17 marzo 2009
E' possibile lo scoppio di una grande guerra? La Storia insegna
In queste esposizioni mi arrischierò a rispondere ad alcuni dei punti interrogativi sollevati dalla prospettiva di una guerra di grande portata. Le note a questi studi sono state scritte fuori orario, in un angolo del mio soggiorno. Si tratta dunque di sapere in che modo il capitalismo americano, nella sua condizione attuale di indebitamento, pauperizzazione di massa e disintegrazione finanziaria, riuscirà a competere a livello internazionale. Basti sapere che è una questione di vita o di morte, che ci conduce nei più profondi recessi delle contraddizioni conflittive interne al capitalismo e all'imperialismo [1], e ci darà un'idea più delineata di cosa intendiamo dicendo che la Cina è diventata il fulcro industriale del globo, nonché un'idea di quello che intendiamo quando parliamo di squilibrio finanziario.
Le Ramificazioni Qualcuno fra voi ha evocato la possibilità che un conflitto mondiale si verifichi nel corso del 2009... Nello scatenamento di una guerra, il ruolo della follia non si può mai escludere. Conduce una guerra a Gaza, tramite i suoi delegati; conduce una guerra in Iraq; e naturalmente sta moltiplicando il suo impegno militare in Afghanistan; ha esteso il campo di battaglia fino al Pakistan. Come dobbiamo affrontare la questione? Qual è il metodo più adatto? Sono cosciente del fato che scendere nel dettaglio delle potenziali aree critiche ci fornisce singoli punti che però non hanno linee che li uniscano. La selezione e interpretazione degli eventi sono perciò condizionate dalle inclinazioni ideologiche e filosofiche dello storico. Come notava Lloyd George, il più scaltro tra i costruttori dell'impero e uno dei principali sicari della Grande Guerra: "Se il 1914 non fosse arrivato quando è arrivato, sarebbe inevitabilmente giunto più tardi". Le guerre del capitalismo erano il sigillo della sua politica di espansione [3]. La USCO sta già spendendo più del doppio o del triplo di quello che il resto del mondo spende in armamenti. La USCO e i suoi lacchè militari sono in guerra permanente fin dal 1945. Questo include il suo ruolo nella guerra civile cinese che si concluse nel 1949, in Indocina a partire dal 1945, in Corea, due volte di seguito in Iraq, eccetera. Le sue guerre coloniali, combattute esclusivamente contro popoli di colore, hanno condotto l'economia degli Stati Uniti alla bancarotta. Secondo l'ultimo conteggio, ci sono 250 basi militari al di fuori del territorio degli USA. Sono il più grande mendicante del mondo. È stato sicuramente il caso del Terzo Reich di Hitler, nel quale le spese militari produssero un'espansione che riassorbì le masse di disoccupati. È stato il caso del regno Unito, dal 1937 in poi. Il risultato fu ottenuto da massicce spese militari nel settore pubblico, finanziate dal debito. Lasciatemi ribadire che ciò che pose fine al diabolico rovescio innescato nel '29, fu lo scatenamento della II Guerra Mondiale. Si può quindi suggerire che la guerra, insieme con la sua preparazione, offra la "soluzione finale" per raggiungere la piena occupazione? Nel caso del capitalismo statunitense la risposta inequivocabile è no. I debiti del capitalismo americano - del governo, delle imprese, delle famiglie - non verranno mai ripagati. Si potrebbe sostenere che saranno le entrate dei produttori di armamenti ad aumentare. Data l'alta capitalizzazione della moderna produzione bellica, l'immissione di forza lavoro si riduce drasticamente. Torniamo alle cifre citate da Stigliz. Solo in Iraq, la spesa è di 3,5 bilioni di dollari. La USCO vive di tempo e denaro presi in prestito da altri, un'abbuffata parassitaria pagata dal 70% del risparmio mondiale, una situazione palesemente insostenibile, anche a breve termine.
Israele e il Medio Oriente Sospetto che sia corretto supporre che Gaza sia un'area troppo ridotta per essere considerata un probabile catalizzatore di un grande conflitto mondiale. Eccoci dunque arrivati al ruolo nella storia, non di forze astratte, ma degli individui. Il sig. Obama è un politico fragile, e le incontrollabili convulsioni del capitalismo, in patria e all'estero, lo getteranno in mezzo a un mare in tempesta. Sappiamo bene chi sia il duo Netanyahu/Lieberman. La posizione incontrastata del duo all'interno delle lobby sioniste, come all'interno delle alte sfere della USCO, è molto importante. Per cui non possiamo ignorare la possibilità che nella loro disperazione possano scatenare una guerra di più vaste proporzioni. E il corso degli eventi non resterebbe confinato alla regione. L'obbiettivo dell'imperialismo statunitense, congiunto con quello israeliano, è la distruzione dell'Iran, alleato sia di Hamas sia di Hezbollah. Il lancio di satelliti [da parte dell'Iran] introduce nei nostri calcoli nuove e inquietanti variabili. Se ne parlò sul New York Times. Si tratta delle relazioni tra USA e Cina, che hanno raggiunto nuovi picchi di tensione commerciale, a dispetto delle tiritere che affermano il contrario.
