09 luglio 2009

Il G8 e la vera alternativa

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Non vogliamo neanche sapere quanti quattrini pubblici saranno buttati per coprire le spese del G8, ennesima inutile parata di governi che non governano nulla salvo queste messinscene. Sono riunioni che servono solo a illudere l'opinione pubblica che stabilire le sorti del pianeta siano i politici, eletti dal popolo, chi più chi meno, con la truffa "democratica". E a noi, a dirla tutta, non interessa neanche granchè degli sprechi in quanto tali, quanto dell'inganno per il quale è vietato dire che tutti i piani e gli annunci di questi summit restano regolarmente lettera morta, perchè il vero potere ce l'hanno banche centrali, Fmi, Wto, multinazionali e tutta la fairy band della speculazione internazionale. Sennonchè quel campione del vittimismo "chiagne e fotte", il premier Silvio Berlusconi, ha scelto la martoriata Aquila, ancora fumante di macerie e disperazione, per far sfoggio di buoni sentimenti e criminalizzare a priori la protesta dei cosiddetti no-global che puntuale accompagna ogni G8.
Cosiddetti, certo: perchè la marea "alternativa", la costellazione di Porto Alegre, tutti quei movimenti e gruppi che aspirano ad una globalizzazione "diversa" ("un altro mondo è possibile", è il loro slogan) non sono affatto no-global. Non sono contrari alla globalizzazione in sè. Si accontenterebbero che fosse un'altra, liberata dal neoliberismo, dalle disuguaglianze economiche e dallo sviluppo insostenibile, che per loro potrebbe benissimo diventare sostenibile se corretto e riformato secondo superate ricette di sinistra (in pratica la redistribuzione di risorse dal Nord al Sud, perpetuando così l'invasione economica e culturale dell'Occidente in Africa, Asia e America Latina).
Per noi è in sè e per sè un delitto contro l'umanità l'omologazione di ogni angolo della Terra al nostro modello di produzione e consumo, ai nostri stili di vita e al nostro immaginario sociale. Punto e a capo. Ed è da questo misconoscimento di fondo che deriva il fallimento conclamato della galassia no-global, che usurpa tale etichetta spacciandosi per ciò che non è. Noi non ci uniamo alla solita marcetta claudicante di finti avversari del mostro globale. La maggior parte dei quali, intendiamoci, quando scandisce le parole d'ordine contro la congrega dei privilegiati è in perfetta buona fede. Ma sbaglia clamorosamente bersaglio. E lo sbaglia perchè è priva di un'analisi aggiornata e perspicace, aderente ad una realtà che non si lascia spiegare nei termini del classico terzomondismo.
In parole semplici, non è ai presidenti e primi ministri delle otto grandi potenze mondiali che si deve chiedere il conto della fame che attanaglia intere popolazioni, della miserie delle bidonvilles africane, delle discariche di rifiuti occidentali disseminate nei paesi del Sud del globo. I responsabili siamo noi, consumatori di questo modo di vivere da infelici maiali, che quando produciamo all'impazzata per tenere in piedi il baraccone industriale e quando diamo credito (la famosa "fiducia") al sistema finanziario, ci macchiamo, noi per primi, della colpa di distruggere mezzo mondo. E coloro che vorrebbero che il nostro presunto benessere materiale fosse esteso al mondo tutto, intero, senza eccezioni, cioè i diversamente global (chiamiamoli così, è più esatto), non fanno altro che sorreggere dall'altra parte la macchina livellatrice dello sviluppo. E spiace sentire che anche Ratzinger, questo papa per altri versi apprezzabile, si accodi alla schiera "riformista" sostenendo che bisogna "convertire il modello di sviluppo globale, rendendolo capace di promuovere uno sviluppo umano integrale".
L'alternativa reale c'è. E' il localismo, puro e schietto. E' riportare la misura dell'esistenza dei popoli al più piccolo grado di prossimità con le comunità che si auto-riconoscono come tali. Una misura variabile, libera, che si differenzia di volta in volta a seconda della consapevolezza di ciascun gruppo di uomini di vedersi accomunati da un destino collettivo. Perciò declinabile in forme differenti: tribali dove ancora esiste il senso di tribù, o nazionali, o bioregionali, o politico-civiche. Il come andrebbe lasciato alla storia e alla decisione di ogni specifico contesto, senza preclusioni ideologiche, nostalgismi premoderni o aspirazioni che non tengano in debito conto gli ultimi cento o duecento anni di cambiamenti, per quanto devastanti essi siano stati.
Per l'Italia, il pensiero di chi scrive va alla scrostazione della posticcia maschera di "Stato nazionale" uscita dal Risorgimento e alla riemersione delle feconde peculiarità comunali, o regionali, o isolane, o addirittura valligiane, caso per caso, in base a tradizioni, dialetti, senso di appartenenza ma anche, elemento decisivo, la presenza di un interesse territoriale comune qui e ora, in questo frangente storico. Il tutto modulabile secondo la necessità di far fronte all'oggi, su su fino ad una Grande Europa che faccia da cappello protettivo. Detto con un esempio: il mio Veneto, terra di antichi costumi municipali ben amministrati dalla liberalità del Leone di Venezia, una piccola patria all'interno di un'Italia confederata, neo-rinascimentale (senza più l'eterna conflittualità del Quattro-Cinquecento, si capisce), a sua volta inserita in un'Unione Europea dei popoli, indipendente dall'alleanza-capestro con gli Stati Uniti e svincolata dalla dittatura dell'euro. Un sogno, è chiaro. Ma la vita non è vita, senza sogni.


