre i Comuni ebbero le Circoscrizioni. Gli italiani, impararono che non si può essere presi a calcinculo solo dallo Stato, ma anche dalle amministrazioni periferiche.



Eppure, riflettere su questi brevi aneddoti, può aprire molte “porte” sull’infinito dissertare del malaugurio economico che stiamo vivendo. Oops! Scusate: se Saddamoni mi sente, mi dà del disfattista.
Non vale sperticarsi in tremebondi aruspici: chi lo fa, compie un’azione semplice, ossia “lo scrivo, poi i casi saranno due. O l’evento non si compirà – e sarò presto dimenticato – oppure si manifesterà, e allora potrò scrivere il classico articolo sul “io ve lo avevo detto”. Non è questo il modo di fare informazione.
Sulle radici internazionali e geopolitiche di questa crisi non intendo ripetermi; chi vorrà prenderne visione, potrà leggere il mio “Ma cos’è questa crisi?”: oggi, vogliamo addentrarci fra le possibili soluzioni.


La prima considerazione da fare è che la logica del mercato che si auto-regolamenta è fallita: a dire il vero, non è mai esistito un mercato completamente libero dall’intervento umano, ma alcune situazioni (gli USA prima della Grande Depressione, ad esempio) s’avvicinarono molto.
Allo stesso modo, non è mai esistita un’economia completamente diretta dallo Stato: anche nell’URSS, il 3% delle terre coltivabili era a conduzione privata.
In mezzo a queste due, estreme impostazioni, c’è la cosiddetta economia “mista”, la quale si nutre d’entrambi i principi, cercando – in questa difficile mediazione – di trovare l’equilibrio più soddisfacente. Ma non finisce qui.


Un altro fattore da considerare è l’aggregazione sul territorio dei soggetti economici – chi produce beni e servizi – che l’affermazione degli stati nazionali riunì in universali piuttosto ampi, mentre – precedentemente – i “localismi” avevano maggior peso. Si pensi, ad esempio, alla Germania prima dello Zollverein.
Quindi, la produzione e la ripartizione delle risorse devono tener conto d’entrambi i fattori: geografici e politici, per riassumere in breve i due aspetti.
Oggi, il “succo” della crisi – che non riteniamo sarà la fine del capitalismo, così come lo osserviamo – è che uno spostamento verso il liberismo economico ha prodotto guai a non finire. Non ci riferiamo soltanto agli ultimi atti – la truffa di creare valore fasullo dal nulla, per compensare una ricchezza che è migrata verso altri lidi – poiché quel processo è iniziato già con la deregulation di Reagan, con la politica antipopolare della Thatcher, con la dismissione a prezzi stracciati delle Partecipazioni Statali. Insomma: il mondo ha preso l’abbrivio verso forme di Far West, liberandosi delle “pastoie” che una schiera d’economisti keynesiani pretendevano d’imporre. Dimenticando che Keynes fu solo una delle “cure” per la Grande Depressione: l’altra, fu la Seconda Guerra Mondiale.


Cercare aiuto dalle parti di John Maynard Keynes, oggi, sarebbe come chiedere a Pietro Badoglio un parere per uscire dall’impasse in Afghanistan: è l’angolo degli sprovveduti, poiché il pianeta ha mutato pelle.
Gli stati che applicarono le dottrine keynesiane erano nazioni poco o per nulla indebitate, che possedevano la gran parte dei mezzi di produzione del pianeta e che avevano, proprio nel resto del pianeta, le fonti d’approvvigionamento di materie prime a basso costo, poiché la manodopera era coloniale.


Si può ragionevolmente ipotizzare d’applicare “ricette” usate all’epoca nel nostro tempo? Modificarle? Modernizzarle? Probabile, ma bisogna allora affrontare quella scelta – krisis – che si tende a negare con mezzi e mezzucci mediatici.
In definitiva, dovremmo stabilire quale sistema economico applicare, cercando di non incorrere in plateali errori del passato e neppure esternare affermazioni sì accattivanti ed apparentemente risolutive, che però nessuno sa quali frutti potranno produrre.
Il primo approccio è sempre l’analisi: ciò che è stato applicato nelle epoche storiche a noi vicine (andare lontano complicherebbe la faccenda, dovremmo introdurre sempre più fattori di “correzione”) ed osservare quali effetti produsse.


Per quanto riguarda la dimensione delle entità economiche, oggi si tende a ritenere che economie su piccola scala siano più a misura d’uomo e che il pianeta possa, con questo approccio, meglio sopportarci.
Si tratta di un’avvincente ipotesi, ma mancano gli elementi per affermare che un mondo di comunità sarebbe migliore di quello attuale. Anzitutto, quali attributi assegnare a queste comunità? L’autosufficienza produttiva totale? Lo scambio? Perché – se si ammette lo scambio, ossia se non si ritiene percorribile la via dell’autosufficienza – si torna a dissertare di valore, e dunque di monete o quant’altro per assegnare un valore alle merci.
L’autosufficienza non può essere raggiunta da piccole comunità – la “base” è troppo ristretta per reggere nel tempo – e quindi, allargando i confini della comunità, nasce inevitabilmente la necessità di stabilire ruoli in qualche modo “istituiti”, e dunque – anche se ad un livello forse praticabile – “istituzionali”.


Chi scrive ha alle spalle un’esperienza di vita comunitaria – che è stata addirittura, recentemente, oggetto di studio per una tesi di laurea – e può assicurare che le dinamiche sociali, anche in gruppi ristretti, ricalcano in pieno atteggiamenti e pratiche delle comunità più complesse.
In genere, le comunità degli anni ’70 partirono con un naturale spontaneismo mutuato dal comunismo utopistico, e finirono in liti per dividersi le seggiole. Perché? Poiché le dinamiche socioeconomiche esterne alla comunità rimanevano le stesse: si aveva un bel dire che s’era tutti uguali, ma chi aveva uno stipendio, od era benestante, era un tantino più uguale degli altri.
In ogni modo, una sola esperienza non può essere considerata esaustiva dell’argomento: al più, rende più coscienti dei pericoli insiti nel lasciar correre l’ottimismo.
Esistono esperienze da osservare, per trarne insegnamenti?


L’India dei “mille villaggi” di Gandhi rimase nella mente del grande pensatore indiano, ed oggi osserviamo cos’è diventata l’India. Le comunità ebraiche dei kibbutzim, all’inizio, furono veramente avveniristiche: l’educazione collettiva dei giovani, e la ripartizione del lavoro di stampo socialista, erano un bagaglio più europeo che insito nella cultura ebraica.
Quell’approccio, portato soprattutto dagli askenazi dell’est, era la grande cultura socialista e libertaria che aleggiava nella prima metà del Novecento in Europa: là trovò una primitiva applicazione, ma c’era un peccato originale.
Cercare le vette della socialità su una terra che è stata rubata, lentamente trasformò quelle comunità in fortini, al punto che oggi Tzahal li considera, praticamente, degli avamposti. Non crediamo ad una pratica d’evoluzione sociale, quando il tuo compagno di strada è un Galil a tracolla.
L’unica comunità che sfida i secoli è senza dubbio quella degli Amish, ma qui siamo in presenza di valori religiosi molto restrittivi, che implicano la rinuncia alla modernità: siamo certi che saremmo in grado di rifiutare la tecnologia degli ultimi due secoli? La vedo dura, soprattutto perché ho provato personalmente a falciare l’erba con la falce: dopo mezza giornata, chiesi ad un amico di prestarmi il trattore.
Nelle società che ancora adottano l’organizzazione tribale troviamo equilibri che sembrerebbero reggere, ma ci sono due fattori da considerare: per prima cosa, queste comunità sono in estinzione – forse non demografica, ma certamente culturale – e poi, noi non siamo stati allevati in una cultura tribale!


Il ritorno alla piccola comunità potrebbe derivare da uno sconquasso – economico, bellico, ambientale, ecc – ma, in questo caso, non abbiamo gli elementi per decifrare il quadro: si sconfina nella profezia. Quanti esseri umani sopravvivrebbero? In quali condizioni? Dove? Con quali e quanti strumenti tecnologici? Le domande sono veramente troppe.
Possiamo ricordare che il ritrarsi in comunità avvenne nei secoli che seguirono il crollo di Roma, ma quelle furono necessità contingenti, mica scelte. Oltretutto, il Medio Evo – apice delle piccole comunità – non fu certo il migliore dei mondi possibili, basta leggere le cronache del tempo.
Oggi, siamo una società segnata dalla tecnologia (a differenza di quel lontano mondo), ma la tecnologia richiede che esistano centri che la producano, sistemi di scambio, controvalore da fornire, ecc: siamo in grado di reggere (e desideriamo) un arretramento tecnologico? Chi s’affida frettolosamente a qualche frase letta qui e là, ma anche a seri autori che teorizzano un ritorno al “piccolo”, riesce a comprendere cosa sarebbe un mondo privo di quelle certezze alle quali siamo abituati? Si fa presto a “quotare”.
Chi si metterebbe, in un mondo di piccole comunità slegate, a raffinare il Silicio per i circuiti? Oppure, all’opposto, chi ancora sa bardare un cavallo?


Ciò nonostante – e questa è la colonna sonora del nostro vagare ondivago fra tesi opposte – si sente un gran bisogno di rinsaldare legami comunitari, di tornare ad avvertire nel vicino di casa un amico, non una targhetta sulla porta. Il mondo del dopoguerra era così: almeno fra i ceti popolari, i bambini passavano forse più tempo in casa d’altri che nella propria. Giocavano insieme ed i nonni raccontavano storie fantastiche ad uditori eterogenei: nei cortili giungevano musicisti popolari che si guadagnavano da vivere così, con le poche lire gettate dai balconi al termine dell’esibizione.
Avremmo un gran bisogno di un mondo che ricalcasse quei valori, ma decenni di pessime abitudini (in gran parte imposte) ci hanno snaturati: tutte le rilevazioni – Istat, Eurispes, ecc – raccontano un’Italia composta da “poltiglia sociale”.
Forse, la strada di ricostruire l’empatia perduta trova troppi ostacoli nell’esigenza – divenuta un’iperbole con la globalizzazione – d’essere placidi ed acquiescenti individui, “coerenti” con le necessità del “mercato” (che sta fallendo).
Proviamo, allora, a sondare dalle parti dei sistemi economici, ossia quello che l’esperienza ci può insegnare.


I regimi autoritari della prima metà del Novecento non ci potranno fornire molti spunti per la nostra analisi: il Nazionalsocialismo tedesco durò, guerra a parte, soltanto 6 anni, e un’economia di guerra non può essere presa come valido cespite per l’analisi.
Il Fascismo italiano durò più tempo, ma partì come forza rivoluzionaria e terminò come zerbino, dapprima della classe imprenditoriale poi – nelle ultime fasi della guerra – dell’alleato germanico. Chi ha ancora dei dubbi su questa genesi, rammenti che la “Marcia su Roma” sarebbe stata facilmente impedita da una compagnia di Carabinieri, se il Re non avesse consentito loro di giungere a Roma: in fin dei conti – pensò il Savoia – meglio questo Mussolini che i bolscevichi. Un incarico “pro tempore”, fino al Luglio del 1943.
Più durevole l’esempio iberico, poiché la penisola rimase per molto tempo “addormentata” da regimi i quali, più che “fascismi”, furono “clericalismi” autoritari. In effetti, le innovazioni iberiche furono assai poche, e la penisola giunse agli anni ’70 del Novecento con un’economia prevalentemente agricola, arretrata rispetto al resto d’Europa. In aggiunta, per il Portogallo, ci fu l’annosa questione coloniale: la prima e l’ultima nazione direttamente coloniale della storia.
In sostanza, nessuno di quei regimi tentò una via d’uscita dal capitalismo, o il superamento dello stesso con nuove forme d’aggregazione sociale, che non fossero imposte con l’autoritarismo dell’epoca. Soprattutto il Fascismo ed il Nazionalsocialismo crearono valide, per l’epoca, forme di sostegno sociale (l’ OMNI, Opera Nazionale Maternità ed Infanzia, ad esempio), oppure – questo solo in Germania – restituirono allo Stato la sovranità monetaria.
In definitiva, i regimi autoritari dell’epoca si connaturarono con un principio di preminenza dello Stato sul cittadino: di per sé accettabile formalmente, un po’ meno per come venne applicato. Alla fine, i cittadini divennero semplicemente “milioni di baionette”. Morte sotto la neve.