La Cina e gli Stati Uniti Prima di proseguire nell'esame della possibilità che le tensioni in aumento, commerciali e finanziarie, possano condurre a un letale confronto bellico, dobbiamo comunque rievocare la natura delle rivalità commerciali e le armi dispiegate nelle guerre economiche degli anni 30. Il discorso del Presidente cinese a Davos, molto sferzante nei confronti degli USA (come quello di Putin), è indicativo della direzione presa dalla guerra economica. Davos è il perno della globalizzazione. È la cabina di comando del potere corporativo, dei leader e aspiranti leader mondiali. Davos ha evidenziato la miserevole fragilità delle istituzioni finanziarie, un tempo viste come la colonna portante del sistema. La rilevanza che hanno oggi queste parole è ovvia: "Stiamo vivendo una guerra... Mentre i passi dell'attuale crisi suonano sempre più pesanti, il capitalismo non ha più la forza di scalare le pareti del pozzo della defstag. La guerra globale per il controllo dei mercati e del mercato azionario continua a ritmo serrato. Questo si rispecchia nelle relative prestazioni economica di USA e Cina, che è diventata il fulcro della produzione manifatturiera mondiale. Di contro, la USCO è in preda all'agonia della disaccumulazione del capitale e al declino dell'industria di base. Così come nel Regno Unito, la sua base industriale, una volta tanto potente, è stata eviscerata. Diamo uno sguardo alle cifre, per osservarne le divergenze e scoprire quali di esse indicano le tensioni che potrebbero condurre a una guerra. Col disfacimento dell'indebitato capitalismo nipponico, a un passo dalla crescita zero, [la Cina] si predispone a mandare il Giappone nel sottoscala della storia. Prendiamo in considerazione per primi i maggiori indicatori (2008) degli USA, e confrontiamoli con quelli cinesi: USA: PIL (+0,9% [rispetto all'anno prima]); Bilancia Commerciale (- $ 833 miliardi); Saldo delle Partite Correnti (- $ 697 miliardi); Produzione Industriale (-7,8%) CINA: PIL (+9,1%); BC (+$295 miliardi); SPC (+$371 miliardi); PI (+5,7%) Le cifre evidenziano la sempre maggiore disparità economica tra i due paesi. Le importazioni degli USA crescono più delle esportazioni. Il capitalismo statunitense sta cadendo in una spirale deflazionaria che ricorda il cosiddetto "decennio perduto" giapponese degli anni 80 [10]. Prestito significa debito. La Cina ricicla il suo surplus commerciale acquistando titoli e buoni del tesoro statunitensi. Stabilire se l'élite politica cinese continuerà a riciclare i guadagni del commercio estero per puntellare i deficit USA resta problematico. Il capitalismo americano è ormai da due decenni il maggior debitore del mondo. Le dimensioni delle cifre è rilevante. Le riserve di valuta e titoli esteri della Cina, che ammontano a 2000 miliardi di dollari, sono le più grandi del mondo. Di questa cifra, 1700 miliardi vengono investiti in beni pagati in dollari, il che rende la Cina il maggior creditore del capitalismo americano, e il secondo maggior compratore di buoni del tesoro statunitensi. [Il capitalismo americano] è dipendente totalmente dal denaro cinese. Mai nella sua storia la USCO era stata così dipendente da un creditore estero. La Cina ha già perso miliardi. Questo è dovuto al deprezzamento del dollaro, derivato dal crescente indebitamento, dal risparmio in calo, dagli interessi [sui titoli] ridotti a zero, e da un PIL che allo zero ci si sta avvicinando. Senza la cascata di denaro dalla Cina, la USCO sarebbe incapace di perseguire la sua espansione militaristica all'estero. Quello che possiamo dire è che lo status del dollaro come valuta delle riserve mondiali, che ha conferito un potere "stravagante" (questa l'espressione di de Gaulle [11]) all'imperialismo statunitense, questo status ovviamente non può durare. I buoni del tesoro USA sono un porto sicuro. Evitando di usare un gergo tecnico, i proprietari del salvadanaio cinese hanno talmente tanti soldi da non sapere dove investirli, tranne che nei pessimamente redditizi titoli statunitensi. La battaglia sui tassi di cambio si combatte sui campi di battaglia del mercato dei cambi.
L'Indice Big Mac Per capire la ragione per cui, secondo me, non può esserci una soluzione amichevole alla guerra commerciale sino-americana, dobbiamo fare qualche accenno alla natura del mercato dei cambi. La Regina delle merci. Il mercato all'interno del quale si conducono queste transazioni viene chiamato Forex. In Cina, il Big Mac costa 1,53 dollari. Di qui la nostra conclusione (ripeto: non si tratta del solo modo di valutare le disparità valutarie, ma di certo è il più semplice ed efficace), che il Renminbi (o Yuan) cinese è sopravvalutato del 40% rispetto al dollaro, il che, secondo la valutazione del Tesoro americano, gli concederebbe un vantaggio nelle esportazioni [12]. Il governo statunitense ha già caricato delle tariffe sui prodotti cinesi, accusando la Cina di manipolazione dei tassi di cambio. Il problema del vantaggio competitivo della Cina ovviamente va al di là il tasso dei cambi. Il relativo livello dei salari è altrettanto rilevante. Il livello dei salari nel settore manifatturiero cinese è inferiore del 10% rispetto a quello degli USA. Ma non si tratta solo di una differenza nel costo della mano d'opera. Mettiamoci anche che la produttività industriale della Cina è stata notevole. La Cina è presente su tutti i mercati mondiali, e il suo commercio con l'estero e i suoi investimenti diretti degli ultimi dieci anni sono schizzati alle stelle, particolarmente in America Latina e in Africa. Australia e tutto il mercato asiatico, per non parlare della Russia. Il ruolo della USCO, dell'Unione Europea e del Giappone, per il Venezuela sono diventati periferici. La conquista cinese dei mercati mondiali continua inarrestabile. Diciamolo senza la minima ambiguità: l'obbiettivo della dirigenza cinese è un'espansione del mercato.