di Alessio Mannino

08 luglio 2009

Il G8 non dà niente



A parere di molti analisti ed esperti di politica internazionale il G8 è ormai un evento senza senso che aderisce ad una formula del tutto vacua e ineffettuale. Touchè!

Quello che inizierà domani all’Aquila non andrà molto lontano da queste prospettive poco confortanti ma fatali, data l’epoca storica nella quale stiamo per affacciarci.

Al centro delle discussioni tra gli 8 Grandi della Terra ci sarà certamente la crisi finanziaria (e industriale), si dice la peggiore dal dopoguerra, più altri temi di contorno quali l’ambiente, la sicurezza alimentare ecc. ecc. che finiranno per catturare l’attenzione della pubblica opinione e quella degli avvoltoi della stampa, i quali potranno speculare sulle oneste intenzioni del vertice per vendere più copie di carta straccia.

Lucio Caracciolo, sull’Espresso, ha sostenuto una tesi cristallina secondo la quale buona parte dell’agenda viene a concentrarsi su temi “artificiali” e modaioli (al quale si aggiunge l’immancabile tentativo per fare uscire l’Africa dal suo sottosviluppo) solo perché così i partecipanti possono meglio aggirare gi interessi centrali (quelli geopolitici) che non si discutono a tavolino ma si fanno valere attraverso azioni e strategie di ben altro tipo.
Dall’incontro dell’Aquila verranno fuori i soliti documenti di una stucchevole armonia d’intenti e si faranno proclami altisonanti sugli accordi raggiunti, si dichiarerà di aver disegnato la cornice virtuosa nella quale troveranno collocazione regole nuove per dare prosperità a tutti, al solo scopo di dimostrare al mondo che con la pace e la buona volontà si ottiene tutto. Dal giorno dopo però, caduti i lustrini, smontate le passerelle mediatiche e spenti i riflettori, ciascuno tornerà a fare di testa propria. Cioè si tornerà al più prosaico bellum omnium contra omnes.

Tuttavia, non è questo che deve destare preoccupazione. Anzi, è del tutto logico che ogni Stato ricerchi la propria via d’uscita alla crisi in maniera autonoma, considerato che sono stati proprio i legami strettissimi tra le varie economie, nella fase della globalizzazione (cioè della massima estensione del modello americano sull’economia e sulla politica mondiale) a trascinare ognuno nelle attuali difficoltà.
La stessa composizione di questo G8 è vetusta e inadeguata, considerando lo spostamento e la ridefinizione dei rapporti di forza che stanno portando in primo piano quelle nazioni in forte recupero di potenza, vedi la Cina o l’India, tuttavia ancora escluse dal consesso dei grandi.
Anche la Russia, ultima arrivata, non ammette più di giocare un ruolo marginale dopo essersi ripresa dal declino dei primi anni ’90. E , soprattutto, non è più disposta ad incassare i colpi sferrati dall’America e dall’Europa restando a guardare.

Tanto per fare un esempio, valutando il solo profilo economico e demografico, i big che si incontreranno nel capoluogo abruzzese rappresentano poco più del 50% del PIL mondiale ed appena il 13% della popolazione.
Abbiamo già detto che l’origine del disastro economico non è da ricercarsi nel lassismo dei mercati e nelle innumerevoli speculazioni che hanno fatto saltare le regole delle borse. Questi elementi rappresentano gli effetti superficiali di uno scontro tra zolle, consequenziali a “scivolamenti” politici ben più sostanziali.
A fortiori, la soluzione a questi problemi non può arrivare da quella formuletta apotropaica che passa, con tanta solennità di bocca in bocca, tra gli sherpa delle delegazioni nazionali: il ripristino di una governance mondiale.

Ma è proprio tale governance, che poi significa guida indiscussa di un solo paese, che non sarà più possibile attivare, stando al nuovo contesto geopolitico. Il mondo è cambiato, gli Usa stanno perdendo appeal ed egemonia e per questo si faranno via via più aggressivi.
Lo attestano l’intensificarsi dello scontro in Afghanistan, le provocazioni ai danni dell’Iran,
quelle in America Latina e le solite ingerenze in Africa, dove c’è pure il problema di una Cina che si fa troppo penetrante nella sua azione commerciale e industriale.