Sull’altra sponda troviamo il mondo del socialismo reale: termine coniato per mascherare con eleganza il fallimento della prospettiva socialista, così com’era stata pensata da Lenin.
Ma, per contrappeso, la società sovietica che riaprì le porte al mondo non era più la sterminata landa desolata, l’infinita steppa russa del 1917. Era una nazione che possedeva una tecnologia con i fiocchi: aveva, però, i piedi d’argilla prodotti da un conflitto economico mai risolto, quello fra l’ideologia e la realtà. Per questa ragione fu “socialismo reale”, quasi un ossimoro.
A nostro avviso, l’esperienza sovietica è stata troppo frettolosamente scapolata: vuoi per un malcelato senso d’orgoglio da parte di chi aveva “vinto”, vuoi per il traboccante senso di colpa di chi aveva “perso”. In realtà, non c’era nulla da “vincere” o da “perdere”: c’era da capire. Forse, oggi possiamo farlo senza acrimonie.
Il gran fallimento della società sovietica, più che le difficoltà produttive (che, comunque, ci furono), fu il dramma della distribuzione. Ci sono molte cronache al riguardo, e non le riporto solo per questioni di spazio.


La vita del cittadino sovietico trascorreva nell’ossessione delle “liste”: per ogni bene s’entrava in lista. Anche per sostituire un pezzo del frigorifero c’era la corrispondente lista: il funzionamento del frigorifero dipendeva dalla produzione di una lontana fabbrica dell’est, sempre che non intervenissero altri fattori (spostamento di manodopera per altri scopi, mancanza di materie prime, ecc) a complicare il quadro.
Se moltiplicheremo questo andazzo per ogni oggetto, capiremo facilmente poiché l’URSS – a differenza della Russia odierna, terra di grande corruzione – fosse una sterminata plaga di piccola corruzione, che dilagava dal piccolo villaggio al funzionario di partito, a tutti i livelli. Ogni mezzo, per procurarsi quel dannato pezzo del frigorifero, era usato.
Il crollo dell’URSS avvenne prima della recente rivoluzione digitale, del Web ovunque, e sarebbe interessante vagliare quale potrebbe essere l’impatto del mezzo informatico in una società che producesse sufficienti beni – anche se suddivisa in molte comunità economiche – per la loro distribuzione. E’ un aspetto da non sottovalutare, poiché i costi di trasporto sono spesso il tallone d’Achille della filiera distributiva.
Ciò che l’URSS non riuscì mai a risolvere furono i rapporti economici interni: oscillò sempre fra stagioni di piccole liberalizzazioni, che incrementavano la produttività, ad altre di restrizioni di stampo ideologico, che ottenevano l’effetto opposto. Qui, c’è poco da imparare: se l’espansione continua del mercato non funziona più, possiamo credere ad uno Stato che s’assume la responsabilità di produrre e distribuire beni?

Diversa è stata la risposta della Cina: Pechino sta usando il capitalismo quasi “dosando” gli interventi in economia, nella ricerca di una difficile alchimia. Anche se, a prima vista, i cinesi hanno semplicemente sposato il capitalismo di mercato, non dimentichiamo che intendono mantenere il controllo dell’economia in mani pubbliche:


“…anche se la proprietà dello Stato rimarrà il principio fondamentale di base dell’economia nazionale, tutte le forme di proprietà – di Stato, collettiva e privata – dovranno essere messe in gioco nello sviluppo dell’economia…è necessario attenersi al principio dello sviluppo congiunto di settori economici multipli tra i quali la proprietà pubblica svolga un ruolo dominante; è necessario trasformare ulteriormente i meccanismi di gestione delle imprese di proprietà dello Stato e istituire un sistema imprenditoriale moderno che soddisfi i requisiti richiesti dall’economia di mercato”[2].



Certamente, quel “soddisfare i requisiti richiesti dall’economia di mercato” stride alquanto con la prima parte del testo, e facciamo tanti auguri ai cinesi di riuscire in un’impresa che sembra più un volo pindarico.
Abbiamo concluso: non c’è altro. Le sperimentazioni economiche del Novecento terminano qui, ed è tutto ciò che abbiamo per capire dove potremmo andare a parare.
L’aspetto veramente terrificante del “mercatismo” – da Reagan in poi – è stato quello, dapprima, di liquidare come insulsaggini tutti gli altri tentativi, per poi finire in un cul de sac senza soluzioni.
Certamente, oggi non abbiamo la possibilità – per via democratica – di mettere in discussione delle ipotesi di cambiamento radicale: possiamo solo subire ed addormentarci mentre guardiamo Ballarò.


Detto questo, rimane una via che potremmo definire “socialdemocratica” (in senso storico), ossia la faticosa via dell’aggregazione sociale su obiettivi, anche minimi, ma condivisi.
Scendere in trincea per difendere questo o quell’orpello del passato sarebbe tempo sprecato: che ci frega di salvaguardare labari littori o passi dell’oca sulla Piazza Rossa? Ai disoccupati non servono: serve, invece, iniziare a riflettere sulle possibili vie d’uscita dall’imperante (e fallimentare) “mercato”. Con quello che abbiamo, con l’esperienza che siamo riusciti a trarre, magari con qualche guizzo d’ingegno: sarà dura, ma non abbiamo altra via che la riflessione su cosa siamo stati, su cosa non siamo riusciti ad essere, su cosa potremmo diventare.
Qualche intervento – coerente con l’attuale Costituzione – è possibile: se qualcuno ascoltasse. Anzitutto, non è vero che lo stato nazionale ha completamente abdicato a legiferare, che lo spauracchio dell’Unione Europea è sulla porta, attento ad ogni minima mossa. Tanto per capirci, in Francia le donne vanno in pensione a 60 anni, ma nessuno solleva la questione di portare l’età a 65. Sarà perché che le burocrazie europee sanno che con l’Italia “sempre si vince”?
Con l’avanzare della crisi, ben presto gli stati dovranno compiere delle scelte, ma Bruxelles è lontana e le popolazioni vicine. Sta a noi farci sentire: proviamo ad indicare qualche idea come esempio, tanto per far comprendere dove vorremmo andare a parare, sperando che queste indicazioni ne catalizzino altre.


Se consideriamo un incentivo alla decrescita la produzione di beni più durevoli, lo Stato ha a disposizione il Codice Civile, anzi: c’è addirittura uno specifico Testo Unico al riguardo. Oggi, la garanzia dei beni che utilizzano energia elettrica (quasi tutti, perché anche l’auto ha l’impianto elettrico) è limitata a 2 anni. Domanda: perché, un bene che durerà circa 10 anni (automobile), deve essere coperto da garanzia per soli due? E se si rompe dopo due anni ed un giorno? Non si può certo estendere la garanzia a vita, ma raddoppiarla de iure sarebbe già un bell’incentivo per costruire qualcosa che non si rompa appena scade la garanzia. Il trucco l’abbiamo compreso da tempo.
Gli inglesi, tempo fa, scoprirono con orrore che tenevano in funzione una centrale elettrica soltanto per mantenere in tensione milioni d’alimentatori inutilizzati: ogni aggeggio elettronico ne ha uno. Telefonini, televisori, computer, ecc: perché non imporre, per il mercato italiano, l’obbligo di un interruttore con led che segnali se l’apparecchio è in tensione? Poi, saranno cavoli di ciascuno di noi se vuole pagare di più per niente.

La benzina sale, la benzina scende, ma sale in fretta e scende piano. Sappiamo a cosa serve il trucco: a far credere che esista una Robin Tax. Perché non si torna al prezzo controllato, oppure si stabilisce – giornalmente! – la variazione, ad effetto immediato? Le reti telematiche, a cosa servono? La sera, insieme alle previsioni del tempo, dovrebbe essere pubblicato il prezzo massimo per il giorno seguente. Scaroni: cuntent?



Nel mio precedente articolo – “Venti nucleari” – ho indicato una strada per creare ricchezza e lavoro dalle rinnovabili e destinarla ad usi sociali: perché, oramai quasi solo in Italia, non si fa un solo passo in quella direzione? Ah, già: faremo le centrali nucleari…
Le burocrazie europee si scervellano per mantenere la gente al lavoro nelle aziende: ma, signori miei, anche chi non ha un master ad Harvard sa che, se non si vende ciò che si produce, è inutile costruirlo. Avranno visto quei Tg degli anni ’60, quelli delle arance?
Abbiamo invece bisogno di un sacco di lavoro in altri posti: le intemperie di questo rigido inverno hanno ridotto le strade a dei tratturi. Tinteggiare le aule di una scuola è un’impresa da incubo: si sprecano più soldi in telefonate, riunioni e quant’altro che a “dare il bianco”.
Il patrimonio artistico è sempre più abbandonato, al punto che solo pochi giorni fa, in Piazza della Signoria, qualcuno ha staccato un dito al “Ratto di Polissena” di Pio Fedi. Un po’ di sorveglianza e di manutenzione, è chiedere troppo?

Se non vogliamo chiamarli lavori “socialmente utili” inventiamoci un sinonimo, ma diamo uno stipendio almeno decente a chi perde il lavoro, se in cambio si occupa delle mille incombenze puntualmente dimenticate. Non lanciarsi verso impossibili iperboli, oppure raccontare che la crisi è causata dalla cattiva informazione; ma come si fa a dire (Berluskaiser): “non leggete più i giornali”?



Ramsetoni – è solo un avatar di Saddamoni, Napoloni, Cesaroni, ecc – vorrebbe inviarli tutti, novelli schiavi della Nubia, a rialzare l’ottava meraviglia del Pianeta, a Messina. Da Napoli, bisognerebbe urlargli, in coro: ma facitece ‘o piacere!
Perché? Non ci sono i soldi per fare quell’inutile orpello! Testa dura, eh?


Dove si possono trovare soldi?
Ricordiamo che fu proprio Tremontoni, nel 2003, a cambiare le aliquote IRPEF: ridusse le tasse ai ricchi!
Il risultato?


In Italia, la distribuzione delle ricchezza è fra le più inique: il 10% della popolazione possiede il 45% della ricchezza nazionale. In pratica, una persona su dieci si prende quasi la metà, mentre le altre nove si dividono il resto. Questo ci ha fatto precipitare al livello di USA e Polonia, e solo il povero Messico ha una ripartizione della ricchezza più iniqua della nostra. Nessun altro, in Europa, vive una così drammatica differenza di reddito fra le classi sociali.
Perché non iniziare ad aumentare le tasse, progressivamente, a chi guadagna più di 100.000 euro l’anno? Se chi guadagna 100.000 euro ne dovesse pagare 1000 in più, si ridurrebbe in miseria? Ecco dove trovare i fondi per finanziare i disoccupati, non prelevandoli dall’INPS (che ha un attivo di 11 miliardi!) per poi, alla fine della questione, aumentare di nuovo l’età della pensione per far cassa!


Purtroppo per noi la classe politica – intera – fa parte di quel 10% dorato, e non si farà, da sola, un simile autogol: sempre che non s’inizi, in tanti e continuamente, a ricordarlo. Tutti i giorni: scrivendo sui blog, facendo girare messaggi via mail, su Facebook, ecc.
Certo, dissertare sui massimi sistemi può essere utile, ma ricordiamo le parole di un grande presidente, Sandro Pertini: «La democrazia inizia con la pancia piena».


di Carlo Bertani

18 marzo 2009

L'esempio nei giornali della Casta. Yesman

yesmanNon ci sono martiri, né eroi in questa storia. E non c’è nemmeno un Humphrey Bogart che dica: “E’ la stampa, bellezza”.
Ci sono soltanto giornali e giornalisti. Fatti della vita, che spesso sono fatti scandalosi, e modi diversi di raccontarli. Poteri forti e uomini deboli.

Come forse qualcuno già sa, per il mio giornale, il Corriere della Sera, mi sono occupato per quasi due anni delle inchieste Poseidone, Why Not e Toghe Lucane dell’ex pm di Catanzaro, Luigi de Magistris, e delle disavventure, chiamiamole così, di Clementina Forleo, da quando l’ex gip di Milano ha cominciato a occuparsi delle scalate bancarie illegali Unipol-Bnl-Antoveneta-Rcs.

Su queste cose... e su altre molto simili, ho scritto anche un libro, “Roba Nostra” (il Saggiatore), in cui si narra di una Nuova Tangentopoli italiana: il primo punto fermo sul quale si basa questa riflessione.

Molti, a destra e a sinistra, naturalmente interessati a smontare sia il contenuto di queste inchieste, senza conoscerle né discuterle, sia l’idea stessa che possa esserci una Nuova Tangentopoli hanno di volta in volta cercato di liquidare le une e l’altra.
Come un rigurgito di giustizialismo, come l’irresistibile mania di protagonismo dei soliti magistrati in cerca di autore, o come l’insopprimibile desiderio di riattivare quel circolo (definito sarcasticamente anche circo) mediatico-giudiziario che porta certe notizie fin sui giornali (ma guarda un po’).
Insomma, tutto l’armamentario propagandistico che di fronte a un problema serio sposta sempre il problema un po’ più in là per parlar d’altro e rovesciare le parti.

Così il problema, il “caso”, per tornare a noi, sono diventati de Magistris e Forleo.
Sapete tutti com’è andata a finire. Forleo e de Magistris trasferiti con motivazioni risibili, pretestuose, addirittura inesistenti e le loro inchieste fatte a pezzi.
Anche se alcuni mesi dopo la loro defenestrazione e l’uscita di “Roba Nostra” sono stati in molti, a destra e a sinistra, a riconoscere come stanno realmente le cose.