Dinamica della sovraproduzione Una delle carratteristiche della corrente defstag, e non esagero usando questo termine, è che ci sono troppi beni per troppo pochi acquirenti, troppo denaro e troppo poche occasioni di investimento, troppi lavoratori e troppo pochi posti di lavoro, troppe banche e troppo pochi risparmiatori, eccetera. Questo vale non solo per l'attuale caduta ciclica del capitalismo, ma anche per gli altri aspetti della crisi. L'essenza della crisi del capitalismo è la sovraproduzione. L'obbiettivo dell'accumulazione capitalistica è quello di espandere e garantire una sempre crescente massa di profitti alla classe proprietaria. La sovraproduzione non è quindi un'aberrazione del sistema, ma è insita nel suo funzionamento. Si può risalire alla prima Grande Depressione del capitalismo, quella del 1873 [-1890], come venne riportato dalla Commissione Reale [che si occupò della crisi] nel suo rapporto finale, con parole che sarebbero state adatte sia alla futura crisi del 1929 sia all'attuale crollo [13]: "Riteniamo che (...) la sovraproduzione sia stata uno dei tratti maggiormente rilevanti dell'andamento dei commerci durante gli ultimi anni, e che la depressione di cui ora ci troviamo a soffrire possa essere parzialmente spiegata da questo elemento (...). La caratteristica rimarchevole della presente situazione, e che a nostro avviso la rende diversa da altri precedenti periodi di depressione, è la lunghezza del periodo durante il quale questa sovraproduzione si è protratta (...). Abbiamo la convinzione che negli ultimi anni, e più in particolare negli anni in cui è emersa la depressione nei commerci, la produzione di merci e l'accumulazione di capitali abbia proceduto in questo paese secondo un tasso più rapido di quello dell'aumento della popolazione." La profondità di queste osservazioni sottolinea non solo la natura, la genesi e la logica del ciclo affaristico (che esploreremo in esposizioni successive), ma la sua sua connessione con le altre grandi depressioni che hanno devastato il capitalismo mondiale, come la Grande depressione del 1929 e la depressione economica che stiamo vivendo attualmente. L'avvento dei monopoli e le sue implicazioni Il capitalismo, col suo dominio di classe, è un sistema guidato dalla competizione, in tutte le fasi del suo sviluppo. Il periodo che va dal 1873 al 1914, che fece strada al grande massacro [della I Guerra Mondiale], vide il cambiamento strutturale del capitalismo, dalla fase della competizione a quella dei monopoli. La Grande Depressione diede di sprone alla concentrazione e centralizzazione del capitale che Marx aveva analizzato con tanta efficacia. I nomi Rockfeller, Buchanan (il re del tabacco), Krupp, Vanderbilt, Morgan, Carnegie, incarnano il volto del capitale. Costoro non erano semplicemente quelli che il Presidente Theodore Roosevelt chiamò "i malfattori della Grande Ricchezza". Questa era la nuova fase del capitalismo monopolistico, generata dalla crescente competizione all'interno e tra gli stati nazione, e dal declino dei tassi di profitto. Una sempre maggiore competizione portò a un eccesso di capacità produttiva, col corollario di una spietata corsa al ribasso dei prezzi, la caduta dei prezzi al dettaglio e all'ingrosso, indici di una fase deflattiva. Quel periodo ha spalancato le porte a quella che George Bernard Shaw, ai tempi della Guerre Boere, chiamò l'era dei Mercanti di Morte [14]. Ricorderete quello che il Presidente Eisenhower, nel suo discorso di commiato, definì il complesso militare/industriale, il che generò grandi quantità di letteratura. La concretezza di questo fenomeno si manifestò in forma concentrata nei decenni che portarono alla Grande Guerra. Quasi il 70% dei pezzi di artiglieria, e le loro munizioni, utilizzati dall'esercito del Kaiser, per non parlare dell'acciaio che permise l'espansione della flotta tedesca sin dal 1890, era di produzione Krupp. La casata dei Krupp si mescolò a quella degli Hoenzollern per mezzo di legami matrimoniali. Tale era il potere della interconnessione matrimoniale all'interno dell'imperialismo.
Una rete di conquiste La spinta impetuosa che spingeva le potenze europee alle conquiste imperiali non erano meno vive per Stati Uniti e Giappone. Quindi l'imperialismo è l'estrema globalizzazione dell'accumulazione del capitale a livello mondiale nel suo momento di crisi e sommovimento. A partire dal Rinnovamento Meiji [20], in effetti in tre soli decenni, il capitalismo giapponese raggiunse con velocità stupefacente il livello di una nazione forte nell'industria e nel commercio mondiale, alla caccia incessante di espansione e conquiste coloniali. Insieme al potere militare (il gumbatsu) divennero il cuneo dell'espansione coloniale con l'occupazione di Formosa, che immise il Giappone nel circuito imperialistico. A questo seguì, nel 1895, la conquista della Corea e della Manciuria meridionale. Era pronta la scena per un'altra guerra imperialistica, stavolta tra la Russia degli Zar e il Giappone, che culminò nella cocente disfatta della Russia nella battaglia della Baia di Tsushima del 1905,e la conquista dell'isola di Sakhalin. Potremmo aggiungere, di passaggio, che questa sconfitta portò alla Rivoluzione Russa del 1905, che influì sugli eventi storici successivi. "Ora siamo una potenza mondiale, e la gloria della nostra razza e nazione non ha raggiunto la fine della nostra strada, e dobbiamo andare sempre più avanti". Lo svigorito e inglorioso Impero Spagnolo, sopravvissuto per 500 anni, fu demolito nel 1898 - un'impresa conclusa in un paio di settimane - con l'appropriazione delle sue colonie, in particolare i gioielli della corona Cuba e Filippine. Questo contrassegnò un'ulteriore fase nella redistribuzione del mercato mondiale, che portò l'imminente Armageddon un passo più vicino.
