27 aprile 2009

Israele, siluro sull'inchiesta Onu

onu

CRIMINI DI GUERRA A GAZA - «Commissione non imparziale», Tel Aviv chiude la porta a Goldstone

Nessuna collaborazione con gli ispettori che indagheranno su Piombo fuso
Tel Aviv non collaborerà con l'inchiesta delle Nazioni Unite sull'operazione «Piombo fuso», l'offensiva delle truppe israeliane che tra il 27 dicembre 2008 e il 18 gennaio 2009 ha causato la morte di oltre 1.417 palestinesi (la maggior parte dei quali civili) nella Striscia di Gaza. «Israele ha informato il Consiglio dei diritti umani dell'Onu che non coopererà con un'indagine basata su una risoluzione non imparziale» ha dichiarato alla France presse un funzionario dello Stato ebraico che ha chiesto di restare anonimo. Hamas al contrario - riferisce il quotidiano Ha'aretz - ha fatto sapere di essere pronta a cooperare con la squadra guidata da Richard Goldstone, il giudice sudafricano (ex procuratore dei tribunali per i crimini di guerra commessi in Ruanda ed Ex Yugoslavia) che guiderà gli investigatori attesi tra qualche settimana nella regione e il cui rapporto al Consiglio è previsto per il luglio prossimo.
La lettera che ufficializza il diniego è stata spedita, attraverso l'ambasciata israeliana a Ginevra, a Goldstone e alla sede dell'Agenzia dell'Onu che si occupa dei diritti umani. Senza la collaborazione da parte delle autorità israeliane, per gli investigatori di Goldstone sarà più difficile raccogliere prove sulle armi utilizzate contro Gaza, su condotte criminali da parte dei soldati e su eventuali ordini che le hanno causate. Già da qualche giorno si era capito che i responsabili dei massacri di Gaza avevano intenzione di mettere il bastone tra le ruote all'iniziativa del Consiglio, di cui fanno parte 47 paesi: «L'indagine non ha alcuna base morale, perché già prima di essere iniziata ha deciso chi è colpevole e di cosa» aveva tagliato corto qualche giorno fa Yigal Palmor, il portavoce del ministero degli esteri.
All'allora governo Olmert proprio non era andata giù la risoluzione, adottata dal Consiglio dei diritti umani il 12 gennaio scorso, che condannava l'offensiva militare e chiedeva la fine dei bombardamenti. Eppure Goldstone, che si era detto «scioccato» per l'incarico affidatogli - a causa della sua collaborazione con istituzioni israeliane (tra cui l'università ebraica di Gerusalemme) - aveva fatto di tutto per non suscitare il sospetto delle autorità israeliane. Mentre il mandato gli chiede d'indagare sulla condotta delle truppe di Tel Aviv nei 22 giorni di attacco a Gaza, il giudice aveva dichiarato di voler prendere in esame tutte le presunte violazioni (anche i lanci di razzi da parte di Hamas) e di voler estendere il raggio temporale dell'inchiesta al periodo precedente l'attacco, per spiegarne il contesto.
Le organizzazioni non governative palestinesi e internazionali - tra cui Amnesty international e Human rights watch - hanno raccolto indizi che accusano l'esercito di aver bombardato aree densamente popolate, utilizzato munizioni al fosforo bianco su zone abitate, impiegato palestinesi come scudi umani, aver effettuato esecuzioni extragiudiziali. Anche Hamas è stata accusata per il lancio di razzi in territorio israeliano e di aver utilizzato scudi umani.
Per le stesse accuse il procuratore della Corte penale internazionale (Icc) Luis Moreno Ocampo sta tuttora valutando se sussiste la possibilità di aprire un'indagine contro Tel Aviv in base alle denunce presentate da decine di ong.
Intanto continua l'opera di sdoganamento di Hamas, considerata «organizzazione terroristica» dalla Comunità internazionale ma con cui sempre più governi iniziano a intavolare trattative. Ieri il leader palestinese Khaled Meshaal, a capo dell'ufficio politico del movimento islamico in esilio, ha incontrato a Damasco una nuova delegazione parlamentare britannica, nel terzo meeting del genere nell'arco di un mese. In un comunicato, Hamas precisa che la delegazione guidata dall'onorevole Roger Godsiff ha incontrato Meshaal e altri rappresentanti di Hamas.

«È una visita che s'inserisce nel quadro degli sforzi europei per aprire canali di dialogo con Hamas al fine di comprendere nel profondo, attraverso un dialogo diretto col movimento, la nostra causa», si legge nel testo. Hamas figura dal 2003 nella lista dell'Unione europea delle organizzazioni terroristiche, eppure Meshaal aveva già incontrato a Damasco nel marzo scorso deputati europei. «I membri della delegazione britannica - prosegue il comunicato - hanno espresso la loro convinzione che nella regione non si può arrivare alla pace senza un dialogo con Hamas che si è conquistato la fiducia del popolo palestinese in modo democratico trasparente».


di Michelangelo Cocco

26 aprile 2009

Si delinea un confronto tra gli Stati Uniti ed Israele

americaisrael-781822
Si sta delineando un notevole confronto tra gli Stati Uniti ed Israele sulle scelte politiche che variano dalla Palestina all’Iran, secondo fonti dello State Department.