Due persone, in modo particolare. L’ex presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, e Primo Greganti, sì, proprio l’uomo del “conto Gabbietta” e delle tangenti rosse. Entrambi, Ciampi e Greganti, hanno detto la stessa cosa: oggi non è “come”, ma è “peggio” di Tangentopoli ‘92.
Se la nuova Tangentopoli è più grave della vecchia, allora si capisce meglio perché scriverne e parlarne in tv e sui giornali è cosa molto, molto più difficile di quanto non lo fosse nel ‘92.

E non solo perché è cambiata l’aria, o perché ci sono dentro tutti (anche allora c’erano dentro tutti, ma alcuni hanno pagato e altri no), quanto perché questa Tangentopoli è davvero “nuova”: innanzi tutto è, al tempo stesso, più semplice e più raffinata nei meccanismi; poi, è più remunerativa e più nascosta; infine è di una trasversalità perfetta, in alcuni casi sembra studiata a tavolino affinché i suoi protagonisti “simul stabunt, simul cadent”.

Per questa ragione, nessuno di noi (pochi) giornalisti che avevamo deciso di scrivere ciò che sapevamo si è mai illuso che il giorno dopo avrebbe continuato a scrivere sull’argomento.
In questi ultimi due anni però, bene o male, ci siamo riusciti. Con prezzi alti, in termini di costi umani e professionali, ma ci siamo riusciti.
Abbiamo scritto di questa Nuova Tangentopoli nonostante non operassimo in “pool”, come facevano i cronisti ai tempi di Mani Pulite, ma fossimo altrettanti cercatori di notizie “maledetti e solitari”.

E nonostante tutti quei “colleghi” che, pur avendo le nostre stesse notizie, sceglievano di non pubblicarle, di non battersi all’interno dei rispettivi giornali per pubblicarle, o addirittura facessero a gara per “smentire” quelle notizie prima ancora di venirne a conoscenza e di verificarle.

Per questa “presenza” del Corriere della Sera sulle inchieste più delicate del Paese, nell’estate del 2007, i magistrati di Matera indagati in Toghe Lucane mi hanno accusato (assieme ad altri quattro giornalisti e a un capitano dei carabinieri) di “associazione a delinquere finalizzata alla diffamazione a mezzo stampa”, un reato inedito e delirante, per il quale sono ancora indagato.

Le indagini a nostro carico sono state prorogate quattro volte.
Ma per questa vicenda nessuna presa di posizione “garantista” da parte dei commentatori un tanto al chilo della “libera stampa”.
Per questa vergogna, nemmeno un decimo dell’attenzione riservata da stampa e tv per le proroghe d’indagine, naturalmente subito condannate, decise nelle vicende abruzzesi, campane, toscane, in cui sono indagati politici e imprenditori, cioè i principali protagonisti di ogni tangentopoli che si rispetti.

Con l’imputazione di “associazione a delinquere eccetera”, i magistrati di Matera mi hanno intercettato e hanno ascoltato tutto ciò che dicevo con i miei colleghi e con il mio direttore, e hanno intercettato – meglio sarebbe dire: spiato –, anche l’ufficiale dei carabinieri e il pm de Magistris che parlavano delle indagini su quei magistrati indagati. I quali si sono trasformati d’autorità in indagatori dei loro indagatori (una vera e propria anticipazione, quasi un esperimento, di quanto avverrà a dicembre 2008, nella cosiddetta “guerra” tra le procure di Salerno e Catanzaro).

Quando accadde tutto questo, che se non è un vero e proprio golpe giudiziario molto vi somiglia, tra i pochi a capire cosa stesse succedendo e cosa ci stessero combinando – come giornale e come informazione libera, intendo –, fu proprio Paolo Mieli.

L’ho scritto anche in “Roba Nostra”, in un momento non sospetto. Quindi il valore di questa testimonianza è doppio.

Mi disse Mieli: “La cosa più grave, più terribile che possano fare a uno di noi, a un giornalista, è questa. Intercettarlo e metterlo sotto controllo in questo modo. Dopo di che, possono solo sparargli”.

Io lamentai il silenzio degli altri giornalisti. Ma capii che anche il direttore del mio giornale era sotto tiro e sotto pressione come me, a causa di quelle inchieste raccontate dal Corriere, e uscii dalla sua stanza forte di una convinzione: che “l’intesa” con un direttore che rischiava di suo facendomi scrivere certe cose valesse molto di più di scontate dichiarazioni di solidarietà dei “colleghi” e della “categoria” (che in ogni caso non ci sono state).
Insomma, la migliore dimostrazione che non fossi solo e che non rischiassi l’isolamento era nel fatto che i miei articoli su quelle vicende, che ormai erano diventate il più grave scandalo giudiziario dal dopoguerra, potessero continuare a essere pubblicati.

Invece, il 3 dicembre scorso, dopo un mio articolo ricco di nomi eccellenti sulle perquisizioni e sui sequestri ordinati dai magistrati di Salerno nei confronti dei magistrati di Catanzaro, sono stato improvvisamente “rimosso” da quel servizio.
Stop. Basta. Senz’alcuna motivazione.
E da quel momento non posso più scrivere di Salerno, Catanzaro, Poseidone, Why Not, Toghe Lucane.
Ma come, lo stesso Mieli che fino a quel momento si era fatto “garante” della mia libertà e quindi della mia incolumità, proprio lui dice basta? Articoli fatti male? Tutt’altro. Qualche grave “scivolone” su un fatto, su una circostanza di rilievo, su un dettaglio? Nemmeno.

Dopo, molti giorni dopo, nel mio giornale circolerà voce che ero stato rimosso perché ero “indagato”. Un tentativo debole di dare una motivazione alla mia rimozione.

Ma anche un tentativo maldestro, perché non specificava che ero, e sono, indagato per quella acrobazia giuridica definita “associazione a delinquere finalizzata alla diffamazione a mezzo stampa”, elaborata strumentalmente dalla procura di Matera. Avrebbe dovuto scattare come un sol uomo, la “categoria”, di fronte a un fatto così grave e così palesemente fuori dalle regole del diritto. Per difendere me, ma soprattutto per difendere il principio di libertà e indipendenza dell’informazione. E invece eccola pronta a farne un motivo di autogiustificazione della propria condotta.

Ma poi, cosa c’entra Matera con la cosiddetta “guerra” tra le procure di Salerno e Catanzaro, che stavo seguendo?
E in ogni caso, cosa c’entra accampare questa motivazione balorda basata su una figura di reato balorda, a sua volta basata sull’assenza di qualsivoglia processo o sentenza che abbia definito diffamatori i miei articoli?
Articoli che, al contrario, in questi due anni hanno trovato via via conferma negli sviluppi delle indagini. Articoli che in diversi casi sono stati inchieste giornalistiche dalle quali – dopo – sono scaturite inchieste giudiziarie.

Ancora. Si può davvero credere che siccome un giornalista viene querelato da un cittadino, o peggio da un indagato, debba per ciò stesso smettere di occuparsi dei fatti che coinvolgono quel cittadino o quell’indagato?
Se siamo a questo punto, allora chiunque (ma già siamo su questa strada) userebbe la querela (e ormai anche la citazione al risarcimento danni) proprio per centrare l’obiettivo di togliersi (o far togliere) dai piedi il giornalista “indesiderato”.
Come del resto è stato fatto per il pm Luigi de Magistris, quando ha iscritto tra gli indagati Clemente Mastella.
Qual è stata l’abnormità logica, prima che giuridica, concepita in quel caso per trasferire de Magistris? Si è detto: un pm che indaghi sul ministro si mette in una posizione di conflitto di interessi con il ministro indagato …

Ne consegue, quindi, che non si può indagare un ministro (nemmeno quando quel ministro, come nel caso di Mastella, era indagato per fatti risalenti al periodo in cui era senatore). Ma per favore!

La verità è che io dovevo smettere di occuparmi di ciò che avevo seguito per due anni per una ragione molto semplice. Una ragione che trascende i direttori di testata. In Italia, poi, li sopravanza di parecchie lunghezze, non c’è gara.
Ed è la ragione della forza.
La forza dei poteri forti, che si sono sentiti in pericolo per le inchieste di magistrati che svolgevano il proprio compito di servitori dello Stato senza accucciarsi sotto l’ala protettiva dei politici e dei magistrati come loro. Ma, al contrario, hanno messo sotto accusa proprio i magistrati, come mai era stato fatto prima, facendo emergere un dato sconvolgente, che nessun procedimento disciplinare e nessun trasferimento potranno mai fiaccare.

Questa storia, che non ha martiri e non ha eroi, è, pensateci bene, anche una storia di trasferimenti decisi da altrettanti poteri forti: la magistratura ha trasferito Forleo da Milano a Cremona e de Magistris da Catanzaro a Napoli, il Vaticano ha fatto cambiare aria al vescovo di Locri, monsignor Giancarlo Bregantini, mandandolo a Campobasso, l’Arma dei carabinieri ha trasferito nelle Marche il capitano Pasquale Zacheo, braccio destro di de Magistris in Basilicata, la procura generale di Catanzaro (quella che secondo i magistrati di Salerno ha avocato illegittimamente l’inchiesta Why Not) ha sollevato dall’incarico il consulente informatico del pm de Magistris, Gioacchino Genchi.

Mancava un giornalista. E’ toccato a me.
I poteri forti, dicevamo. Tra questi, vi è senz’altro la magistratura.
Ma cosa fa paura davvero in tutta questa storia? Qual è la novità indicibile? Eccola. Partendo dalla Calabria e dalla Lucania, su su per l’Italia intera, stava venendo fuori ciò che in fondo tutti pensavano ma non osavano confessare nemmeno a se stessi.

E cioè che non c’è mafia e non c’è tangentopoli e non c’è corruzione e non c’è sistema di malaffare che regga e prosperi, come purtroppo accade in Italia, se non ci sono interi pezzi di magistratura, soprattutto ai livelli direttivi, che garantiscono e coprono questo sistema di nefandezze e in moltissimi casi vi partecipano a pieno titolo.

E’ stata la prima volta che un potere forte come la magistratura si è trovata a doversi confrontare non con il problema di alcune “mele marce” al suo interno, ma con una realtà ben più estesa e radicata, che minacciava, partendo da Toghe Lucane, di provocare uno sconquassante effetto domino per “il sistema”.

Ecco dunque spiegata la corsa del ceto politico – ma non era l’avversario “storico” della magistratura? – a difendere i magistrati inquisiti per reati gravissimi e a garantirli nei loro posti e nelle loro funzioni. Mentre, insieme con il Csm e l’Anm, preparava il rogo per tutti i magistrati liberi, appassionati al loro lavoro, pronti a fare il proprio dovere, impartendo così una durissima lezione, che fosse d’esempio per tutti gli altri, ai due giudici “senza partito”, le pietre dello scandalo Clementina Forleo e Luigi de Magistris.

Il potere forte “magistratura”, per esempio, prima ancora che il potere forte “politica”, non gradisce che si dica, e infatti non lo dice nessuno, che nel Palazzo di giustizia di Milano è rimasta chiusa nei cassetti per due mesi la risposta della giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato riguardante l’iscrizione del senatore Nicola Latorre sul registro degli indagati (sempre per la vicenda delle scalate bancarie).

Siamo nella primavera-estate 2008. Il caso doveva essere trattato dal giudice competente, che era ancora il gip Clementina Forleo.
Invece le carte, regolarmente trasmesse dal Senato il 29 maggio al presidente del tribunale di Milano, Livia Pomodoro, sono state tenute letteralmente nascoste negli uffici del Palazzo di giustizia fino al 29 luglio.
Fino a quando cioè la Forleo, per un piccolo incidente domestico, ha dovuto ricorrere a qualche giorno di congedo per malattia.
Appena la Forleo va in malattia, con la motivazione della “urgenza a provvedere” (l’urgenza? due mesi dopo?) le carte vengono tirate fuori e assegnate ad altro gip, Pietro Gamacchio.
Il quale “in tempo reale” studia un processo complesso, che non conosce, e il primo agosto (il giorno prima del rientro della Forleo) rinnova la richiesta di autorizzazione all’iscrizione del parlamentare nel registro degli indagati.

Dov’è l’inghippo? Nel fatto che a quel punto la procura di Milano poteva tranquillamente iscrivere Latorre nel registro degli indagati (e così D’Alema e gli altri parlamentari, perché la Camera dei deputati aveva già dato il nulla osta, affermando che non era necessaria l’autorizzazione del Parlamento).
Ma non lo ha fatto. Grazie al gip Gamacchio. Infatti, in un caso del genere, dice la legge, il giudice “può” (può, non deve) rinnovare la richiesta di autorizzazione. Se Gamacchio non avesse fatto ciò che con ogni probabilità non avrebbe fatto la Forleo (qualora le avessero trasmesso gli atti che le spettava avere), a quest’ora le cose starebbero diversamente.
Non ci sarebbero state tutte le danze inutili tra Roma e Strasburgo, tra parlamento italiano ed europeo, e Latorre, D’Alema e gli altri telefonisti, a loro garanzia si capisce, come per ogni altro cittadino, risulterebbero iscritti nel registro degli indagati.