Il Trattato di Versailles La Grande Guerra non fu la "guerra che porrà fine a tutte le guerre", come affermò scioccamente Woodrow Wilson. Il desiderio da parte dei nostalgici della politica del laissez-faire di un ritorno a una supposta normalità fu completamente disatteso. Dopo Versailles (1919) la mappa mondiale venne mandata al macero. Gli Asburgo, i Romanov, gli Hoenzollern e gli Ottomani vennero scaricati nella pattumiera della Storia. Ora la Germania era una nazione sconfitta, privata di Alsazia e Lorena, così come delle sue colonie. Un punto militare/industriale di strategica importanza, comunque, era che una burocrazia non riformata, una classe militare e finanziaria e una potente borghesia nazionale - l'elemento portante del dominio di classe - erano ancora intatte. Una Russia rivoluzionaria, la cui dirigenza si era opposta risolutamente alla guerra, aveva usato quella guerra come testa d'ariete per un assalto all'autocrazia zarista. Facendo così, recise i legami [dello stato russo] con l'imperialismo e lo sciovinismo nazionalistico della socialdemocrazia, e orientò i suoi sforzi verso la costruzione di un ordine socialista, con l'eliminazione delle vestigia coloniali/capitalistiche/imperialistiche. Clemenceau sintetizzò quel tragico momento della verità quando confessò cupamente: "Abbiamo vinto la guerra, ma siamo rovinati". I vecchi imperi coloniali ancora in piedi, Francia e regno unito, erano dissanguati e sull'orlo della bancarotta finanziaria. Il loro mercato dei cambi e le riserve di oro vennero utilizzati per pagare i costi della guerra. La questione delle riparazioni [di guerra] da imporre alla Germania di Weimar era uno dei punti caldi delle relazioni internazionali e del battibecco imperialista. Fu in quel contesto che John Maynard Keynes (1883-1946) acquistò rinomanza internazionale con la sua opposizione alle clausole del Trattato, redatte in "The Economic Consequences of the Peace" (1919), che analizzava le conseguenze delle riparazioni. A questo punto devo parlare di una delle più efficaci controargomentazioni al pamphlet di JMK, scritta da un accademico americano la cui brevissima recensione apparve in un oscura pubblicazione nel 1920. In appena tre pagine Thorstein Veblen (1857-1929) identificava con efficacia il punto che JMK (che partecipava alla Conferenza di Parigi come membro della delegazione britannica) aveva accuratamente evitato, [ma che era] il nucleo stesso del Trattato. Prima di continuare, però, vorrei aggiungere che Veblen fu un acuto teorico e osservatore del capitalismo americano durante l'età dorata dei Robber Baron (1890-1914). Mai, però, fu un attivo avversario del sistema. Non credette mai che fosse fattibile un progetto alternativo dei rapporti di classe e proprietà. Fu un catalizzatore che lo colpì nell'autunno della vita. In quella recensione, pubblicata nel 1920 dal Political Science Quarterly, un anno dopo la pubblicazione del pamphlet di JMK, Veblen vide con estrema chiarezza quale fosse la realtà celata dal Trattato, la realtà che Keynes aveva ignorato. Fa venire in mente la descrizione che Jacques Attali ha fatto del World Economic Forum di Davos, definendolo "le bavardage" [la ciancia]. Facendo così, Veblen portava la realtà dell'imperialismo all'epicentro delle relazioni internazionali. Il nocciolo della critica di Keynes era il negativo effetto di contrazione sulla produzione, l'occupazione e la domanda interna della Germania. Venivano ignorate le ben più ampie conseguenze geostrategiche, politiche e ideologiche che erano in gioco. Arrivati alla primavera del 1919, quando i negoziati sul Trattato avevano raggiunto il loro punto cruciale, la guerra di intervento per distruggere la Rivoluzione Russa toccava anch'essa il suo punto più alto. Veblen faceva un'acuta considerazione che mostrava la precorrenza del suo ragionamento: "Se non fosse per la loro volpina segretezza, il carattere i fini di quell'occulto conclave di imbonitori politici sarebbe già stato evidente agli occhi di tutti un anno fa. Il Trattato è quindi congegnato in modo da prescrivere che la clausola più rigida del Trattato (e della Lega) sia una disposizione non scritta [unrecorded] dei governi delle grandi potenze che si associano per la soppressione della Russia sovietica..." Fondamentale nella sua critica era il fatto che Keynes avesse impedito a se stesso di accorgersi che l'obbiettivo del Conclave era la distruzione del bolscevismo, che questo aveva plasmato la forma del Trattato. Demolendo le argomentazioni di Keynes, antisovietico e anticomunista per tutta la sua vita, Veblen non mancò di arrivare alla conclusione che la contrapposizione bolscevismo/imperialismo era diventata ormai una lotta all'ultimo sangue. Allo stesso tempo, l'ordine sociale ed economico odierno si fonda sulla proprietà assenteista". Veblen ovviamente [non] si sbagliava affermando che gli "imbonitori" avrebbero dichiarato una guerra ufficiosa contro una Russia rinascente. Per la fine del 1917, era una guerra clandestina che dispiegava eserciti imponenti. Furono le conseguenze delle crisi e convulsioni del capitalismo. Veblen di sicuro non aveva dimenticato che Rosa Luxemburg (1871-1919) e Karl Liebknecht (1871-1919), i due leggendari socialdemocratici tedeschi, erano contrari alla guerra, cosa per cui pagarono il prezzo più caro. Furono arrestati e assassinati da militaristi di destra del Reichswehr. E lo stesso accadde al leader socialdemocratico Leo Jogiches (1867-1919). L'anno 1919 è un anno cruciale nella storia della socialdemocrazia, del trattato e dell'imperialismo. La Russia Sovietica, ben presto ribattezzata Unione Sovietica, e la Germania erano adesso diventati gli attori principali nel dramma che stava andando in scena: la prima allungando sul mondo la sua portata rivoluzionaria, la seconda come eletto bastione della contro-rivoluzione. Nel 1932, rivolgendosi ai suoi pretoriani SS, Hitler tuonava che "le strade della nostra nazione sono in tumulto.