Il nuovo governo Likud / Yisrael Beiteinu d'Israele sta portando avanti un'agenda che va contro le politiche che gli Stati Uniti da lunga data stanno riservando al Medio Oriente. Il presidente del partito Yisrael Beiteinu, Avigdor Lieberman, nuovo Ministro degli Esteri israeliano, è considerato da una fonte dello State Department un “fascista est-europeo che pratica il razzismo”.

Le fonti dello State Department ora sono convinte che quello che a Washington è stato chiamato “Israel Lobby” presto si trasformerà in una “Likud / Lieberman Lobby”, ancor più problematica, che spingerà una politica pro-guerra e pro-coloni all'interno del Congresso e dell’Amministrazione di Barack Obama. Questa lobby, nuova e più aggressiva, userà il suo controllo soprattutto attraverso i deputati Steve Israele (Democratico-New York) e Mark Kirk (Repubblicano-Illinois), come anche attraverso il Senatore Charles Schumer (Democratico-New York), per assicurarsi che le nuove politiche d’Israele saranno trasmesse al Capo dello Staff della Casa Bianca, Rahm Emanuel ed al consulente capo di Obama, David Axelrod, e che loro agiranno di conseguenza.

Ci sono, in ogni modo, molti punti di potenziale rottura tra l'amministrazione Obama ed il nuovo governo israeliano, secondo le fonti dello State Department. Uno sarà l’interazione degli Stati Uniti con Hamas, il legittimo governo eletto della Palestina. Il termine del Presidente palestinese Mahmoud Abbas è scaduto ed attualmente il potere legittimo in Palestina appartiene a Hamas. Questo fatto politico significa che gli Stati Uniti hanno nessun’alternativa che parlare direttamente con Hamas.

C'è anche il fatto che Hamas è un partito che favorisce le urne elettorali e non i tradizionali modi medio-orientali di impossessarsi del potere, siano questi principi, generali, figure religiose, o semplici furfanti. Secondo fonti dello State Department, Hamas ha dato una lavata di capo anche agli Hezbollah del Libano, che in passato si erano opposti alla presa di potere attraverso elezioni nel Libano, affinché divenissero generalmente più democratici. Questo cambio si è realizzato, secondo le fonti, con Hezbollah ora completamente impegnato nel processo democratico.

La popolarità di Hamas, specialmente in seguito alla guerra genocida d'Israele contro Gaza, ha agitato i governi dell'Egitto, d’Arabia Saudita e, in minor modo, della Giordania, a causa del suo zelo a guadagnare il potere attraverso elezioni e non attraverso un colpo di stato. Fonti dello State Department dicono che se l'Egitto avesse oneste e democratiche elezioni, la Fratellanza Musulmana (Muslim Brotherhood), che dava vita a Hamas in Palestina, vincerebbe comodamente e la dittatura di Hosni Mubarak avrebbe presto fine. La stessa situazione esiste in Arabia Saudita, dove c’è nervosismo nella famiglia Saud a causa della popolarità di Hamas, che è vista come potenziale minaccia alla Casata dei Saud.

Il personale dello State Department, da osservazioni sul campo, è consapevole che il movimento Fatah di Abbas in Palestina è visto dalla maggioranza dei Palestinesi come corrotto e truffaldino, mentre Hamas è visto come pulito, vigoroso, ed attraente.

Un altro confronto che si mette in evidenza tra gli Stati Uniti e l'Israele riguarda le 200 testate nucleari di Israele. Con gli Stati Uniti occupati in trattative dirette sul nucleare con Iran ed Arabia Saudita, che richiedono un regime internazionale per l’approvvigionamento di combustibile per centrali nucleari, assieme alla tutela che tale tecnologia non può essere convertita per lo sviluppo di armi, c'è anche la probabilità che ci sarà una notevole spinta per creare nel Medio Oriente una zona libera dal nucleare. Se gli Stati Uniti investono in tale piano, vuol dire che l'Israele dovrà smantellare il suo arsenale nucleare. Dato il fatto, che funzionari dello State Department descrivono come “complesso suicida di Masada” d’Israele, tale piano sarà pressoché impossibile da realizzare, dato la svolta corrente d'Israele verso regole più teocratiche e di destra. Una fonte dello State Department lo mise così: "Noi non possiamo indirizzare il programma nucleare iraniano senza indirizzare il programma d’armamento nucleare israeliano."