Ma questo, in Italia, non si può dire. Non si può dire che il “caimano” Berlusconi, bene o male, nelle aule di giustizia ci è entrato (giustamente) affinché alcuni processi a suo carico fossero celebrati. Mentre per il “caimano” D’Alema (e compagni) non ci può essere nemmeno la semplice iscrizione in un registro degli indagati.

Ognuno a questo punto tragga le conclusioni che vuole, anche quelli ancora convinti che la logica del “meno peggio” sia opportuna o necessaria. Per la cronaca, resta l’esito finale: Forleo trasferita e Gamacchio promosso a presidente di sezione.

Queste cose, per chi volesse conoscerne tutti i passaggi e i dettagli, sono state da me già scritte in una nota (“Su Forleo e de Magistris è calato il silenzio totale”) pubblicata non sul giornale per il quale lavoro, bensì sul blog del giudice Felice Lima, “Uguale per tutti”.
Quella nota è stata poi ripresa da “Dagospia” e ora è anche sul mio blog, carlovulpio.it.

“Ne dobbiamo scrivere in rete, quasi fossimo esuli o clandestini”, così concludevo quella ricostruzione, che in qualunque altro Paese “a democrazia occidentale” avrebbe trovato almeno un giornale o una tv disposti a parlarne.

Forse adesso si comprende meglio perché non è il 3 dicembre, non è la mia “rimozione” dai fatti di Catanzaro il cuore del problema.

Quell’episodio è solo l’acme di una patologia. Di un sistema malato. In cui vi sono poteri forti non controllati né temperati da necessari contrappesi, tra i quali – essenziale, vitale – l’informazione. Che invece è fatta da “uomini deboli”, i giornalisti, una categoria che non c’è.

Per i giornalisti, o per la maggior parte di loro, l’idea che l’informazione sia prima di tutto un mezzo per difendere e garantire la democrazia è un’idea superata, o peggio, inservibile per far carriera e per scalare posizioni di potere.
Se non fosse così, se fosse vero il contrario, non sarebbe passata sotto silenzio la intimidazione messa in atto da magistrati inquisiti che intercettano un intero giornale per sapere come ragionano i suoi giornalisti e per conoscere in anticipo cosa pubblicheranno.
Se non fosse così, quei magistrati inquisiti e coloro che li hanno sostenuti, a tutti i livelli istituzionali, si sarebbero ben guardati dall’attuare l’azione eversiva di spiare i magistrati che indagano su di loro.

Su questo, non c’è stata ancora una sola procura della Repubblica che abbia aperto un’inchiesta. Mentre il sistema dell’informazione si è ben guardato dal trattare l’argomento.
Ma il silenziatore non ha funzionato. Non può più funzionare. Perché c’è un mondo reale, ormai, fatto di persone reali, che utilizzano lo strumento virtuale della Rete e che si parlano, si informano, si confrontano. E’ molto difficile ingannarle.

E infatti, che questa mia “rimozione” dal “caso Catanzaro” non fosse solo un deprecabile episodio, ma il sintomo di una malattia ben più grave, che va ben oltre la mia persona e il mio lavoro, lo hanno capito subito qualche milione di frequentatori della Rete. Associazioni, singoli individui, blog noti come quelli di Beppe Grillo e di MicroMega, o meno noti (elencarli tutti non si può), e finanche un migliaio di giornalisti (ebbene sì, ce ne sono ancora) che hanno firmato un documento senza sbavature “corporativistiche”.

Tutto questo ha un valore ancora più grande se pensiamo che negli altri Paesi occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti, esiste una più o meno profonda convinzione che la stampa debba essere libera e indipendente. Mentre in Italia libertà di espressione e di informazione (sia come diritto a informare, sia come diritto a essere informati) sono ormai considerati beni di lusso, o armi improprie. O entrambe le cose.

E quindi vanno tenute sotto controllo.
Ecco, appunto, il controllo. Come si fa a controllare, a purgare, a troncare e a sopire, a narcotizzare, a seppellire? E qual è la “linea rossa” oltre la quale scatta il controllo e, zac, la tagliola si chiude?
Rispondere a queste domande sembra facile.
Si dirà: ci sono tanti modi per modificare un articolo, o per censurarne le parti più scomode.

Si potrebbe cominciare da quel “taglia e cuci” praticato all’insaputa dell’autore da tempo immemore in tutte le redazioni, magari in nome della esiguità dello spazio, e si potrebbe finire con il pressing e con le “raccomandazioni” di un caporedattore, o di un membro della direzione, o del direttore in persona: raccomandazioni che in certi casi sono più cogenti di quelle emanate dalla Unione europea …
Ma tagliare brutalmente un articolo è ormai considerato un modo primitivo di raggiungere l’obiettivo.

Mentre il pressing e la “raccomandazione”, oltre a scoprire i giochi, possono creare antipatici incidenti diplomatici.
E allora come si fa? Non si fa.
Siamo in una nuova era, ormai. Nella quale, l’Uomo Nuovo – immaginiamolo come la creatura di Aldous Huxley trasferita in tutti i mezzi di comunicazione di massa – è uno Yes Man perfetto.

Ecco, i giornalisti oggi sembrano dei replicanti, altrettanti Yes Men pronti a ubbidire.
Ma la grandezza di questa ultima fase dell’evoluzione della specie è nel fatto che costoro ubbidiscono senza nemmeno attendere gli ordini.
Che, attenzione, non sono sempre e necessariamente gli ordini di un Altro. Sono, ormai, gli ordini che lo Yes Man ha imparato a impartire a se stesso.
Se non lo facesse si sentirebbe perduto.
Oltre ogni autocensura, dunque, che pure si pensava fosse il massimo stadio del controllo della stampa “libera”. Poteri forti e uomini deboli, affinché il controllo totale delle notizie e delle loro chiavi di lettura sia sempre più efficace.

La perfezione però si raggiunge quando il controllo si evolve in riflesso condizionato. La tomba di ogni senso critico. I cani di Pavlov.
Se invece il meccanismo dell’autoimposizione non dovesse funzionare per una ragione qualsiasi, scatta il sistema d’allarme tradizionale. La catena di sant’Antonio delle telefonate. Da un giornalista all’altro, come dal brigadiere al maresciallo al colonnello, fino al generale e oltre.
E naturalmente anche in senso contrario, poiché non si telefona mica soltanto “dal” giornale (o dalla tv). Si telefona anche “al” giornale (o alla tv). E le telefonate da un Palazzo all’altro non sono mica soltanto chiamate urbane, è ovvio.
“E’ la stampa, bellezza”.

Sollevarne uno per far sentire sollevati tutti gli altri. Ma non dura, vedrete.

di Carlo vulpio

17 marzo 2009

E' possibile lo scoppio di una grande guerra? La Storia insegna





cimitero-di-guerra

In queste esposizioni mi arrischierò a rispondere ad alcuni dei punti interrogativi sollevati dalla prospettiva di una guerra di grande portata. Le note a questi studi sono state scritte fuori orario, in un angolo del mio soggiorno. Si tratta dunque di sapere in che modo il capitalismo americano, nella sua condizione attuale di indebitamento, pauperizzazione di massa e disintegrazione finanziaria, riuscirà a competere a livello internazionale. Basti sapere che è una questione di vita o di morte, che ci conduce nei più profondi recessi delle contraddizioni conflittive interne al capitalismo e all'imperialismo [1], e ci darà un'idea più delineata di cosa intendiamo dicendo che la Cina è diventata il fulcro industriale del globo, nonché un'idea di quello che intendiamo quando parliamo di squilibrio finanziario.

Le Ramificazioni Qualcuno fra voi ha evocato la possibilità che un conflitto mondiale si verifichi nel corso del 2009... Nello scatenamento di una guerra, il ruolo della follia non si può mai escludere. Conduce una guerra a Gaza, tramite i suoi delegati; conduce una guerra in Iraq; e naturalmente sta moltiplicando il suo impegno militare in Afghanistan; ha esteso il campo di battaglia fino al Pakistan. Come dobbiamo affrontare la questione? Qual è il metodo più adatto? Sono cosciente del fato che scendere nel dettaglio delle potenziali aree critiche ci fornisce singoli punti che però non hanno linee che li uniscano. La selezione e interpretazione degli eventi sono perciò condizionate dalle inclinazioni ideologiche e filosofiche dello storico. Come notava Lloyd George, il più scaltro tra i costruttori dell'impero e uno dei principali sicari della Grande Guerra: "Se il 1914 non fosse arrivato quando è arrivato, sarebbe inevitabilmente giunto più tardi". Le guerre del capitalismo erano il sigillo della sua politica di espansione [3]. La USCO sta già spendendo più del doppio o del triplo di quello che il resto del mondo spende in armamenti. La USCO e i suoi lacchè militari sono in guerra permanente fin dal 1945. Questo include il suo ruolo nella guerra civile cinese che si concluse nel 1949, in Indocina a partire dal 1945, in Corea, due volte di seguito in Iraq, eccetera. Le sue guerre coloniali, combattute esclusivamente contro popoli di colore, hanno condotto l'economia degli Stati Uniti alla bancarotta. Secondo l'ultimo conteggio, ci sono 250 basi militari al di fuori del territorio degli USA. Sono il più grande mendicante del mondo. È stato sicuramente il caso del Terzo Reich di Hitler, nel quale le spese militari produssero un'espansione che riassorbì le masse di disoccupati. È stato il caso del regno Unito, dal 1937 in poi. Il risultato fu ottenuto da massicce spese militari nel settore pubblico, finanziate dal debito. Lasciatemi ribadire che ciò che pose fine al diabolico rovescio innescato nel '29, fu lo scatenamento della II Guerra Mondiale. Si può quindi suggerire che la guerra, insieme con la sua preparazione, offra la "soluzione finale" per raggiungere la piena occupazione? Nel caso del capitalismo statunitense la risposta inequivocabile è no. I debiti del capitalismo americano - del governo, delle imprese, delle famiglie - non verranno mai ripagati. Si potrebbe sostenere che saranno le entrate dei produttori di armamenti ad aumentare. Data l'alta capitalizzazione della moderna produzione bellica, l'immissione di forza lavoro si riduce drasticamente. Torniamo alle cifre citate da Stigliz. Solo in Iraq, la spesa è di 3,5 bilioni di dollari. La USCO vive di tempo e denaro presi in prestito da altri, un'abbuffata parassitaria pagata dal 70% del risparmio mondiale, una situazione palesemente insostenibile, anche a breve termine.

Israele e il Medio Oriente Sospetto che sia corretto supporre che Gaza sia un'area troppo ridotta per essere considerata un probabile catalizzatore di un grande conflitto mondiale. Eccoci dunque arrivati al ruolo nella storia, non di forze astratte, ma degli individui. Il sig. Obama è un politico fragile, e le incontrollabili convulsioni del capitalismo, in patria e all'estero, lo getteranno in mezzo a un mare in tempesta. Sappiamo bene chi sia il duo Netanyahu/Lieberman. La posizione incontrastata del duo all'interno delle lobby sioniste, come all'interno delle alte sfere della USCO, è molto importante. Per cui non possiamo ignorare la possibilità che nella loro disperazione possano scatenare una guerra di più vaste proporzioni. E il corso degli eventi non resterebbe confinato alla regione. L'obbiettivo dell'imperialismo statunitense, congiunto con quello israeliano, è la distruzione dell'Iran, alleato sia di Hamas sia di Hezbollah. Il lancio di satelliti [da parte dell'Iran] introduce nei nostri calcoli nuove e inquietanti variabili. Se ne parlò sul New York Times. Si tratta delle relazioni tra USA e Cina, che hanno raggiunto nuovi picchi di tensione commerciale, a dispetto delle tiritere che affermano il contrario.