L’attuale multipolarismo potrà sfociare in vero e proprio policentrismo solo allorquando Russia
e Cina (e forse anche l’India, che però attualmente sembra più vicina a Washington), le uniche potenze con aspirazioni mondiali, troveranno tra loro punti di maggiore convergenza in funzione antiegemonica (cioè antistatunitense), attirando nella propria orbita, quelle potenze regionali che gli Usa mirano, invece, a rendere sempre più instabili proprio per impedire sedimentazioni politiche ad essi sfavorevoli.

Mentre l’Europa, sempre più vaso d’argilla tra vasi di ferro, potrebbe impantanarsi nella disputa interna per la leadership sull’UE di Francia e Germania, peraltro entrambe sempre più a rimorchio di Washington.

Queste sono le vere questioni del futuro; non potranno mai essere materia di nessun vertice.

di Gianni Petrosillo

L'audience ha più peso del voto. L'élite e il potere

N el 1963 ho scritto il libro «L'élite senza potere», in cui sostenevo che, mentre nel mondo antico c'era una sola élite, quella del potere, formata dal re, la nobiltà e l'alto clero che, con la sua pompa e la sua magnificenza, ve­niva ammirata e costituiva un modello per tutti, oggi invece ve ne sono due. La seconda è formata dai divi, da star in­ternazionali, dai personaggi dello spet­tacolo noti a tutti, amati, ammirati e imitati e che costituiscono l'oggetto del pettegolezzo collettivo nelle società di massa. Questa élite interessa per la sua vita privata, i suoi amori, i suoi di­vorzi e offre a tutti modelli di comporta­mento. E, pur non avendo un potere for­male, ha un immenso peso sulla mora­le e sul costume. Quando scrivevo già si vedeva l'enorme influenza di Elvis Presley. Negli anni successivi arrive­ranno Joan Baez, i Beatles, gli hippy. Sono loro che mettono in moto la rivolu­zione giovanile, quella sessuale e crea­no le condizioni per il femminismo.

Cos'è cambiato da allora? I sociologi ci hanno detto che sono incominciati il postmoderno, il relativismo culturale, il neopaganesimo, che la società si è frantumata in tribù, è diventata liqui­da. E pare strano che nessuno di loro abbia notato il fatto più semplice ed ele­mentare: che quella che avevo chiama­to l'élite senza potere oggi in realtà ha preso il potere su tutti i mezzi di comu­nicazione di massa. Oggi è lei che pla­sma ufficialmente l'opinione pubblica e la morale corrente. Non sono più le uni­versità, i filosofi, il clero a dare modelli di comportamento. Il popolo se li fa da sé guardando e discutendo ciò che vede alla televisione. Ma a decidere chi arri­verà sullo schermo e prenderà la paro­la è una élite formata dai grandi con­duttori, divi, cineasti, cantanti, giorna­listi, comici che si cooptano fra di loro. Essi si presentano come modelli da imi­tare, poi giudicano, danno consigli, lan­ciano slogan, animano e dirigono i di­battiti. Il tutto poi viene ripreso dai quotidiani, dai settimanali e da inter­net.

Non esistono perciò più una élite del potere ed una élite senza potere, ma due élite del potere: quella politica e quella dello spettacolo. La prima si for­ma attraverso il dibattito politico e le elezioni, la seconda attraverso la coop­tazione e l'audience. Inoltre le due sfe­re della politica e dello spettacolo spes­so si sovrappongono e, nel campo del costume e dei valori, l'élite dello spetta­colo tende a prevalere su quella politi­ca. L'audience ha più peso del voto.