Frederic F. Clairmont Fonte: www.globalresearch.ca
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17 marzo 2009
E' possibile lo scoppio di una grande guerra? La Storia insegna
In queste esposizioni mi arrischierò a rispondere ad alcuni dei punti interrogativi sollevati dalla prospettiva di una guerra di grande portata. Le note a questi studi sono state scritte fuori orario, in un angolo del mio soggiorno. Si tratta dunque di sapere in che modo il capitalismo americano, nella sua condizione attuale di indebitamento, pauperizzazione di massa e disintegrazione finanziaria, riuscirà a competere a livello internazionale. Basti sapere che è una questione di vita o di morte, che ci conduce nei più profondi recessi delle contraddizioni conflittive interne al capitalismo e all'imperialismo [1], e ci darà un'idea più delineata di cosa intendiamo dicendo che la Cina è diventata il fulcro industriale del globo, nonché un'idea di quello che intendiamo quando parliamo di squilibrio finanziario.
Le Ramificazioni Qualcuno fra voi ha evocato la possibilità che un conflitto mondiale si verifichi nel corso del 2009... Nello scatenamento di una guerra, il ruolo della follia non si può mai escludere. Conduce una guerra a Gaza, tramite i suoi delegati; conduce una guerra in Iraq; e naturalmente sta moltiplicando il suo impegno militare in Afghanistan; ha esteso il campo di battaglia fino al Pakistan. Come dobbiamo affrontare la questione? Qual è il metodo più adatto? Sono cosciente del fato che scendere nel dettaglio delle potenziali aree critiche ci fornisce singoli punti che però non hanno linee che li uniscano. La selezione e interpretazione degli eventi sono perciò condizionate dalle inclinazioni ideologiche e filosofiche dello storico. Come notava Lloyd George, il più scaltro tra i costruttori dell'impero e uno dei principali sicari della Grande Guerra: "Se il 1914 non fosse arrivato quando è arrivato, sarebbe inevitabilmente giunto più tardi". Le guerre del capitalismo erano il sigillo della sua politica di espansione [3]. La USCO sta già spendendo più del doppio o del triplo di quello che il resto del mondo spende in armamenti. La USCO e i suoi lacchè militari sono in guerra permanente fin dal 1945. Questo include il suo ruolo nella guerra civile cinese che si concluse nel 1949, in Indocina a partire dal 1945, in Corea, due volte di seguito in Iraq, eccetera. Le sue guerre coloniali, combattute esclusivamente contro popoli di colore, hanno condotto l'economia degli Stati Uniti alla bancarotta. Secondo l'ultimo conteggio, ci sono 250 basi militari al di fuori del territorio degli USA. Sono il più grande mendicante del mondo. È stato sicuramente il caso del Terzo Reich di Hitler, nel quale le spese militari produssero un'espansione che riassorbì le masse di disoccupati. È stato il caso del regno Unito, dal 1937 in poi. Il risultato fu ottenuto da massicce spese militari nel settore pubblico, finanziate dal debito. Lasciatemi ribadire che ciò che pose fine al diabolico rovescio innescato nel '29, fu lo scatenamento della II Guerra Mondiale. Si può quindi suggerire che la guerra, insieme con la sua preparazione, offra la "soluzione finale" per raggiungere la piena occupazione? Nel caso del capitalismo statunitense la risposta inequivocabile è no. I debiti del capitalismo americano - del governo, delle imprese, delle famiglie - non verranno mai ripagati. Si potrebbe sostenere che saranno le entrate dei produttori di armamenti ad aumentare. Data l'alta capitalizzazione della moderna produzione bellica, l'immissione di forza lavoro si riduce drasticamente. Torniamo alle cifre citate da Stigliz. Solo in Iraq, la spesa è di 3,5 bilioni di dollari. La USCO vive di tempo e denaro presi in prestito da altri, un'abbuffata parassitaria pagata dal 70% del risparmio mondiale, una situazione palesemente insostenibile, anche a breve termine.
Israele e il Medio Oriente Sospetto che sia corretto supporre che Gaza sia un'area troppo ridotta per essere considerata un probabile catalizzatore di un grande conflitto mondiale. Eccoci dunque arrivati al ruolo nella storia, non di forze astratte, ma degli individui. Il sig. Obama è un politico fragile, e le incontrollabili convulsioni del capitalismo, in patria e all'estero, lo getteranno in mezzo a un mare in tempesta. Sappiamo bene chi sia il duo Netanyahu/Lieberman. La posizione incontrastata del duo all'interno delle lobby sioniste, come all'interno delle alte sfere della USCO, è molto importante. Per cui non possiamo ignorare la possibilità che nella loro disperazione possano scatenare una guerra di più vaste proporzioni. E il corso degli eventi non resterebbe confinato alla regione. L'obbiettivo dell'imperialismo statunitense, congiunto con quello israeliano, è la distruzione dell'Iran, alleato sia di Hamas sia di Hezbollah. Il lancio di satelliti [da parte dell'Iran] introduce nei nostri calcoli nuove e inquietanti variabili. Se ne parlò sul New York Times. Si tratta delle relazioni tra USA e Cina, che hanno raggiunto nuovi picchi di tensione commerciale, a dispetto delle tiritere che affermano il contrario.