La Cina e gli Stati Uniti Prima di proseguire nell'esame della possibilità che le tensioni in aumento, commerciali e finanziarie, possano condurre a un letale confronto bellico, dobbiamo comunque rievocare la natura delle rivalità commerciali e le armi dispiegate nelle guerre economiche degli anni 30. Il discorso del Presidente cinese a Davos, molto sferzante nei confronti degli USA (come quello di Putin), è indicativo della direzione presa dalla guerra economica. Davos è il perno della globalizzazione. È la cabina di comando del potere corporativo, dei leader e aspiranti leader mondiali. Davos ha evidenziato la miserevole fragilità delle istituzioni finanziarie, un tempo viste come la colonna portante del sistema. La rilevanza che hanno oggi queste parole è ovvia: "Stiamo vivendo una guerra... Mentre i passi dell'attuale crisi suonano sempre più pesanti, il capitalismo non ha più la forza di scalare le pareti del pozzo della defstag. La guerra globale per il controllo dei mercati e del mercato azionario continua a ritmo serrato. Questo si rispecchia nelle relative prestazioni economica di USA e Cina, che è diventata il fulcro della produzione manifatturiera mondiale. Di contro, la USCO è in preda all'agonia della disaccumulazione del capitale e al declino dell'industria di base. Così come nel Regno Unito, la sua base industriale, una volta tanto potente, è stata eviscerata. Diamo uno sguardo alle cifre, per osservarne le divergenze e scoprire quali di esse indicano le tensioni che potrebbero condurre a una guerra. Col disfacimento dell'indebitato capitalismo nipponico, a un passo dalla crescita zero, [la Cina] si predispone a mandare il Giappone nel sottoscala della storia. Prendiamo in considerazione per primi i maggiori indicatori (2008) degli USA, e confrontiamoli con quelli cinesi: USA: PIL (+0,9% [rispetto all'anno prima]); Bilancia Commerciale (- $ 833 miliardi); Saldo delle Partite Correnti (- $ 697 miliardi); Produzione Industriale (-7,8%) CINA: PIL (+9,1%); BC (+$295 miliardi); SPC (+$371 miliardi); PI (+5,7%) Le cifre evidenziano la sempre maggiore disparità economica tra i due paesi. Le importazioni degli USA crescono più delle esportazioni. Il capitalismo statunitense sta cadendo in una spirale deflazionaria che ricorda il cosiddetto "decennio perduto" giapponese degli anni 80 [10]. Prestito significa debito. La Cina ricicla il suo surplus commerciale acquistando titoli e buoni del tesoro statunitensi. Stabilire se l'élite politica cinese continuerà a riciclare i guadagni del commercio estero per puntellare i deficit USA resta problematico. Il capitalismo americano è ormai da due decenni il maggior debitore del mondo. Le dimensioni delle cifre è rilevante. Le riserve di valuta e titoli esteri della Cina, che ammontano a 2000 miliardi di dollari, sono le più grandi del mondo. Di questa cifra, 1700 miliardi vengono investiti in beni pagati in dollari, il che rende la Cina il maggior creditore del capitalismo americano, e il secondo maggior compratore di buoni del tesoro statunitensi. [Il capitalismo americano] è dipendente totalmente dal denaro cinese. Mai nella sua storia la USCO era stata così dipendente da un creditore estero. La Cina ha già perso miliardi. Questo è dovuto al deprezzamento del dollaro, derivato dal crescente indebitamento, dal risparmio in calo, dagli interessi [sui titoli] ridotti a zero, e da un PIL che allo zero ci si sta avvicinando. Senza la cascata di denaro dalla Cina, la USCO sarebbe incapace di perseguire la sua espansione militaristica all'estero. Quello che possiamo dire è che lo status del dollaro come valuta delle riserve mondiali, che ha conferito un potere "stravagante" (questa l'espressione di de Gaulle [11]) all'imperialismo statunitense, questo status ovviamente non può durare. I buoni del tesoro USA sono un porto sicuro. Evitando di usare un gergo tecnico, i proprietari del salvadanaio cinese hanno talmente tanti soldi da non sapere dove investirli, tranne che nei pessimamente redditizi titoli statunitensi. La battaglia sui tassi di cambio si combatte sui campi di battaglia del mercato dei cambi.

L'Indice Big Mac Per capire la ragione per cui, secondo me, non può esserci una soluzione amichevole alla guerra commerciale sino-americana, dobbiamo fare qualche accenno alla natura del mercato dei cambi. La Regina delle merci. Il mercato all'interno del quale si conducono queste transazioni viene chiamato Forex. In Cina, il Big Mac costa 1,53 dollari. Di qui la nostra conclusione (ripeto: non si tratta del solo modo di valutare le disparità valutarie, ma di certo è il più semplice ed efficace), che il Renminbi (o Yuan) cinese è sopravvalutato del 40% rispetto al dollaro, il che, secondo la valutazione del Tesoro americano, gli concederebbe un vantaggio nelle esportazioni [12]. Il governo statunitense ha già caricato delle tariffe sui prodotti cinesi, accusando la Cina di manipolazione dei tassi di cambio. Il problema del vantaggio competitivo della Cina ovviamente va al di là il tasso dei cambi. Il relativo livello dei salari è altrettanto rilevante. Il livello dei salari nel settore manifatturiero cinese è inferiore del 10% rispetto a quello degli USA. Ma non si tratta solo di una differenza nel costo della mano d'opera. Mettiamoci anche che la produttività industriale della Cina è stata notevole. La Cina è presente su tutti i mercati mondiali, e il suo commercio con l'estero e i suoi investimenti diretti degli ultimi dieci anni sono schizzati alle stelle, particolarmente in America Latina e in Africa. Australia e tutto il mercato asiatico, per non parlare della Russia. Il ruolo della USCO, dell'Unione Europea e del Giappone, per il Venezuela sono diventati periferici. La conquista cinese dei mercati mondiali continua inarrestabile. Diciamolo senza la minima ambiguità: l'obbiettivo della dirigenza cinese è un'espansione del mercato.

Dinamica della sovraproduzione Una delle carratteristiche della corrente defstag, e non esagero usando questo termine, è che ci sono troppi beni per troppo pochi acquirenti, troppo denaro e troppo poche occasioni di investimento, troppi lavoratori e troppo pochi posti di lavoro, troppe banche e troppo pochi risparmiatori, eccetera. Questo vale non solo per l'attuale caduta ciclica del capitalismo, ma anche per gli altri aspetti della crisi. L'essenza della crisi del capitalismo è la sovraproduzione. L'obbiettivo dell'accumulazione capitalistica è quello di espandere e garantire una sempre crescente massa di profitti alla classe proprietaria. La sovraproduzione non è quindi un'aberrazione del sistema, ma è insita nel suo funzionamento. Si può risalire alla prima Grande Depressione del capitalismo, quella del 1873 [-1890], come venne riportato dalla Commissione Reale [che si occupò della crisi] nel suo rapporto finale, con parole che sarebbero state adatte sia alla futura crisi del 1929 sia all'attuale crollo [13]: "Riteniamo che (...) la sovraproduzione sia stata uno dei tratti maggiormente rilevanti dell'andamento dei commerci durante gli ultimi anni, e che la depressione di cui ora ci troviamo a soffrire possa essere parzialmente spiegata da questo elemento (...). La caratteristica rimarchevole della presente situazione, e che a nostro avviso la rende diversa da altri precedenti periodi di depressione, è la lunghezza del periodo durante il quale questa sovraproduzione si è protratta (...). Abbiamo la convinzione che negli ultimi anni, e più in particolare negli anni in cui è emersa la depressione nei commerci, la produzione di merci e l'accumulazione di capitali abbia proceduto in questo paese secondo un tasso più rapido di quello dell'aumento della popolazione." La profondità di queste osservazioni sottolinea non solo la natura, la genesi e la logica del ciclo affaristico (che esploreremo in esposizioni successive), ma la sua sua connessione con le altre grandi depressioni che hanno devastato il capitalismo mondiale, come la Grande depressione del 1929 e la depressione economica che stiamo vivendo attualmente. L'avvento dei monopoli e le sue implicazioni Il capitalismo, col suo dominio di classe, è un sistema guidato dalla competizione, in tutte le fasi del suo sviluppo. Il periodo che va dal 1873 al 1914, che fece strada al grande massacro [della I Guerra Mondiale], vide il cambiamento strutturale del capitalismo, dalla fase della competizione a quella dei monopoli. La Grande Depressione diede di sprone alla concentrazione e centralizzazione del capitale che Marx aveva analizzato con tanta efficacia. I nomi Rockfeller, Buchanan (il re del tabacco), Krupp, Vanderbilt, Morgan, Carnegie, incarnano il volto del capitale. Costoro non erano semplicemente quelli che il Presidente Theodore Roosevelt chiamò "i malfattori della Grande Ricchezza". Questa era la nuova fase del capitalismo monopolistico, generata dalla crescente competizione all'interno e tra gli stati nazione, e dal declino dei tassi di profitto. Una sempre maggiore competizione portò a un eccesso di capacità produttiva, col corollario di una spietata corsa al ribasso dei prezzi, la caduta dei prezzi al dettaglio e all'ingrosso, indici di una fase deflattiva. Quel periodo ha spalancato le porte a quella che George Bernard Shaw, ai tempi della Guerre Boere, chiamò l'era dei Mercanti di Morte [14]. Ricorderete quello che il Presidente Eisenhower, nel suo discorso di commiato, definì il complesso militare/industriale, il che generò grandi quantità di letteratura. La concretezza di questo fenomeno si manifestò in forma concentrata nei decenni che portarono alla Grande Guerra. Quasi il 70% dei pezzi di artiglieria, e le loro munizioni, utilizzati dall'esercito del Kaiser, per non parlare dell'acciaio che permise l'espansione della flotta tedesca sin dal 1890, era di produzione Krupp. La casata dei Krupp si mescolò a quella degli Hoenzollern per mezzo di legami matrimoniali. Tale era il potere della interconnessione matrimoniale all'interno dell'imperialismo.

Una rete di conquiste La spinta impetuosa che spingeva le potenze europee alle conquiste imperiali non erano meno vive per Stati Uniti e Giappone. Quindi l'imperialismo è l'estrema globalizzazione dell'accumulazione del capitale a livello mondiale nel suo momento di crisi e sommovimento. A partire dal Rinnovamento Meiji [20], in effetti in tre soli decenni, il capitalismo giapponese raggiunse con velocità stupefacente il livello di una nazione forte nell'industria e nel commercio mondiale, alla caccia incessante di espansione e conquiste coloniali. Insieme al potere militare (il gumbatsu) divennero il cuneo dell'espansione coloniale con l'occupazione di Formosa, che immise il Giappone nel circuito imperialistico. A questo seguì, nel 1895, la conquista della Corea e della Manciuria meridionale. Era pronta la scena per un'altra guerra imperialistica, stavolta tra la Russia degli Zar e il Giappone, che culminò nella cocente disfatta della Russia nella battaglia della Baia di Tsushima del 1905,e la conquista dell'isola di Sakhalin. Potremmo aggiungere, di passaggio, che questa sconfitta portò alla Rivoluzione Russa del 1905, che influì sugli eventi storici successivi. "Ora siamo una potenza mondiale, e la gloria della nostra razza e nazione non ha raggiunto la fine della nostra strada, e dobbiamo andare sempre più avanti". Lo svigorito e inglorioso Impero Spagnolo, sopravvissuto per 500 anni, fu demolito nel 1898 - un'impresa conclusa in un paio di settimane - con l'appropriazione delle sue colonie, in particolare i gioielli della corona Cuba e Filippine. Questo contrassegnò un'ulteriore fase nella redistribuzione del mercato mondiale, che portò l'imminente Armageddon un passo più vicino.