Funzionari dei Servizi Segreti statunitensi sono anche preparati a smettere di considerare informazioni che arrivano alla CIA ed alle altre agenzie dal Mossad e dalle altre agenzie d’intelligenza israeliane. La nuova squadra che si sta insediando nel Directorate of National Intelligence e nella CIA è acutamente consapevole che gli israeliani hanno, come un membro lo mise, "una lunga storia di disseminazione ingannevole di disinformazione" a funzionari dei Servizi statunitensi, aggiungendo che mentre alcune fonti straniere hanno offerto "cattiva intelligenza distrattamente, Israele è stato intenzionalmente disonesto".

Ufficiali della Difesa statunitense fanno notare che Israele non può attaccare l'Iran senza collusione con gli Stati Uniti, che controllano lo spazio aereo sopra l’Iraq ed il Golfo Persico e qualsiasi aggressione aerea israeliana richiederebbe l’approvazione degli Stati Uniti. Sotto l'amministrazione presente questo scenario è improbabile, come viene riferito a WMR (Wayne Madsen Report).

"L'unico modo di Bibi Netanyahu per attaccare l'Iran è, se lui fosse rassicurato che l'Iran risponderà colpendo forze militari statunitensi nella regione, che costringerebbe gli Stati Uniti ad una risposta militare", disse un funzionario a WMR. Poi aggiunse, "Israele, da solo, non può intraprendere un attacco aereo sostenuto contro l'Iran".

Il Vicepresidente Joe Biden recentemente ha messo in guardia Israele dal condurre qualsiasi azione militare contro l'Iran.

Wayne Madsen

25 aprile 2009

La finanza pigliatutto con i soldi degli altri

Ora che i buoi sono scappati dalla stalla, le librerie sono piene di dotte riflessioni sui danni della finanziarizzazione sull’economia mondiale. Non sono però molti gli analisti che possono rivendicare coerenza di pensiero nella interpretazione dei fatti che hanno condotto alla attuale crisi.
Ronald Dore e Luciano Gallino sono tra quelli che, in tempi non sospetti, mentre prevaleva ancora il pensiero unico del liberismo dominante, avevano lucidamente messo in evidenza le distorsioni che si stavano determinando nella organizzazione delle economie e dei sistemi sociali, per effetto della prevalenza di un modello di capitalismo basato sulla deregolamentazione, sullo smantellamento degli istituti di welfare e sulla dominanza della rendita finanziaria rispetto all’industria.
Proprio per questa ragione, leggere i loro recenti contributi può essere un utile esercizio, non solo per approfondire l’analisi sui fattori fondamentali alla base della crisi economica in corso, ma anche per cercare di capire quale ricetta venga proposta ora da parte di chi, con maggiore credibilità rispetto ad altri, aveva colto i segni di una condizione di insostenibilità nascosta tra le pieghe della globalizzazione a senso unico.
Ronald Dore, nelle sue analisi sui diversi modelli di capitalismo, aveva già da tempo evidenziato le debolezze strutturali del sistema anglosassone, fondato sulla instabilità di meccanismi finanziari fortemente deregolamentati, rispetto al sistema europeo di welfare, proprio negli anni in cui, a cavallo tra il vecchio ed il nuovo secolo, si operava una sistematica demolizione delle reti di protezione sociale che sono state alla base del capitalismo ben temperato, tipico dell’approccio sociale dell’Europa continentale. Tra capitalismo di borsa e capitalismo di welfare, Dore chiedeva di scegliere la seconda opzione, quando invece il pensiero dominante esprimeva la convinzione di una irreversibile deriva verso il modello anglosassone.

Nel suo recente libro ("Finanza pigliatutto", Il Mulino, 2009, 9 euro) Ronald Dore torna su questi temi, partendo da una analisi delle ragioni strutturali che hanno condotto, nei passati decenni, ad una prevalenza della finanza sull’industria. Innanzitutto, occorre sottolineare che le attività finanziarie hanno assicurato, per diversi decenni, un livello di redditività tale da attrarre investimenti e risorse, in un processo di causazione cumulativa che è stato poi alla base della bolla finanziaria, alimentata dalla creazione di prodotti finanziari a rischio così elevato da non poter essere nemmeno dimensionato.
Analizzando la serie storica del reddito nazionale statunitense, Ronald Dore mostra che, fino al 1950, la quota dei profitti delle imprese finanziarie sul totale dei profitti era pari in media al 9,5%. Da allora è cominciata una accelerazione, sino a raggiungere il valore massimo nel 2002 (45%), con una successiva stabilizzazione ed un leggero arretramento negli anni più recenti, dovuto al manifestarsi dei primi segni della crisi finanziaria internazionale.
Si è affermata, nel capitalismo anglosassone prima e poi nel sistema economico internazionale, una cultura azionaria fondata sul profitto di breve periodo, sulla ricerca di opportunità di arricchimento rapido, sulla capacità di cogliere opportunità tattiche di massimizzazione della redditività rispetto a progetti di investimenti industriale a redditività differita. Gli stessi governi hanno promosso questa tendenza verso una apparente democratizzazione dell’azionariato, nella convinzione che un’offerta abbondante di capitale azionario avrebbe promosso l’innovazione e quindi la competitività. Nelle scelte delle imprese hanno cominciato a contare in modo decisivo le pressioni degli investitori istituzionali, che muovevano masse enormi di capitali alla continua ricerca della migliore redditività, schiacciando la prospettiva temporale del profitto atteso, sino a far governare in modo indiscusso il rendiconto trimestrale rispetto persino al bilancio annuale dell’impresa.

Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca la riflessione di Luciano Gallino, in "Con i soldi degli altri", (Einaudi, 2009, euro 17). I dati del processo di finanziarizzazione sono impressionanti: alla fine del 2007 il Pil del mondo ha superato i 54 trilioni di dollari, mentre la capitalizzazione delle borse mondiali ammontava a 61 trilioni e le obbligazioni pubbliche e private superavano i 60 trilioni. A giugno del 2008 il valore nominale della quota di derivati trattati nelle borse toccavano gli 80 trilioni di dollari, mentre quelli scambiati fuori mercato sfiorava i 684 trilioni: la somma dei derivati era quindi complessivamente pari a 764 trilioni di dollari, pari a 14 volte il Pil del mondo.
Il gioco della finanziarizzazione ha tracimato verso l’economia reale, influenzando le strategie delle imprese in modo decisivo e spostando la struttura dei risparmi degli individui verso scelte fortemente rischiose, spesso senza informare correttamente i cittadini sulle conseguenze di questi cambiamenti nelle strategie di portafoglio. I piani pensionistici sono passati su larga scala da schemi a beneficio definito a piani a contributo definito: mentre nel primo caso il contribuente sa di poter contare su un valore certo del proprio corrispettivo pensionistico, nel secondo tutto dipende dalla volatilità dei rendimenti assicurati dai fondi pensione.
Si è innescata in questo modo una ulteriore spirale perversa di avvitamento che oggi incide fortemente sulla crisi delle imprese industriali. Basti citare il caso della General Motors, la quale si è trovata nel 2009 ad avere solo 85.000 occupati negli Stati Uniti, mentre ai suoi fondi pensione fanno capo un milione di ex-dipendenti. Nel 1962 la GM aveva 460.000 dipendenti, la maggior parte in Usa, ed appena 40.000 pensionati. Nella previdenza privata di stampo anglosassone, l’incrocio tra squilibrio strutturale di dipendenti attivi e numero dei pensionati, unito alla volatilità al ribasso dei rendimenti delle attività finanziarie costituisce una mina vagante i cui effetti non sono ancora pienamente dispiegati.
Mentre cambiava radicalmente la struttura dei mercati finanziari, non si sono introdotte regole adeguate a fronteggiare con disciplina le trasformazioni intervenute. E oggi le banconote e le monete costituiscono solo il 3% del denaro circolante, mentre il restante 97% è interamente simbolico, a cominciare da quello depositato nei conti correnti o sui libretti di risparmio. Siamo in presenza di una mutazione genetica del sistema bancario in assenza di un tessuto di norme a protezione degli altissimi rischi che sono stati assunti in nome solo del profitto di brevissimo periodo. Scrive Gallino: “La funzione originaria del sistema bancario stava nel prendere in prestito da molti clienti piccole somme a un dato tasso di interesse, al fine di prestare grosse somme a pochi a un tasso di interesse più alto – contando sul fatto che è improbabile che i molti accorrano tutti assieme, nello stesso momento, a ritirare i loro depositi. Da tempo, per vari aspetti, tale funzione è caduta in secondo piano a fronte della possibilità assai più lucrosa di trasformare i prestiti in titoli commerciabili”.
Luciano Gallino propone una ricetta che consiste nell’indirizzare i capitali nelle mani degli investitori istituzionali verso investimenti socialmente responsabili, ed innanzitutto nella produzione di beni pubblici, a cominciare da infrastrutture di vario genere, dalle scuole ai trasporti. Inoltre, dovrebbero essere privilegiati investimenti produttivi a lungo termine, impiegando in questo modo ingenti risorse per migliorare la condizione del lavoro nel mondo, per farla uscire progressivamente dal percorso di mercificazione e di precarizzazione che ha caratterizzato la storia del lavoro negli ultimi decenni.
Insomma, dalle analisi di Ronald Dore e di Luciano Gallino torna di attualità la questione delle riforme di struttura, che per lungo tempo sono state messe in soffitta ipotizzando che il capitalismo della finanza e del profitto di breve periodo fossero l’unica opzione possibile. Ora, con la crisi squadernata davanti a noi, si tratta di tornare a disegnare forme di organizzazione economica maggiormente attente ai bisogni collettivi.