La Cina e gli Stati Uniti Prima di proseguire nell'esame della possibilità che le tensioni in aumento, commerciali e finanziarie, possano condurre a un letale confronto bellico, dobbiamo comunque rievocare la natura delle rivalità commerciali e le armi dispiegate nelle guerre economiche degli anni 30. Il discorso del Presidente cinese a Davos, molto sferzante nei confronti degli USA (come quello di Putin), è indicativo della direzione presa dalla guerra economica. Davos è il perno della globalizzazione. È la cabina di comando del potere corporativo, dei leader e aspiranti leader mondiali. Davos ha evidenziato la miserevole fragilità delle istituzioni finanziarie, un tempo viste come la colonna portante del sistema. La rilevanza che hanno oggi queste parole è ovvia: "Stiamo vivendo una guerra... Mentre i passi dell'attuale crisi suonano sempre più pesanti, il capitalismo non ha più la forza di scalare le pareti del pozzo della defstag. La guerra globale per il controllo dei mercati e del mercato azionario continua a ritmo serrato. Questo si rispecchia nelle relative prestazioni economica di USA e Cina, che è diventata il fulcro della produzione manifatturiera mondiale. Di contro, la USCO è in preda all'agonia della disaccumulazione del capitale e al declino dell'industria di base. Così come nel Regno Unito, la sua base industriale, una volta tanto potente, è stata eviscerata. Diamo uno sguardo alle cifre, per osservarne le divergenze e scoprire quali di esse indicano le tensioni che potrebbero condurre a una guerra. Col disfacimento dell'indebitato capitalismo nipponico, a un passo dalla crescita zero, [la Cina] si predispone a mandare il Giappone nel sottoscala della storia. Prendiamo in considerazione per primi i maggiori indicatori (2008) degli USA, e confrontiamoli con quelli cinesi: USA: PIL (+0,9% [rispetto all'anno prima]); Bilancia Commerciale (- $ 833 miliardi); Saldo delle Partite Correnti (- $ 697 miliardi); Produzione Industriale (-7,8%) CINA: PIL (+9,1%); BC (+$295 miliardi); SPC (+$371 miliardi); PI (+5,7%) Le cifre evidenziano la sempre maggiore disparità economica tra i due paesi. Le importazioni degli USA crescono più delle esportazioni. Il capitalismo statunitense sta cadendo in una spirale deflazionaria che ricorda il cosiddetto "decennio perduto" giapponese degli anni 80 [10]. Prestito significa debito. La Cina ricicla il suo surplus commerciale acquistando titoli e buoni del tesoro statunitensi. Stabilire se l'élite politica cinese continuerà a riciclare i guadagni del commercio estero per puntellare i deficit USA resta problematico. Il capitalismo americano è ormai da due decenni il maggior debitore del mondo. Le dimensioni delle cifre è rilevante. Le riserve di valuta e titoli esteri della Cina, che ammontano a 2000 miliardi di dollari, sono le più grandi del mondo. Di questa cifra, 1700 miliardi vengono investiti in beni pagati in dollari, il che rende la Cina il maggior creditore del capitalismo americano, e il secondo maggior compratore di buoni del tesoro statunitensi. [Il capitalismo americano] è dipendente totalmente dal denaro cinese. Mai nella sua storia la USCO era stata così dipendente da un creditore estero. La Cina ha già perso miliardi. Questo è dovuto al deprezzamento del dollaro, derivato dal crescente indebitamento, dal risparmio in calo, dagli interessi [sui titoli] ridotti a zero, e da un PIL che allo zero ci si sta avvicinando. Senza la cascata di denaro dalla Cina, la USCO sarebbe incapace di perseguire la sua espansione militaristica all'estero. Quello che possiamo dire è che lo status del dollaro come valuta delle riserve mondiali, che ha conferito un potere "stravagante" (questa l'espressione di de Gaulle [11]) all'imperialismo statunitense, questo status ovviamente non può durare. I buoni del tesoro USA sono un porto sicuro. Evitando di usare un gergo tecnico, i proprietari del salvadanaio cinese hanno talmente tanti soldi da non sapere dove investirli, tranne che nei pessimamente redditizi titoli statunitensi. La battaglia sui tassi di cambio si combatte sui campi di battaglia del mercato dei cambi.
L'Indice Big Mac Per capire la ragione per cui, secondo me, non può esserci una soluzione amichevole alla guerra commerciale sino-americana, dobbiamo fare qualche accenno alla natura del mercato dei cambi. La Regina delle merci. Il mercato all'interno del quale si conducono queste transazioni viene chiamato Forex. In Cina, il Big Mac costa 1,53 dollari. Di qui la nostra conclusione (ripeto: non si tratta del solo modo di valutare le disparità valutarie, ma di certo è il più semplice ed efficace), che il Renminbi (o Yuan) cinese è sopravvalutato del 40% rispetto al dollaro, il che, secondo la valutazione del Tesoro americano, gli concederebbe un vantaggio nelle esportazioni [12]. Il governo statunitense ha già caricato delle tariffe sui prodotti cinesi, accusando la Cina di manipolazione dei tassi di cambio. Il problema del vantaggio competitivo della Cina ovviamente va al di là il tasso dei cambi. Il relativo livello dei salari è altrettanto rilevante. Il livello dei salari nel settore manifatturiero cinese è inferiore del 10% rispetto a quello degli USA. Ma non si tratta solo di una differenza nel costo della mano d'opera. Mettiamoci anche che la produttività industriale della Cina è stata notevole. La Cina è presente su tutti i mercati mondiali, e il suo commercio con l'estero e i suoi investimenti diretti degli ultimi dieci anni sono schizzati alle stelle, particolarmente in America Latina e in Africa. Australia e tutto il mercato asiatico, per non parlare della Russia. Il ruolo della USCO, dell'Unione Europea e del Giappone, per il Venezuela sono diventati periferici. La conquista cinese dei mercati mondiali continua inarrestabile. Diciamolo senza la minima ambiguità: l'obbiettivo della dirigenza cinese è un'espansione del mercato.