Il Trattato di Versailles La Grande Guerra non fu la "guerra che porrà fine a tutte le guerre", come affermò scioccamente Woodrow Wilson. Il desiderio da parte dei nostalgici della politica del laissez-faire di un ritorno a una supposta normalità fu completamente disatteso. Dopo Versailles (1919) la mappa mondiale venne mandata al macero. Gli Asburgo, i Romanov, gli Hoenzollern e gli Ottomani vennero scaricati nella pattumiera della Storia. Ora la Germania era una nazione sconfitta, privata di Alsazia e Lorena, così come delle sue colonie. Un punto militare/industriale di strategica importanza, comunque, era che una burocrazia non riformata, una classe militare e finanziaria e una potente borghesia nazionale - l'elemento portante del dominio di classe - erano ancora intatte. Una Russia rivoluzionaria, la cui dirigenza si era opposta risolutamente alla guerra, aveva usato quella guerra come testa d'ariete per un assalto all'autocrazia zarista. Facendo così, recise i legami [dello stato russo] con l'imperialismo e lo sciovinismo nazionalistico della socialdemocrazia, e orientò i suoi sforzi verso la costruzione di un ordine socialista, con l'eliminazione delle vestigia coloniali/capitalistiche/imperialistiche. Clemenceau sintetizzò quel tragico momento della verità quando confessò cupamente: "Abbiamo vinto la guerra, ma siamo rovinati". I vecchi imperi coloniali ancora in piedi, Francia e regno unito, erano dissanguati e sull'orlo della bancarotta finanziaria. Il loro mercato dei cambi e le riserve di oro vennero utilizzati per pagare i costi della guerra. La questione delle riparazioni [di guerra] da imporre alla Germania di Weimar era uno dei punti caldi delle relazioni internazionali e del battibecco imperialista. Fu in quel contesto che John Maynard Keynes (1883-1946) acquistò rinomanza internazionale con la sua opposizione alle clausole del Trattato, redatte in "The Economic Consequences of the Peace" (1919), che analizzava le conseguenze delle riparazioni. A questo punto devo parlare di una delle più efficaci controargomentazioni al pamphlet di JMK, scritta da un accademico americano la cui brevissima recensione apparve in un oscura pubblicazione nel 1920. In appena tre pagine Thorstein Veblen (1857-1929) identificava con efficacia il punto che JMK (che partecipava alla Conferenza di Parigi come membro della delegazione britannica) aveva accuratamente evitato, [ma che era] il nucleo stesso del Trattato. Prima di continuare, però, vorrei aggiungere che Veblen fu un acuto teorico e osservatore del capitalismo americano durante l'età dorata dei Robber Baron (1890-1914). Mai, però, fu un attivo avversario del sistema. Non credette mai che fosse fattibile un progetto alternativo dei rapporti di classe e proprietà. Fu un catalizzatore che lo colpì nell'autunno della vita. In quella recensione, pubblicata nel 1920 dal Political Science Quarterly, un anno dopo la pubblicazione del pamphlet di JMK, Veblen vide con estrema chiarezza quale fosse la realtà celata dal Trattato, la realtà che Keynes aveva ignorato. Fa venire in mente la descrizione che Jacques Attali ha fatto del World Economic Forum di Davos, definendolo "le bavardage" [la ciancia]. Facendo così, Veblen portava la realtà dell'imperialismo all'epicentro delle relazioni internazionali. Il nocciolo della critica di Keynes era il negativo effetto di contrazione sulla produzione, l'occupazione e la domanda interna della Germania. Venivano ignorate le ben più ampie conseguenze geostrategiche, politiche e ideologiche che erano in gioco. Arrivati alla primavera del 1919, quando i negoziati sul Trattato avevano raggiunto il loro punto cruciale, la guerra di intervento per distruggere la Rivoluzione Russa toccava anch'essa il suo punto più alto. Veblen faceva un'acuta considerazione che mostrava la precorrenza del suo ragionamento: "Se non fosse per la loro volpina segretezza, il carattere i fini di quell'occulto conclave di imbonitori politici sarebbe già stato evidente agli occhi di tutti un anno fa. Il Trattato è quindi congegnato in modo da prescrivere che la clausola più rigida del Trattato (e della Lega) sia una disposizione non scritta [unrecorded] dei governi delle grandi potenze che si associano per la soppressione della Russia sovietica..." Fondamentale nella sua critica era il fatto che Keynes avesse impedito a se stesso di accorgersi che l'obbiettivo del Conclave era la distruzione del bolscevismo, che questo aveva plasmato la forma del Trattato. Demolendo le argomentazioni di Keynes, antisovietico e anticomunista per tutta la sua vita, Veblen non mancò di arrivare alla conclusione che la contrapposizione bolscevismo/imperialismo era diventata ormai una lotta all'ultimo sangue. Allo stesso tempo, l'ordine sociale ed economico odierno si fonda sulla proprietà assenteista". Veblen ovviamente [non] si sbagliava affermando che gli "imbonitori" avrebbero dichiarato una guerra ufficiosa contro una Russia rinascente. Per la fine del 1917, era una guerra clandestina che dispiegava eserciti imponenti. Furono le conseguenze delle crisi e convulsioni del capitalismo. Veblen di sicuro non aveva dimenticato che Rosa Luxemburg (1871-1919) e Karl Liebknecht (1871-1919), i due leggendari socialdemocratici tedeschi, erano contrari alla guerra, cosa per cui pagarono il prezzo più caro. Furono arrestati e assassinati da militaristi di destra del Reichswehr. E lo stesso accadde al leader socialdemocratico Leo Jogiches (1867-1919). L'anno 1919 è un anno cruciale nella storia della socialdemocrazia, del trattato e dell'imperialismo. La Russia Sovietica, ben presto ribattezzata Unione Sovietica, e la Germania erano adesso diventati gli attori principali nel dramma che stava andando in scena: la prima allungando sul mondo la sua portata rivoluzionaria, la seconda come eletto bastione della contro-rivoluzione. Nel 1932, rivolgendosi ai suoi pretoriani SS, Hitler tuonava che "le strade della nostra nazione sono in tumulto.

Frederic F. Clairmont Fonte: www.globalresearch.ca

16 marzo 2009

Il mercato è morto! Viva il mercato!

Più questa crisi avanza, e più m’accorgo ch’era assolutamente certo che avvenisse. Lo sapevo da tanto: anzi, era una domanda che avevo iniziato a pormi quand’ero adolescente.
Nessuno proferiva la parola “crisi” negli anni ’60: il vocabolo utilizzato era “congiuntura”. La “congiuntura”, etimologicamente, è qualcosa che “congiunge” due periodi ed è quindi un elemento di labile rottura nel continuum temporale: dunque, la “congiuntura” può essere anche un periodo favorevole, un “giro di boa”. L’uso del termine, in economia, deriva dal tedesco Konjunktur, e non è che un passaggio leggero fra due, diversi approcci del capitalismo internazionale.
E’ interessante notare che la “congiuntura” non considera essenziale l’intervento umano: è una sorta di leggera influenza, che si risolve da sola, stando a letto e bevendo spremute d’agrumi.


Il passaggio dai sistemi elettromeccanici controllati dall’uomo – nella grande industria – a quelli a controllo numerico (informatico), degli anni 70-80 del Novecento, può essere indicato come un fattore determinante della “congiuntura”, ossia il transito da un sistema meno automatizzato (maggior presenza umana) ad un altro più efficiente, per la diminuzione delle ore/lavoro necessarie per produrre un singolo bene.
Fin qui, nulla di strano: basta rileggere Marx.
Oggi, il termine è desueto: solo per una questione di stile? Parrebbe di no, ed alcune “prudenze” linguistiche sono state addirittura consigliate dal Presidente del Consiglio. Perché?


La tessera P2 n. 1816 – Silvio Berlusconi – lavora alacremente per ridurre l’Italia ad una sorta di “grande Mediaset" – questo lo sappiamo – laddove un solo Konducator indica la via da seguire. Gli altri, seguono.
Ne è un esempio la recente bagarre scoppiata in seno al Consiglio dei Ministri – Scajola ha abbandonato la seduta sbattendo la porta ed esclamando il classico “non finisce qui” (finirà lì Scajola, mi creda, e lei tornerà ad assentire, ossequiente, come sempre ha fatto, così come i suoi colleghi Bossi, Bondi, Gelmini, Carfagna…) – perché Berlusconi ha avocato a sé la gestione di tutti i fondi stanziati per fronteggiare la crisi (in gran parte “riciclati” da precedenti stanziamenti, addirittura del precedente governo, si veda la prima stesura del D.M. n. 122).
In effetti, quelli che Berlusconi indica come “abbondanti risorse” stanziate, in realtà sono soltanto indicazioni di bilancio ma, in cassa, non c’è nulla. Per questa ragione strombazzano solo grandi opere: perché, per fare quelle piccole (per le quali, sarebbe difficile accampare scuse) i soldi dovrebbero scucirli davvero.
Ovviamente, tutti hanno mostrato il borsellino drammaticamente vuoto, ma il Konducator è passato oltre, adducendo che la situazione richiede procedure eccezionali. Perché? Per superare la crisi.


Ecco, il termine che viene oggi usato per indicare le mestizie nella quali siamo imprigionati.
L’etimo della parola “crisi” – krisis (gr) – non indica, però, un elemento di per sé negativo poiché significa “scelta” o “giudizio”, ossia un’azione che prevede la partecipazione attiva del soggetto: sì, scegliere, proprio quello che ci viene impedito di fare.
E’ allucinante leggere i comunicati dell’Epsco (Consiglio per l'Occupazione, la Politica Sociale, Salute e Consumatori), dove si leggono le proposte per affrontare la crisi economica e la disoccupazione[1]:

(la crisi) “sta arrecando grossi danni ed esige interventi urgenti,,,(per prevenire e combattere la disoccupazione) senza intaccare le riforme del mercato del lavoro…evitare le misure che favoriscono il ritiro prematuro dalla vita lavorativa, quali programmi di prepensionamento o limiti d'età per le opportunità di formazione, in modo tale da mantenere e aumentare la partecipazione al mercato del lavoro…affrontare l'adeguatezza e la sostenibilità a lungo termine dei sistemi pensionistici con riforme adeguate…



Siamo nelle mani di una masnada di folli e nessuno, ovviamente, ha intenzione di cambiare strada: le cose vanno bene così e, se dovessero peggiorare, accelereremo ancor più nel percorso che ci ha condotti a questo sfacelo. Speriamo che il muro, in fondo alla via, non sia di cemento armato.
Ovviamente – se qualcuno potesse scegliere – le scelte dovrebbero essere agghindate d’aggettivi, anzi, è quasi essenziale indicare, tramite la coloritura di un aggettivo, ciò che c’attende. Avremo così scelte difficili, gioiose, liberatorie, drammatiche, ininfluenti, coraggiose…


L’unico aggettivo proibito dal Konducator è stato proprio quel “drammatico”, subito cassato a Tremonti, perché – checché se ne dica – la tessera P2 n. 1816 è il più formidabile comunicatore della Penisola. I suoi fini sono marci fino al midollo, ridurrà l’Italia ad una pletora di zombie – perché è bravo a comunicare e ad organizzare, ma manca della cultura di base necessaria per svolgere una vera funzione politica e di governo – ma, sull’esternazione, nessuno lo batte. Potrete scrivere e blaterare ciò che vorrete: lui, farà la solita battuta cretina, s’arrufferà in ragionamenti semplici, da mercato rionale, e quel 60% d’italiani che non legge mai un libro abboccherà contento. Non c’è niente da fare.
Si può batterlo usando le sue stesse armi, soprattutto l’informazione e la satira: questa asserzione, è rivolta a coloro i quali credono che basti una solida “linea Maginot” per la difesa della Costituzione (per la tutela della quale, sia ben inteso, il sottoscritto ha firmato). Lui, della Costituzione, se ne frega: pubblicherà (a nostre spese) qualche libercolo nel quale comparirà con la solita calza di nylon per mascherare le rughe e magari racconterà una barzelletta.
Perché la parola “crisi” deve essere bandita? Poiché esiste sempre quel 20% di persone che leggono e s’informano, le quali oggi non hanno peso ma domani, qualora i morsi della rovina economica dovessero dissanguarci, potrebbero ricordare che c’era “crisi”, e dunque scelta. Quali scelte?


Spicchiamo, prima, un salto indietro nel tempo, quando c’era soltanto “congiuntura”.
Una delle immagini che iniziò a sconcertare, nella placida prima “congiuntura” degli anni ’60, fu quella dei trattori che distruggevano tonnellate d’arance nel Meridione. Per comprendere quanto quelle immagini fossero dirompenti, dobbiamo riflettere che non erano ancora trascorsi vent’anni dalla Seconda Guerra Mondiale, quando un chilo di pasta era ciò che s’aveva per campare una settimana. Distruggere il cibo?!? Una bestemmia, e così era colta dalla maggior parte degli italiani i quali, già allora, non s’accorsero che quelle erano già “scelte”, solo che qualcuno le compiva al posto nostro. Conosciamo la ragione di quelle distruzioni: sovrapproduzione, concorrenza internazionale, ecc…ma il messaggio che – già allora! – passò era che si doveva, in primis, salvaguardare il mercato degli agrumi. Siccome il “mercato” non poteva che salvaguardarsi da solo, s’applicava la legge della domanda e dell’offerta, e via col tango.


Senza scomodare la scomodissima ragione illuminista, basta il buon senso per capire che non è logico né razionale impiegare ore/lavoro, concimi, energia, ecc, per poi schiacciare il prodotto sotto le ruote dei trattori: c’era, evidente, un vulnus perché, da quando mondo è mondo, le derrate alimentari servono per sfamarsi.
Dopo qualche anno di trasmissioni della solita scena – i trattori che schiacciano, ecc – la notizia non fu più notizia, e s’addormentò nel retrobottega dei palinsesti televisivi. Così, il primo imprinting era stato dato.


Ma gli anni ’60 – da qualcuno definiti “favolosi”, non saprei perché – volgono al termine e, nel 1969, una scolaresca attende, nelle assolate giornate di Maggio, che s’arrivi finalmente a Luglio per correre alla lotteria della nuova maturità – “provvisoria”, beninteso – declamata come la rivoluzione della scuola italiana, quella del ministro Sullo. Tanto “provvisoria” che durò fino al 1999.
La tensione per la nuova maturità scivola, sotterranea, fra i banchi e fa caldo: la finestra è aperta, giungono effluvi di fiori e la voglia è poca. Anche il professore – un meridionale colto, fisico un po’ flaccido, aria perennemente stanca – non ha gran voglia, e allora si parla. “Si fa” a domande e risposte: talvolta si tenta ancora oggi di farlo, solo che si corre il rischio che ti domandino se hai guardato l’Isola dei Penosi.