by megachip

27 aprile 2009

Israele, siluro sull'inchiesta Onu

onu

CRIMINI DI GUERRA A GAZA - «Commissione non imparziale», Tel Aviv chiude la porta a Goldstone

Nessuna collaborazione con gli ispettori che indagheranno su Piombo fuso
Tel Aviv non collaborerà con l'inchiesta delle Nazioni Unite sull'operazione «Piombo fuso», l'offensiva delle truppe israeliane che tra il 27 dicembre 2008 e il 18 gennaio 2009 ha causato la morte di oltre 1.417 palestinesi (la maggior parte dei quali civili) nella Striscia di Gaza. «Israele ha informato il Consiglio dei diritti umani dell'Onu che non coopererà con un'indagine basata su una risoluzione non imparziale» ha dichiarato alla France presse un funzionario dello Stato ebraico che ha chiesto di restare anonimo. Hamas al contrario - riferisce il quotidiano Ha'aretz - ha fatto sapere di essere pronta a cooperare con la squadra guidata da Richard Goldstone, il giudice sudafricano (ex procuratore dei tribunali per i crimini di guerra commessi in Ruanda ed Ex Yugoslavia) che guiderà gli investigatori attesi tra qualche settimana nella regione e il cui rapporto al Consiglio è previsto per il luglio prossimo.
La lettera che ufficializza il diniego è stata spedita, attraverso l'ambasciata israeliana a Ginevra, a Goldstone e alla sede dell'Agenzia dell'Onu che si occupa dei diritti umani. Senza la collaborazione da parte delle autorità israeliane, per gli investigatori di Goldstone sarà più difficile raccogliere prove sulle armi utilizzate contro Gaza, su condotte criminali da parte dei soldati e su eventuali ordini che le hanno causate. Già da qualche giorno si era capito che i responsabili dei massacri di Gaza avevano intenzione di mettere il bastone tra le ruote all'iniziativa del Consiglio, di cui fanno parte 47 paesi: «L'indagine non ha alcuna base morale, perché già prima di essere iniziata ha deciso chi è colpevole e di cosa» aveva tagliato corto qualche giorno fa Yigal Palmor, il portavoce del ministero degli esteri.
All'allora governo Olmert proprio non era andata giù la risoluzione, adottata dal Consiglio dei diritti umani il 12 gennaio scorso, che condannava l'offensiva militare e chiedeva la fine dei bombardamenti. Eppure Goldstone, che si era detto «scioccato» per l'incarico affidatogli - a causa della sua collaborazione con istituzioni israeliane (tra cui l'università ebraica di Gerusalemme) - aveva fatto di tutto per non suscitare il sospetto delle autorità israeliane. Mentre il mandato gli chiede d'indagare sulla condotta delle truppe di Tel Aviv nei 22 giorni di attacco a Gaza, il giudice aveva dichiarato di voler prendere in esame tutte le presunte violazioni (anche i lanci di razzi da parte di Hamas) e di voler estendere il raggio temporale dell'inchiesta al periodo precedente l'attacco, per spiegarne il contesto.
Le organizzazioni non governative palestinesi e internazionali - tra cui Amnesty international e Human rights watch - hanno raccolto indizi che accusano l'esercito di aver bombardato aree densamente popolate, utilizzato munizioni al fosforo bianco su zone abitate, impiegato palestinesi come scudi umani, aver effettuato esecuzioni extragiudiziali. Anche Hamas è stata accusata per il lancio di razzi in territorio israeliano e di aver utilizzato scudi umani.
Per le stesse accuse il procuratore della Corte penale internazionale (Icc) Luis Moreno Ocampo sta tuttora valutando se sussiste la possibilità di aprire un'indagine contro Tel Aviv in base alle denunce presentate da decine di ong.
Intanto continua l'opera di sdoganamento di Hamas, considerata «organizzazione terroristica» dalla Comunità internazionale ma con cui sempre più governi iniziano a intavolare trattative. Ieri il leader palestinese Khaled Meshaal, a capo dell'ufficio politico del movimento islamico in esilio, ha incontrato a Damasco una nuova delegazione parlamentare britannica, nel terzo meeting del genere nell'arco di un mese. In un comunicato, Hamas precisa che la delegazione guidata dall'onorevole Roger Godsiff ha incontrato Meshaal e altri rappresentanti di Hamas.

«È una visita che s'inserisce nel quadro degli sforzi europei per aprire canali di dialogo con Hamas al fine di comprendere nel profondo, attraverso un dialogo diretto col movimento, la nostra causa», si legge nel testo. Hamas figura dal 2003 nella lista dell'Unione europea delle organizzazioni terroristiche, eppure Meshaal aveva già incontrato a Damasco nel marzo scorso deputati europei. «I membri della delegazione britannica - prosegue il comunicato - hanno espresso la loro convinzione che nella regione non si può arrivare alla pace senza un dialogo con Hamas che si è conquistato la fiducia del popolo palestinese in modo democratico trasparente».


di Michelangelo Cocco

26 aprile 2009

Si delinea un confronto tra gli Stati Uniti ed Israele

americaisrael-781822
Si sta delineando un notevole confronto tra gli Stati Uniti ed Israele sulle scelte politiche che variano dalla Palestina all’Iran, secondo fonti dello State Department.