Dinamica della sovraproduzione Una delle carratteristiche della corrente defstag, e non esagero usando questo termine, è che ci sono troppi beni per troppo pochi acquirenti, troppo denaro e troppo poche occasioni di investimento, troppi lavoratori e troppo pochi posti di lavoro, troppe banche e troppo pochi risparmiatori, eccetera. Questo vale non solo per l'attuale caduta ciclica del capitalismo, ma anche per gli altri aspetti della crisi. L'essenza della crisi del capitalismo è la sovraproduzione. L'obbiettivo dell'accumulazione capitalistica è quello di espandere e garantire una sempre crescente massa di profitti alla classe proprietaria. La sovraproduzione non è quindi un'aberrazione del sistema, ma è insita nel suo funzionamento. Si può risalire alla prima Grande Depressione del capitalismo, quella del 1873 [-1890], come venne riportato dalla Commissione Reale [che si occupò della crisi] nel suo rapporto finale, con parole che sarebbero state adatte sia alla futura crisi del 1929 sia all'attuale crollo [13]: "Riteniamo che (...) la sovraproduzione sia stata uno dei tratti maggiormente rilevanti dell'andamento dei commerci durante gli ultimi anni, e che la depressione di cui ora ci troviamo a soffrire possa essere parzialmente spiegata da questo elemento (...). La caratteristica rimarchevole della presente situazione, e che a nostro avviso la rende diversa da altri precedenti periodi di depressione, è la lunghezza del periodo durante il quale questa sovraproduzione si è protratta (...). Abbiamo la convinzione che negli ultimi anni, e più in particolare negli anni in cui è emersa la depressione nei commerci, la produzione di merci e l'accumulazione di capitali abbia proceduto in questo paese secondo un tasso più rapido di quello dell'aumento della popolazione." La profondità di queste osservazioni sottolinea non solo la natura, la genesi e la logica del ciclo affaristico (che esploreremo in esposizioni successive), ma la sua sua connessione con le altre grandi depressioni che hanno devastato il capitalismo mondiale, come la Grande depressione del 1929 e la depressione economica che stiamo vivendo attualmente. L'avvento dei monopoli e le sue implicazioni Il capitalismo, col suo dominio di classe, è un sistema guidato dalla competizione, in tutte le fasi del suo sviluppo. Il periodo che va dal 1873 al 1914, che fece strada al grande massacro [della I Guerra Mondiale], vide il cambiamento strutturale del capitalismo, dalla fase della competizione a quella dei monopoli. La Grande Depressione diede di sprone alla concentrazione e centralizzazione del capitale che Marx aveva analizzato con tanta efficacia. I nomi Rockfeller, Buchanan (il re del tabacco), Krupp, Vanderbilt, Morgan, Carnegie, incarnano il volto del capitale. Costoro non erano semplicemente quelli che il Presidente Theodore Roosevelt chiamò "i malfattori della Grande Ricchezza". Questa era la nuova fase del capitalismo monopolistico, generata dalla crescente competizione all'interno e tra gli stati nazione, e dal declino dei tassi di profitto. Una sempre maggiore competizione portò a un eccesso di capacità produttiva, col corollario di una spietata corsa al ribasso dei prezzi, la caduta dei prezzi al dettaglio e all'ingrosso, indici di una fase deflattiva. Quel periodo ha spalancato le porte a quella che George Bernard Shaw, ai tempi della Guerre Boere, chiamò l'era dei Mercanti di Morte [14]. Ricorderete quello che il Presidente Eisenhower, nel suo discorso di commiato, definì il complesso militare/industriale, il che generò grandi quantità di letteratura. La concretezza di questo fenomeno si manifestò in forma concentrata nei decenni che portarono alla Grande Guerra. Quasi il 70% dei pezzi di artiglieria, e le loro munizioni, utilizzati dall'esercito del Kaiser, per non parlare dell'acciaio che permise l'espansione della flotta tedesca sin dal 1890, era di produzione Krupp. La casata dei Krupp si mescolò a quella degli Hoenzollern per mezzo di legami matrimoniali. Tale era il potere della interconnessione matrimoniale all'interno dell'imperialismo.
Una rete di conquiste La spinta impetuosa che spingeva le potenze europee alle conquiste imperiali non erano meno vive per Stati Uniti e Giappone. Quindi l'imperialismo è l'estrema globalizzazione dell'accumulazione del capitale a livello mondiale nel suo momento di crisi e sommovimento. A partire dal Rinnovamento Meiji [20], in effetti in tre soli decenni, il capitalismo giapponese raggiunse con velocità stupefacente il livello di una nazione forte nell'industria e nel commercio mondiale, alla caccia incessante di espansione e conquiste coloniali. Insieme al potere militare (il gumbatsu) divennero il cuneo dell'espansione coloniale con l'occupazione di Formosa, che immise il Giappone nel circuito imperialistico. A questo seguì, nel 1895, la conquista della Corea e della Manciuria meridionale. Era pronta la scena per un'altra guerra imperialistica, stavolta tra la Russia degli Zar e il Giappone, che culminò nella cocente disfatta della Russia nella battaglia della Baia di Tsushima del 1905,e la conquista dell'isola di Sakhalin. Potremmo aggiungere, di passaggio, che questa sconfitta portò alla Rivoluzione Russa del 1905, che influì sugli eventi storici successivi. "Ora siamo una potenza mondiale, e la gloria della nostra razza e nazione non ha raggiunto la fine della nostra strada, e dobbiamo andare sempre più avanti". Lo svigorito e inglorioso Impero Spagnolo, sopravvissuto per 500 anni, fu demolito nel 1898 - un'impresa conclusa in un paio di settimane - con l'appropriazione delle sue colonie, in particolare i gioielli della corona Cuba e Filippine. Questo contrassegnò un'ulteriore fase nella redistribuzione del mercato mondiale, che portò l'imminente Armageddon un passo più vicino.