Un allievo medita, ricorda precedenti discussioni – formali ed informali – e domanda «Professore, lei sostiene che è inevitabile una contrazione della manodopera nell’industria poiché il fordismo e la produzione su vasta scala s’affermano ovunque. Il fenomeno produce inesorabilmente disoccupazione: chi non avrà lavoro, che farà?»
Il professore quasi ringrazia per la domanda, che consente a quella piccola comunità di scapolare una mezzora noiosa, ma si rende conto che la risposta non può essere che sintetica: «Vede (allora, ci si dava del “Lei”), solo lo Stato può compensare la diminuzione dell’occupazione: le persone che non troveranno occupazione nell’industria saranno assorbite dai servizi. Il mondo dei servizi al cittadino è in espansione: quella è l’unica strada percorribile.»
Certo – pensa il ragazzo – meno occupati a costruire automobili e più infermieri negli ospedali…ma…chi paga?
Intanto, altri stanno argomentando e deve attendere il suo turno.
Finalmente, può porre la domanda: «Professore, se lei afferma che i disoccupati saranno assorbiti nei ruoli pubblici, il gravame economico per lo Stato aumenterà, dovranno aumentare le tasse…insomma, chi pagherà?»
Il professore non aveva una risposta, però lui era il professore e gli altri semplici allievi: «Come le ho già detto, lo Stato sarà la cassa di compensazione, ci sarà un’inevitabile aumento dei dipendenti statali.»
Già, lui può ripetere due volte la risposta senza rispondere: se lo fai tu, mica la passi liscia. Di più: è pure fortunato, perché suona la campanella.

In ogni modo, il professore ebbe ragione: l’anno seguente (1970) fu varato l’ordinamento regionale ed iniziò “l’otto volante” della spesa pubblica. Nuove competenze furono inventate per nutrire l’espansione incontrollata del ceto politico da piazzare nelle Regioni, le Province furono compensate – già allora, per salvarle! – con la ripartizione del personale scolastico, mentre i Comuni ebbero le Circoscrizioni. Gli italiani, impararono che non si può essere presi a calcinculo solo dallo Stato, ma anche dalle amministrazioni periferiche.



Eppure, riflettere su questi brevi aneddoti, può aprire molte “porte” sull’infinito dissertare del malaugurio economico che stiamo vivendo. Oops! Scusate: se Saddamoni mi sente, mi dà del disfattista.
Non vale sperticarsi in tremebondi aruspici: chi lo fa, compie un’azione semplice, ossia “lo scrivo, poi i casi saranno due. O l’evento non si compirà – e sarò presto dimenticato – oppure si manifesterà, e allora potrò scrivere il classico articolo sul “io ve lo avevo detto”. Non è questo il modo di fare informazione.
Sulle radici internazionali e geopolitiche di questa crisi non intendo ripetermi; chi vorrà prenderne visione, potrà leggere il mio “Ma cos’è questa crisi?”: oggi, vogliamo addentrarci fra le possibili soluzioni.


La prima considerazione da fare è che la logica del mercato che si auto-regolamenta è fallita: a dire il vero, non è mai esistito un mercato completamente libero dall’intervento umano, ma alcune situazioni (gli USA prima della Grande Depressione, ad esempio) s’avvicinarono molto.
Allo stesso modo, non è mai esistita un’economia completamente diretta dallo Stato: anche nell’URSS, il 3% delle terre coltivabili era a conduzione privata.
In mezzo a queste due, estreme impostazioni, c’è la cosiddetta economia “mista”, la quale si nutre d’entrambi i principi, cercando – in questa difficile mediazione – di trovare l’equilibrio più soddisfacente. Ma non finisce qui.


Un altro fattore da considerare è l’aggregazione sul territorio dei soggetti economici – chi produce beni e servizi – che l’affermazione degli stati nazionali riunì in universali piuttosto ampi, mentre – precedentemente – i “localismi” avevano maggior peso. Si pensi, ad esempio, alla Germania prima dello Zollverein.
Quindi, la produzione e la ripartizione delle risorse devono tener conto d’entrambi i fattori: geografici e politici, per riassumere in breve i due aspetti.
Oggi, il “succo” della crisi – che non riteniamo sarà la fine del capitalismo, così come lo osserviamo – è che uno spostamento verso il liberismo economico ha prodotto guai a non finire. Non ci riferiamo soltanto agli ultimi atti – la truffa di creare valore fasullo dal nulla, per compensare una ricchezza che è migrata verso altri lidi – poiché quel processo è iniziato già con la deregulation di Reagan, con la politica antipopolare della Thatcher, con la dismissione a prezzi stracciati delle Partecipazioni Statali. Insomma: il mondo ha preso l’abbrivio verso forme di Far West, liberandosi delle “pastoie” che una schiera d’economisti keynesiani pretendevano d’imporre. Dimenticando che Keynes fu solo una delle “cure” per la Grande Depressione: l’altra, fu la Seconda Guerra Mondiale.


Cercare aiuto dalle parti di John Maynard Keynes, oggi, sarebbe come chiedere a Pietro Badoglio un parere per uscire dall’impasse in Afghanistan: è l’angolo degli sprovveduti, poiché il pianeta ha mutato pelle.
Gli stati che applicarono le dottrine keynesiane erano nazioni poco o per nulla indebitate, che possedevano la gran parte dei mezzi di produzione del pianeta e che avevano, proprio nel resto del pianeta, le fonti d’approvvigionamento di materie prime a basso costo, poiché la manodopera era coloniale.


Si può ragionevolmente ipotizzare d’applicare “ricette” usate all’epoca nel nostro tempo? Modificarle? Modernizzarle? Probabile, ma bisogna allora affrontare quella scelta – krisis – che si tende a negare con mezzi e mezzucci mediatici.
In definitiva, dovremmo stabilire quale sistema economico applicare, cercando di non incorrere in plateali errori del passato e neppure esternare affermazioni sì accattivanti ed apparentemente risolutive, che però nessuno sa quali frutti potranno produrre.
Il primo approccio è sempre l’analisi: ciò che è stato applicato nelle epoche storiche a noi vicine (andare lontano complicherebbe la faccenda, dovremmo introdurre sempre più fattori di “correzione”) ed osservare quali effetti produsse.


Per quanto riguarda la dimensione delle entità economiche, oggi si tende a ritenere che economie su piccola scala siano più a misura d’uomo e che il pianeta possa, con questo approccio, meglio sopportarci.
Si tratta di un’avvincente ipotesi, ma mancano gli elementi per affermare che un mondo di comunità sarebbe migliore di quello attuale. Anzitutto, quali attributi assegnare a queste comunità? L’autosufficienza produttiva totale? Lo scambio? Perché – se si ammette lo scambio, ossia se non si ritiene percorribile la via dell’autosufficienza – si torna a dissertare di valore, e dunque di monete o quant’altro per assegnare un valore alle merci.
L’autosufficienza non può essere raggiunta da piccole comunità – la “base” è troppo ristretta per reggere nel tempo – e quindi, allargando i confini della comunità, nasce inevitabilmente la necessità di stabilire ruoli in qualche modo “istituiti”, e dunque – anche se ad un livello forse praticabile – “istituzionali”.


Chi scrive ha alle spalle un’esperienza di vita comunitaria – che è stata addirittura, recentemente, oggetto di studio per una tesi di laurea – e può assicurare che le dinamiche sociali, anche in gruppi ristretti, ricalcano in pieno atteggiamenti e pratiche delle comunità più complesse.
In genere, le comunità degli anni ’70 partirono con un naturale spontaneismo mutuato dal comunismo utopistico, e finirono in liti per dividersi le seggiole. Perché? Poiché le dinamiche socioeconomiche esterne alla comunità rimanevano le stesse: si aveva un bel dire che s’era tutti uguali, ma chi aveva uno stipendio, od era benestante, era un tantino più uguale degli altri.
In ogni modo, una sola esperienza non può essere considerata esaustiva dell’argomento: al più, rende più coscienti dei pericoli insiti nel lasciar correre l’ottimismo.
Esistono esperienze da osservare, per trarne insegnamenti?


L’India dei “mille villaggi” di Gandhi rimase nella mente del grande pensatore indiano, ed oggi osserviamo cos’è diventata l’India. Le comunità ebraiche dei kibbutzim, all’inizio, furono veramente avveniristiche: l’educazione collettiva dei giovani, e la ripartizione del lavoro di stampo socialista, erano un bagaglio più europeo che insito nella cultura ebraica.
Quell’approccio, portato soprattutto dagli askenazi dell’est, era la grande cultura socialista e libertaria che aleggiava nella prima metà del Novecento in Europa: là trovò una primitiva applicazione, ma c’era un peccato originale.
Cercare le vette della socialità su una terra che è stata rubata, lentamente trasformò quelle comunità in fortini, al punto che oggi Tzahal li considera, praticamente, degli avamposti. Non crediamo ad una pratica d’evoluzione sociale, quando il tuo compagno di strada è un Galil a tracolla.
L’unica comunità che sfida i secoli è senza dubbio quella degli Amish, ma qui siamo in presenza di valori religiosi molto restrittivi, che implicano la rinuncia alla modernità: siamo certi che saremmo in grado di rifiutare la tecnologia degli ultimi due secoli? La vedo dura, soprattutto perché ho provato personalmente a falciare l’erba con la falce: dopo mezza giornata, chiesi ad un amico di prestarmi il trattore.
Nelle società che ancora adottano l’organizzazione tribale troviamo equilibri che sembrerebbero reggere, ma ci sono due fattori da considerare: per prima cosa, queste comunità sono in estinzione – forse non demografica, ma certamente culturale – e poi, noi non siamo stati allevati in una cultura tribale!


Il ritorno alla piccola comunità potrebbe derivare da uno sconquasso – economico, bellico, ambientale, ecc – ma, in questo caso, non abbiamo gli elementi per decifrare il quadro: si sconfina nella profezia. Quanti esseri umani sopravvivrebbero? In quali condizioni? Dove? Con quali e quanti strumenti tecnologici? Le domande sono veramente troppe.
Possiamo ricordare che il ritrarsi in comunità avvenne nei secoli che seguirono il crollo di Roma, ma quelle furono necessità contingenti, mica scelte. Oltretutto, il Medio Evo – apice delle piccole comunità – non fu certo il migliore dei mondi possibili, basta leggere le cronache del tempo.
Oggi, siamo una società segnata dalla tecnologia (a differenza di quel lontano mondo), ma la tecnologia richiede che esistano centri che la producano, sistemi di scambio, controvalore da fornire, ecc: siamo in grado di reggere (e desideriamo) un arretramento tecnologico? Chi s’affida frettolosamente a qualche frase letta qui e là, ma anche a seri autori che teorizzano un ritorno al “piccolo”, riesce a comprendere cosa sarebbe un mondo privo di quelle certezze alle quali siamo abituati? Si fa presto a “quotare”.
Chi si metterebbe, in un mondo di piccole comunità slegate, a raffinare il Silicio per i circuiti? Oppure, all’opposto, chi ancora sa bardare un cavallo?


Ciò nonostante – e questa è la colonna sonora del nostro vagare ondivago fra tesi opposte – si sente un gran bisogno di rinsaldare legami comunitari, di tornare ad avvertire nel vicino di casa un amico, non una targhetta sulla porta. Il mondo del dopoguerra era così: almeno fra i ceti popolari, i bambini passavano forse più tempo in casa d’altri che nella propria. Giocavano insieme ed i nonni raccontavano storie fantastiche ad uditori eterogenei: nei cortili giungevano musicisti popolari che si guadagnavano da vivere così, con le poche lire gettate dai balconi al termine dell’esibizione.
Avremmo un gran bisogno di un mondo che ricalcasse quei valori, ma decenni di pessime abitudini (in gran parte imposte) ci hanno snaturati: tutte le rilevazioni – Istat, Eurispes, ecc – raccontano un’Italia composta da “poltiglia sociale”.
Forse, la strada di ricostruire l’empatia perduta trova troppi ostacoli nell’esigenza – divenuta un’iperbole con la globalizzazione – d’essere placidi ed acquiescenti individui, “coerenti” con le necessità del “mercato” (che sta fallendo).
Proviamo, allora, a sondare dalle parti dei sistemi economici, ossia quello che l’esperienza ci può insegnare.