Il nuovo governo Likud / Yisrael Beiteinu d'Israele sta portando avanti un'agenda che va contro le politiche che gli Stati Uniti da lunga data stanno riservando al Medio Oriente. Il presidente del partito Yisrael Beiteinu, Avigdor Lieberman, nuovo Ministro degli Esteri israeliano, è considerato da una fonte dello State Department un “fascista est-europeo che pratica il razzismo”.

Le fonti dello State Department ora sono convinte che quello che a Washington è stato chiamato “Israel Lobby” presto si trasformerà in una “Likud / Lieberman Lobby”, ancor più problematica, che spingerà una politica pro-guerra e pro-coloni all'interno del Congresso e dell’Amministrazione di Barack Obama. Questa lobby, nuova e più aggressiva, userà il suo controllo soprattutto attraverso i deputati Steve Israele (Democratico-New York) e Mark Kirk (Repubblicano-Illinois), come anche attraverso il Senatore Charles Schumer (Democratico-New York), per assicurarsi che le nuove politiche d’Israele saranno trasmesse al Capo dello Staff della Casa Bianca, Rahm Emanuel ed al consulente capo di Obama, David Axelrod, e che loro agiranno di conseguenza.

Ci sono, in ogni modo, molti punti di potenziale rottura tra l'amministrazione Obama ed il nuovo governo israeliano, secondo le fonti dello State Department. Uno sarà l’interazione degli Stati Uniti con Hamas, il legittimo governo eletto della Palestina. Il termine del Presidente palestinese Mahmoud Abbas è scaduto ed attualmente il potere legittimo in Palestina appartiene a Hamas. Questo fatto politico significa che gli Stati Uniti hanno nessun’alternativa che parlare direttamente con Hamas.

C'è anche il fatto che Hamas è un partito che favorisce le urne elettorali e non i tradizionali modi medio-orientali di impossessarsi del potere, siano questi principi, generali, figure religiose, o semplici furfanti. Secondo fonti dello State Department, Hamas ha dato una lavata di capo anche agli Hezbollah del Libano, che in passato si erano opposti alla presa di potere attraverso elezioni nel Libano, affinché divenissero generalmente più democratici. Questo cambio si è realizzato, secondo le fonti, con Hezbollah ora completamente impegnato nel processo democratico.

La popolarità di Hamas, specialmente in seguito alla guerra genocida d'Israele contro Gaza, ha agitato i governi dell'Egitto, d’Arabia Saudita e, in minor modo, della Giordania, a causa del suo zelo a guadagnare il potere attraverso elezioni e non attraverso un colpo di stato. Fonti dello State Department dicono che se l'Egitto avesse oneste e democratiche elezioni, la Fratellanza Musulmana (Muslim Brotherhood), che dava vita a Hamas in Palestina, vincerebbe comodamente e la dittatura di Hosni Mubarak avrebbe presto fine. La stessa situazione esiste in Arabia Saudita, dove c’è nervosismo nella famiglia Saud a causa della popolarità di Hamas, che è vista come potenziale minaccia alla Casata dei Saud.

Il personale dello State Department, da osservazioni sul campo, è consapevole che il movimento Fatah di Abbas in Palestina è visto dalla maggioranza dei Palestinesi come corrotto e truffaldino, mentre Hamas è visto come pulito, vigoroso, ed attraente.

Un altro confronto che si mette in evidenza tra gli Stati Uniti e l'Israele riguarda le 200 testate nucleari di Israele. Con gli Stati Uniti occupati in trattative dirette sul nucleare con Iran ed Arabia Saudita, che richiedono un regime internazionale per l’approvvigionamento di combustibile per centrali nucleari, assieme alla tutela che tale tecnologia non può essere convertita per lo sviluppo di armi, c'è anche la probabilità che ci sarà una notevole spinta per creare nel Medio Oriente una zona libera dal nucleare. Se gli Stati Uniti investono in tale piano, vuol dire che l'Israele dovrà smantellare il suo arsenale nucleare. Dato il fatto, che funzionari dello State Department descrivono come “complesso suicida di Masada” d’Israele, tale piano sarà pressoché impossibile da realizzare, dato la svolta corrente d'Israele verso regole più teocratiche e di destra. Una fonte dello State Department lo mise così: "Noi non possiamo indirizzare il programma nucleare iraniano senza indirizzare il programma d’armamento nucleare israeliano."