Il Trattato di Versailles La Grande Guerra non fu la "guerra che porrà fine a tutte le guerre", come affermò scioccamente Woodrow Wilson. Il desiderio da parte dei nostalgici della politica del laissez-faire di un ritorno a una supposta normalità fu completamente disatteso. Dopo Versailles (1919) la mappa mondiale venne mandata al macero. Gli Asburgo, i Romanov, gli Hoenzollern e gli Ottomani vennero scaricati nella pattumiera della Storia. Ora la Germania era una nazione sconfitta, privata di Alsazia e Lorena, così come delle sue colonie. Un punto militare/industriale di strategica importanza, comunque, era che una burocrazia non riformata, una classe militare e finanziaria e una potente borghesia nazionale - l'elemento portante del dominio di classe - erano ancora intatte. Una Russia rivoluzionaria, la cui dirigenza si era opposta risolutamente alla guerra, aveva usato quella guerra come testa d'ariete per un assalto all'autocrazia zarista. Facendo così, recise i legami [dello stato russo] con l'imperialismo e lo sciovinismo nazionalistico della socialdemocrazia, e orientò i suoi sforzi verso la costruzione di un ordine socialista, con l'eliminazione delle vestigia coloniali/capitalistiche/imperialistiche. Clemenceau sintetizzò quel tragico momento della verità quando confessò cupamente: "Abbiamo vinto la guerra, ma siamo rovinati". I vecchi imperi coloniali ancora in piedi, Francia e regno unito, erano dissanguati e sull'orlo della bancarotta finanziaria. Il loro mercato dei cambi e le riserve di oro vennero utilizzati per pagare i costi della guerra. La questione delle riparazioni [di guerra] da imporre alla Germania di Weimar era uno dei punti caldi delle relazioni internazionali e del battibecco imperialista. Fu in quel contesto che John Maynard Keynes (1883-1946) acquistò rinomanza internazionale con la sua opposizione alle clausole del Trattato, redatte in "The Economic Consequences of the Peace" (1919), che analizzava le conseguenze delle riparazioni. A questo punto devo parlare di una delle più efficaci controargomentazioni al pamphlet di JMK, scritta da un accademico americano la cui brevissima recensione apparve in un oscura pubblicazione nel 1920. In appena tre pagine Thorstein Veblen (1857-1929) identificava con efficacia il punto che JMK (che partecipava alla Conferenza di Parigi come membro della delegazione britannica) aveva accuratamente evitato, [ma che era] il nucleo stesso del Trattato. Prima di continuare, però, vorrei aggiungere che Veblen fu un acuto teorico e osservatore del capitalismo americano durante l'età dorata dei Robber Baron (1890-1914). Mai, però, fu un attivo avversario del sistema. Non credette mai che fosse fattibile un progetto alternativo dei rapporti di classe e proprietà. Fu un catalizzatore che lo colpì nell'autunno della vita. In quella recensione, pubblicata nel 1920 dal Political Science Quarterly, un anno dopo la pubblicazione del pamphlet di JMK, Veblen vide con estrema chiarezza quale fosse la realtà celata dal Trattato, la realtà che Keynes aveva ignorato. Fa venire in mente la descrizione che Jacques Attali ha fatto del World Economic Forum di Davos, definendolo "le bavardage" [la ciancia]. Facendo così, Veblen portava la realtà dell'imperialismo all'epicentro delle relazioni internazionali. Il nocciolo della critica di Keynes era il negativo effetto di contrazione sulla produzione, l'occupazione e la domanda interna della Germania. Venivano ignorate le ben più ampie conseguenze geostrategiche, politiche e ideologiche che erano in gioco. Arrivati alla primavera del 1919, quando i negoziati sul Trattato avevano raggiunto il loro punto cruciale, la guerra di intervento per distruggere la Rivoluzione Russa toccava anch'essa il suo punto più alto. Veblen faceva un'acuta considerazione che mostrava la precorrenza del suo ragionamento: "Se non fosse per la loro volpina segretezza, il carattere i fini di quell'occulto conclave di imbonitori politici sarebbe già stato evidente agli occhi di tutti un anno fa. Il Trattato è quindi congegnato in modo da prescrivere che la clausola più rigida del Trattato (e della Lega) sia una disposizione non scritta [unrecorded] dei governi delle grandi potenze che si associano per la soppressione della Russia sovietica..." Fondamentale nella sua critica era il fatto che Keynes avesse impedito a se stesso di accorgersi che l'obbiettivo del Conclave era la distruzione del bolscevismo, che questo aveva plasmato la forma del Trattato. Demolendo le argomentazioni di Keynes, antisovietico e anticomunista per tutta la sua vita, Veblen non mancò di arrivare alla conclusione che la contrapposizione bolscevismo/imperialismo era diventata ormai una lotta all'ultimo sangue. Allo stesso tempo, l'ordine sociale ed economico odierno si fonda sulla proprietà assenteista". Veblen ovviamente [non] si sbagliava affermando che gli "imbonitori" avrebbero dichiarato una guerra ufficiosa contro una Russia rinascente. Per la fine del 1917, era una guerra clandestina che dispiegava eserciti imponenti. Furono le conseguenze delle crisi e convulsioni del capitalismo. Veblen di sicuro non aveva dimenticato che Rosa Luxemburg (1871-1919) e Karl Liebknecht (1871-1919), i due leggendari socialdemocratici tedeschi, erano contrari alla guerra, cosa per cui pagarono il prezzo più caro. Furono arrestati e assassinati da militaristi di destra del Reichswehr. E lo stesso accadde al leader socialdemocratico Leo Jogiches (1867-1919). L'anno 1919 è un anno cruciale nella storia della socialdemocrazia, del trattato e dell'imperialismo. La Russia Sovietica, ben presto ribattezzata Unione Sovietica, e la Germania erano adesso diventati gli attori principali nel dramma che stava andando in scena: la prima allungando sul mondo la sua portata rivoluzionaria, la seconda come eletto bastione della contro-rivoluzione. Nel 1932, rivolgendosi ai suoi pretoriani SS, Hitler tuonava che "le strade della nostra nazione sono in tumulto.
Frederic F. Clairmont Fonte: www.globalresearch.ca
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