I regimi autoritari della prima metà del Novecento non ci potranno fornire molti spunti per la nostra analisi: il Nazionalsocialismo tedesco durò, guerra a parte, soltanto 6 anni, e un’economia di guerra non può essere presa come valido cespite per l’analisi.
Il Fascismo italiano durò più tempo, ma partì come forza rivoluzionaria e terminò come zerbino, dapprima della classe imprenditoriale poi – nelle ultime fasi della guerra – dell’alleato germanico. Chi ha ancora dei dubbi su questa genesi, rammenti che la “Marcia su Roma” sarebbe stata facilmente impedita da una compagnia di Carabinieri, se il Re non avesse consentito loro di giungere a Roma: in fin dei conti – pensò il Savoia – meglio questo Mussolini che i bolscevichi. Un incarico “pro tempore”, fino al Luglio del 1943.
Più durevole l’esempio iberico, poiché la penisola rimase per molto tempo “addormentata” da regimi i quali, più che “fascismi”, furono “clericalismi” autoritari. In effetti, le innovazioni iberiche furono assai poche, e la penisola giunse agli anni ’70 del Novecento con un’economia prevalentemente agricola, arretrata rispetto al resto d’Europa. In aggiunta, per il Portogallo, ci fu l’annosa questione coloniale: la prima e l’ultima nazione direttamente coloniale della storia.
In sostanza, nessuno di quei regimi tentò una via d’uscita dal capitalismo, o il superamento dello stesso con nuove forme d’aggregazione sociale, che non fossero imposte con l’autoritarismo dell’epoca. Soprattutto il Fascismo ed il Nazionalsocialismo crearono valide, per l’epoca, forme di sostegno sociale (l’ OMNI, Opera Nazionale Maternità ed Infanzia, ad esempio), oppure – questo solo in Germania – restituirono allo Stato la sovranità monetaria.
In definitiva, i regimi autoritari dell’epoca si connaturarono con un principio di preminenza dello Stato sul cittadino: di per sé accettabile formalmente, un po’ meno per come venne applicato. Alla fine, i cittadini divennero semplicemente “milioni di baionette”. Morte sotto la neve.


Sull’altra sponda troviamo il mondo del socialismo reale: termine coniato per mascherare con eleganza il fallimento della prospettiva socialista, così com’era stata pensata da Lenin.
Ma, per contrappeso, la società sovietica che riaprì le porte al mondo non era più la sterminata landa desolata, l’infinita steppa russa del 1917. Era una nazione che possedeva una tecnologia con i fiocchi: aveva, però, i piedi d’argilla prodotti da un conflitto economico mai risolto, quello fra l’ideologia e la realtà. Per questa ragione fu “socialismo reale”, quasi un ossimoro.
A nostro avviso, l’esperienza sovietica è stata troppo frettolosamente scapolata: vuoi per un malcelato senso d’orgoglio da parte di chi aveva “vinto”, vuoi per il traboccante senso di colpa di chi aveva “perso”. In realtà, non c’era nulla da “vincere” o da “perdere”: c’era da capire. Forse, oggi possiamo farlo senza acrimonie.
Il gran fallimento della società sovietica, più che le difficoltà produttive (che, comunque, ci furono), fu il dramma della distribuzione. Ci sono molte cronache al riguardo, e non le riporto solo per questioni di spazio.


La vita del cittadino sovietico trascorreva nell’ossessione delle “liste”: per ogni bene s’entrava in lista. Anche per sostituire un pezzo del frigorifero c’era la corrispondente lista: il funzionamento del frigorifero dipendeva dalla produzione di una lontana fabbrica dell’est, sempre che non intervenissero altri fattori (spostamento di manodopera per altri scopi, mancanza di materie prime, ecc) a complicare il quadro.
Se moltiplicheremo questo andazzo per ogni oggetto, capiremo facilmente poiché l’URSS – a differenza della Russia odierna, terra di grande corruzione – fosse una sterminata plaga di piccola corruzione, che dilagava dal piccolo villaggio al funzionario di partito, a tutti i livelli. Ogni mezzo, per procurarsi quel dannato pezzo del frigorifero, era usato.
Il crollo dell’URSS avvenne prima della recente rivoluzione digitale, del Web ovunque, e sarebbe interessante vagliare quale potrebbe essere l’impatto del mezzo informatico in una società che producesse sufficienti beni – anche se suddivisa in molte comunità economiche – per la loro distribuzione. E’ un aspetto da non sottovalutare, poiché i costi di trasporto sono spesso il tallone d’Achille della filiera distributiva.
Ciò che l’URSS non riuscì mai a risolvere furono i rapporti economici interni: oscillò sempre fra stagioni di piccole liberalizzazioni, che incrementavano la produttività, ad altre di restrizioni di stampo ideologico, che ottenevano l’effetto opposto. Qui, c’è poco da imparare: se l’espansione continua del mercato non funziona più, possiamo credere ad uno Stato che s’assume la responsabilità di produrre e distribuire beni?

Diversa è stata la risposta della Cina: Pechino sta usando il capitalismo quasi “dosando” gli interventi in economia, nella ricerca di una difficile alchimia. Anche se, a prima vista, i cinesi hanno semplicemente sposato il capitalismo di mercato, non dimentichiamo che intendono mantenere il controllo dell’economia in mani pubbliche:


“…anche se la proprietà dello Stato rimarrà il principio fondamentale di base dell’economia nazionale, tutte le forme di proprietà – di Stato, collettiva e privata – dovranno essere messe in gioco nello sviluppo dell’economia…è necessario attenersi al principio dello sviluppo congiunto di settori economici multipli tra i quali la proprietà pubblica svolga un ruolo dominante; è necessario trasformare ulteriormente i meccanismi di gestione delle imprese di proprietà dello Stato e istituire un sistema imprenditoriale moderno che soddisfi i requisiti richiesti dall’economia di mercato”[2].



Certamente, quel “soddisfare i requisiti richiesti dall’economia di mercato” stride alquanto con la prima parte del testo, e facciamo tanti auguri ai cinesi di riuscire in un’impresa che sembra più un volo pindarico.
Abbiamo concluso: non c’è altro. Le sperimentazioni economiche del Novecento terminano qui, ed è tutto ciò che abbiamo per capire dove potremmo andare a parare.
L’aspetto veramente terrificante del “mercatismo” – da Reagan in poi – è stato quello, dapprima, di liquidare come insulsaggini tutti gli altri tentativi, per poi finire in un cul de sac senza soluzioni.
Certamente, oggi non abbiamo la possibilità – per via democratica – di mettere in discussione delle ipotesi di cambiamento radicale: possiamo solo subire ed addormentarci mentre guardiamo Ballarò.


Detto questo, rimane una via che potremmo definire “socialdemocratica” (in senso storico), ossia la faticosa via dell’aggregazione sociale su obiettivi, anche minimi, ma condivisi.
Scendere in trincea per difendere questo o quell’orpello del passato sarebbe tempo sprecato: che ci frega di salvaguardare labari littori o passi dell’oca sulla Piazza Rossa? Ai disoccupati non servono: serve, invece, iniziare a riflettere sulle possibili vie d’uscita dall’imperante (e fallimentare) “mercato”. Con quello che abbiamo, con l’esperienza che siamo riusciti a trarre, magari con qualche guizzo d’ingegno: sarà dura, ma non abbiamo altra via che la riflessione su cosa siamo stati, su cosa non siamo riusciti ad essere, su cosa potremmo diventare.
Qualche intervento – coerente con l’attuale Costituzione – è possibile: se qualcuno ascoltasse. Anzitutto, non è vero che lo stato nazionale ha completamente abdicato a legiferare, che lo spauracchio dell’Unione Europea è sulla porta, attento ad ogni minima mossa. Tanto per capirci, in Francia le donne vanno in pensione a 60 anni, ma nessuno solleva la questione di portare l’età a 65. Sarà perché che le burocrazie europee sanno che con l’Italia “sempre si vince”?
Con l’avanzare della crisi, ben presto gli stati dovranno compiere delle scelte, ma Bruxelles è lontana e le popolazioni vicine. Sta a noi farci sentire: proviamo ad indicare qualche idea come esempio, tanto per far comprendere dove vorremmo andare a parare, sperando che queste indicazioni ne catalizzino altre.


Se consideriamo un incentivo alla decrescita la produzione di beni più durevoli, lo Stato ha a disposizione il Codice Civile, anzi: c’è addirittura uno specifico Testo Unico al riguardo. Oggi, la garanzia dei beni che utilizzano energia elettrica (quasi tutti, perché anche l’auto ha l’impianto elettrico) è limitata a 2 anni. Domanda: perché, un bene che durerà circa 10 anni (automobile), deve essere coperto da garanzia per soli due? E se si rompe dopo due anni ed un giorno? Non si può certo estendere la garanzia a vita, ma raddoppiarla de iure sarebbe già un bell’incentivo per costruire qualcosa che non si rompa appena scade la garanzia. Il trucco l’abbiamo compreso da tempo.
Gli inglesi, tempo fa, scoprirono con orrore che tenevano in funzione una centrale elettrica soltanto per mantenere in tensione milioni d’alimentatori inutilizzati: ogni aggeggio elettronico ne ha uno. Telefonini, televisori, computer, ecc: perché non imporre, per il mercato italiano, l’obbligo di un interruttore con led che segnali se l’apparecchio è in tensione? Poi, saranno cavoli di ciascuno di noi se vuole pagare di più per niente.

La benzina sale, la benzina scende, ma sale in fretta e scende piano. Sappiamo a cosa serve il trucco: a far credere che esista una Robin Tax. Perché non si torna al prezzo controllato, oppure si stabilisce – giornalmente! – la variazione, ad effetto immediato? Le reti telematiche, a cosa servono? La sera, insieme alle previsioni del tempo, dovrebbe essere pubblicato il prezzo massimo per il giorno seguente. Scaroni: cuntent?



Nel mio precedente articolo – “Venti nucleari” – ho indicato una strada per creare ricchezza e lavoro dalle rinnovabili e destinarla ad usi sociali: perché, oramai quasi solo in Italia, non si fa un solo passo in quella direzione? Ah, già: faremo le centrali nucleari…
Le burocrazie europee si scervellano per mantenere la gente al lavoro nelle aziende: ma, signori miei, anche chi non ha un master ad Harvard sa che, se non si vende ciò che si produce, è inutile costruirlo. Avranno visto quei Tg degli anni ’60, quelli delle arance?
Abbiamo invece bisogno di un sacco di lavoro in altri posti: le intemperie di questo rigido inverno hanno ridotto le strade a dei tratturi. Tinteggiare le aule di una scuola è un’impresa da incubo: si sprecano più soldi in telefonate, riunioni e quant’altro che a “dare il bianco”.
Il patrimonio artistico è sempre più abbandonato, al punto che solo pochi giorni fa, in Piazza della Signoria, qualcuno ha staccato un dito al “Ratto di Polissena” di Pio Fedi. Un po’ di sorveglianza e di manutenzione, è chiedere troppo?

Se non vogliamo chiamarli lavori “socialmente utili” inventiamoci un sinonimo, ma diamo uno stipendio almeno decente a chi perde il lavoro, se in cambio si occupa delle mille incombenze puntualmente dimenticate. Non lanciarsi verso impossibili iperboli, oppure raccontare che la crisi è causata dalla cattiva informazione; ma come si fa a dire (Berluskaiser): “non leggete più i giornali”?



Ramsetoni – è solo un avatar di Saddamoni, Napoloni, Cesaroni, ecc – vorrebbe inviarli tutti, novelli schiavi della Nubia, a rialzare l’ottava meraviglia del Pianeta, a Messina. Da Napoli, bisognerebbe urlargli, in coro: ma facitece ‘o piacere!
Perché? Non ci sono i soldi per fare quell’inutile orpello! Testa dura, eh?


Dove si possono trovare soldi?
Ricordiamo che fu proprio Tremontoni, nel 2003, a cambiare le aliquote IRPEF: ridusse le tasse ai ricchi!
Il risultato?


In Italia, la distribuzione delle ricchezza è fra le più inique: il 10% della popolazione possiede il 45% della ricchezza nazionale. In pratica, una persona su dieci si prende quasi la metà, mentre le altre nove si dividono il resto. Questo ci ha fatto precipitare al livello di USA e Polonia, e solo il povero Messico ha una ripartizione della ricchezza più iniqua della nostra. Nessun altro, in Europa, vive una così drammatica differenza di reddito fra le classi sociali.
Perché non iniziare ad aumentare le tasse, progressivamente, a chi guadagna più di 100.000 euro l’anno? Se chi guadagna 100.000 euro ne dovesse pagare 1000 in più, si ridurrebbe in miseria? Ecco dove trovare i fondi per finanziare i disoccupati, non prelevandoli dall’INPS (che ha un attivo di 11 miliardi!) per poi, alla fine della questione, aumentare di nuovo l’età della pensione per far cassa!


Purtroppo per noi la classe politica – intera – fa parte di quel 10% dorato, e non si farà, da sola, un simile autogol: sempre che non s’inizi, in tanti e continuamente, a ricordarlo. Tutti i giorni: scrivendo sui blog, facendo girare messaggi via mail, su Facebook, ecc.
Certo, dissertare sui massimi sistemi può essere utile, ma ricordiamo le parole di un grande presidente, Sandro Pertini: «La democrazia inizia con la pancia piena».


di Carlo Bertani