Funzionari dei Servizi Segreti statunitensi sono anche preparati a smettere di considerare informazioni che arrivano alla CIA ed alle altre agenzie dal Mossad e dalle altre agenzie d’intelligenza israeliane. La nuova squadra che si sta insediando nel Directorate of National Intelligence e nella CIA è acutamente consapevole che gli israeliani hanno, come un membro lo mise, "una lunga storia di disseminazione ingannevole di disinformazione" a funzionari dei Servizi statunitensi, aggiungendo che mentre alcune fonti straniere hanno offerto "cattiva intelligenza distrattamente, Israele è stato intenzionalmente disonesto".

Ufficiali della Difesa statunitense fanno notare che Israele non può attaccare l'Iran senza collusione con gli Stati Uniti, che controllano lo spazio aereo sopra l’Iraq ed il Golfo Persico e qualsiasi aggressione aerea israeliana richiederebbe l’approvazione degli Stati Uniti. Sotto l'amministrazione presente questo scenario è improbabile, come viene riferito a WMR (Wayne Madsen Report).

"L'unico modo di Bibi Netanyahu per attaccare l'Iran è, se lui fosse rassicurato che l'Iran risponderà colpendo forze militari statunitensi nella regione, che costringerebbe gli Stati Uniti ad una risposta militare", disse un funzionario a WMR. Poi aggiunse, "Israele, da solo, non può intraprendere un attacco aereo sostenuto contro l'Iran".

Il Vicepresidente Joe Biden recentemente ha messo in guardia Israele dal condurre qualsiasi azione militare contro l'Iran.

Wayne Madsen

25 aprile 2009

La finanza pigliatutto con i soldi degli altri

Ora che i buoi sono scappati dalla stalla, le librerie sono piene di dotte riflessioni sui danni della finanziarizzazione sull’economia mondiale. Non sono però molti gli analisti che possono rivendicare coerenza di pensiero nella interpretazione dei fatti che hanno condotto alla attuale crisi.
Ronald Dore e Luciano Gallino sono tra quelli che, in tempi non sospetti, mentre prevaleva ancora il pensiero unico del liberismo dominante, avevano lucidamente messo in evidenza le distorsioni che si stavano determinando nella organizzazione delle economie e dei sistemi sociali, per effetto della prevalenza di un modello di capitalismo basato sulla deregolamentazione, sullo smantellamento degli istituti di welfare e sulla dominanza della rendita finanziaria rispetto all’industria.
Proprio per questa ragione, leggere i loro recenti contributi può essere un utile esercizio, non solo per approfondire l’analisi sui fattori fondamentali alla base della crisi economica in corso, ma anche per cercare di capire quale ricetta venga proposta ora da parte di chi, con maggiore credibilità rispetto ad altri, aveva colto i segni di una condizione di insostenibilità nascosta tra le pieghe della globalizzazione a senso unico.
Ronald Dore, nelle sue analisi sui diversi modelli di capitalismo, aveva già da tempo evidenziato le debolezze strutturali del sistema anglosassone, fondato sulla instabilità di meccanismi finanziari fortemente deregolamentati, rispetto al sistema europeo di welfare, proprio negli anni in cui, a cavallo tra il vecchio ed il nuovo secolo, si operava una sistematica demolizione delle reti di protezione sociale che sono state alla base del capitalismo ben temperato, tipico dell’approccio sociale dell’Europa continentale. Tra capitalismo di borsa e capitalismo di welfare, Dore chiedeva di scegliere la seconda opzione, quando invece il pensiero dominante esprimeva la convinzione di una irreversibile deriva verso il modello anglosassone.

Nel suo recente libro ("Finanza pigliatutto", Il Mulino, 2009, 9 euro) Ronald Dore torna su questi temi, partendo da una analisi delle ragioni strutturali che hanno condotto, nei passati decenni, ad una prevalenza della finanza sull’industria. Innanzitutto, occorre sottolineare che le attività finanziarie hanno assicurato, per diversi decenni, un livello di redditività tale da attrarre investimenti e risorse, in un processo di causazione cumulativa che è stato poi alla base della bolla finanziaria, alimentata dalla creazione di prodotti finanziari a rischio così elevato da non poter essere nemmeno dimensionato.
Analizzando la serie storica del reddito nazionale statunitense, Ronald Dore mostra che, fino al 1950, la quota dei profitti delle imprese finanziarie sul totale dei profitti era pari in media al 9,5%. Da allora è cominciata una accelerazione, sino a raggiungere il valore massimo nel 2002 (45%), con una successiva stabilizzazione ed un leggero arretramento negli anni più recenti, dovuto al manifestarsi dei primi segni della crisi finanziaria internazionale.
Si è affermata, nel capitalismo anglosassone prima e poi nel sistema economico internazionale, una cultura azionaria fondata sul profitto di breve periodo, sulla ricerca di opportunità di arricchimento rapido, sulla capacità di cogliere opportunità tattiche di massimizzazione della redditività rispetto a progetti di investimenti industriale a redditività differita. Gli stessi governi hanno promosso questa tendenza verso una apparente democratizzazione dell’azionariato, nella convinzione che un’offerta abbondante di capitale azionario avrebbe promosso l’innovazione e quindi la competitività. Nelle scelte delle imprese hanno cominciato a contare in modo decisivo le pressioni degli investitori istituzionali, che muovevano masse enormi di capitali alla continua ricerca della migliore redditività, schiacciando la prospettiva temporale del profitto atteso, sino a far governare in modo indiscusso il rendiconto trimestrale rispetto persino al bilancio annuale dell’impresa.

Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca la riflessione di Luciano Gallino, in "Con i soldi degli altri", (Einaudi, 2009, euro 17). I dati del processo di finanziarizzazione sono impressionanti: alla fine del 2007 il Pil del mondo ha superato i 54 trilioni di dollari, mentre la capitalizzazione delle borse mondiali ammontava a 61 trilioni e le obbligazioni pubbliche e private superavano i 60 trilioni. A giugno del 2008 il valore nominale della quota di derivati trattati nelle borse toccavano gli 80 trilioni di dollari, mentre quelli scambiati fuori mercato sfiorava i 684 trilioni: la somma dei derivati era quindi complessivamente pari a 764 trilioni di dollari, pari a 14 volte il Pil del mondo.
Il gioco della finanziarizzazione ha tracimato verso l’economia reale, influenzando le strategie delle imprese in modo decisivo e spostando la struttura dei risparmi degli individui verso scelte fortemente rischiose, spesso senza informare correttamente i cittadini sulle conseguenze di questi cambiamenti nelle strategie di portafoglio. I piani pensionistici sono passati su larga scala da schemi a beneficio definito a piani a contributo definito: mentre nel primo caso il contribuente sa di poter contare su un valore certo del proprio corrispettivo pensionistico, nel secondo tutto dipende dalla volatilità dei rendimenti assicurati dai fondi pensione.
Si è innescata in questo modo una ulteriore spirale perversa di avvitamento che oggi incide fortemente sulla crisi delle imprese industriali. Basti citare il caso della General Motors, la quale si è trovata nel 2009 ad avere solo 85.000 occupati negli Stati Uniti, mentre ai suoi fondi pensione fanno capo un milione di ex-dipendenti. Nel 1962 la GM aveva 460.000 dipendenti, la maggior parte in Usa, ed appena 40.000 pensionati. Nella previdenza privata di stampo anglosassone, l’incrocio tra squilibrio strutturale di dipendenti attivi e numero dei pensionati, unito alla volatilità al ribasso dei rendimenti delle attività finanziarie costituisce una mina vagante i cui effetti non sono ancora pienamente dispiegati.
Mentre cambiava radicalmente la struttura dei mercati finanziari, non si sono introdotte regole adeguate a fronteggiare con disciplina le trasformazioni intervenute. E oggi le banconote e le monete costituiscono solo il 3% del denaro circolante, mentre il restante 97% è interamente simbolico, a cominciare da quello depositato nei conti correnti o sui libretti di risparmio. Siamo in presenza di una mutazione genetica del sistema bancario in assenza di un tessuto di norme a protezione degli altissimi rischi che sono stati assunti in nome solo del profitto di brevissimo periodo. Scrive Gallino: “La funzione originaria del sistema bancario stava nel prendere in prestito da molti clienti piccole somme a un dato tasso di interesse, al fine di prestare grosse somme a pochi a un tasso di interesse più alto – contando sul fatto che è improbabile che i molti accorrano tutti assieme, nello stesso momento, a ritirare i loro depositi. Da tempo, per vari aspetti, tale funzione è caduta in secondo piano a fronte della possibilità assai più lucrosa di trasformare i prestiti in titoli commerciabili”.
Luciano Gallino propone una ricetta che consiste nell’indirizzare i capitali nelle mani degli investitori istituzionali verso investimenti socialmente responsabili, ed innanzitutto nella produzione di beni pubblici, a cominciare da infrastrutture di vario genere, dalle scuole ai trasporti. Inoltre, dovrebbero essere privilegiati investimenti produttivi a lungo termine, impiegando in questo modo ingenti risorse per migliorare la condizione del lavoro nel mondo, per farla uscire progressivamente dal percorso di mercificazione e di precarizzazione che ha caratterizzato la storia del lavoro negli ultimi decenni.
Insomma, dalle analisi di Ronald Dore e di Luciano Gallino torna di attualità la questione delle riforme di struttura, che per lungo tempo sono state messe in soffitta ipotizzando che il capitalismo della finanza e del profitto di breve periodo fossero l’unica opzione possibile. Ora, con la crisi squadernata davanti a noi, si tratta di tornare a disegnare forme di organizzazione economica maggiormente attente ai bisogni collettivi.


by megachip