di Francesco Alberoni

09 luglio 2009

Il G8 e la vera alternativa

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Non vogliamo neanche sapere quanti quattrini pubblici saranno buttati per coprire le spese del G8, ennesima inutile parata di governi che non governano nulla salvo queste messinscene. Sono riunioni che servono solo a illudere l'opinione pubblica che stabilire le sorti del pianeta siano i politici, eletti dal popolo, chi più chi meno, con la truffa "democratica". E a noi, a dirla tutta, non interessa neanche granchè degli sprechi in quanto tali, quanto dell'inganno per il quale è vietato dire che tutti i piani e gli annunci di questi summit restano regolarmente lettera morta, perchè il vero potere ce l'hanno banche centrali, Fmi, Wto, multinazionali e tutta la fairy band della speculazione internazionale. Sennonchè quel campione del vittimismo "chiagne e fotte", il premier Silvio Berlusconi, ha scelto la martoriata Aquila, ancora fumante di macerie e disperazione, per far sfoggio di buoni sentimenti e criminalizzare a priori la protesta dei cosiddetti no-global che puntuale accompagna ogni G8.
Cosiddetti, certo: perchè la marea "alternativa", la costellazione di Porto Alegre, tutti quei movimenti e gruppi che aspirano ad una globalizzazione "diversa" ("un altro mondo è possibile", è il loro slogan) non sono affatto no-global. Non sono contrari alla globalizzazione in sè. Si accontenterebbero che fosse un'altra, liberata dal neoliberismo, dalle disuguaglianze economiche e dallo sviluppo insostenibile, che per loro potrebbe benissimo diventare sostenibile se corretto e riformato secondo superate ricette di sinistra (in pratica la redistribuzione di risorse dal Nord al Sud, perpetuando così l'invasione economica e culturale dell'Occidente in Africa, Asia e America Latina).
Per noi è in sè e per sè un delitto contro l'umanità l'omologazione di ogni angolo della Terra al nostro modello di produzione e consumo, ai nostri stili di vita e al nostro immaginario sociale. Punto e a capo. Ed è da questo misconoscimento di fondo che deriva il fallimento conclamato della galassia no-global, che usurpa tale etichetta spacciandosi per ciò che non è. Noi non ci uniamo alla solita marcetta claudicante di finti avversari del mostro globale. La maggior parte dei quali, intendiamoci, quando scandisce le parole d'ordine contro la congrega dei privilegiati è in perfetta buona fede. Ma sbaglia clamorosamente bersaglio. E lo sbaglia perchè è priva di un'analisi aggiornata e perspicace, aderente ad una realtà che non si lascia spiegare nei termini del classico terzomondismo.
In parole semplici, non è ai presidenti e primi ministri delle otto grandi potenze mondiali che si deve chiedere il conto della fame che attanaglia intere popolazioni, della miserie delle bidonvilles africane, delle discariche di rifiuti occidentali disseminate nei paesi del Sud del globo. I responsabili siamo noi, consumatori di questo modo di vivere da infelici maiali, che quando produciamo all'impazzata per tenere in piedi il baraccone industriale e quando diamo credito (la famosa "fiducia") al sistema finanziario, ci macchiamo, noi per primi, della colpa di distruggere mezzo mondo. E coloro che vorrebbero che il nostro presunto benessere materiale fosse esteso al mondo tutto, intero, senza eccezioni, cioè i diversamente global (chiamiamoli così, è più esatto), non fanno altro che sorreggere dall'altra parte la macchina livellatrice dello sviluppo. E spiace sentire che anche Ratzinger, questo papa per altri versi apprezzabile, si accodi alla schiera "riformista" sostenendo che bisogna "convertire il modello di sviluppo globale, rendendolo capace di promuovere uno sviluppo umano integrale".
L'alternativa reale c'è. E' il localismo, puro e schietto. E' riportare la misura dell'esistenza dei popoli al più piccolo grado di prossimità con le comunità che si auto-riconoscono come tali. Una misura variabile, libera, che si differenzia di volta in volta a seconda della consapevolezza di ciascun gruppo di uomini di vedersi accomunati da un destino collettivo. Perciò declinabile in forme differenti: tribali dove ancora esiste il senso di tribù, o nazionali, o bioregionali, o politico-civiche. Il come andrebbe lasciato alla storia e alla decisione di ogni specifico contesto, senza preclusioni ideologiche, nostalgismi premoderni o aspirazioni che non tengano in debito conto gli ultimi cento o duecento anni di cambiamenti, per quanto devastanti essi siano stati.
Per l'Italia, il pensiero di chi scrive va alla scrostazione della posticcia maschera di "Stato nazionale" uscita dal Risorgimento e alla riemersione delle feconde peculiarità comunali, o regionali, o isolane, o addirittura valligiane, caso per caso, in base a tradizioni, dialetti, senso di appartenenza ma anche, elemento decisivo, la presenza di un interesse territoriale comune qui e ora, in questo frangente storico. Il tutto modulabile secondo la necessità di far fronte all'oggi, su su fino ad una Grande Europa che faccia da cappello protettivo. Detto con un esempio: il mio Veneto, terra di antichi costumi municipali ben amministrati dalla liberalità del Leone di Venezia, una piccola patria all'interno di un'Italia confederata, neo-rinascimentale (senza più l'eterna conflittualità del Quattro-Cinquecento, si capisce), a sua volta inserita in un'Unione Europea dei popoli, indipendente dall'alleanza-capestro con gli Stati Uniti e svincolata dalla dittatura dell'euro. Un sogno, è chiaro. Ma la vita non è vita, senza sogni.


di Alessio Mannino

08 luglio 2009

Il G8 non dà niente



A parere di molti analisti ed esperti di politica internazionale il G8 è ormai un evento senza senso che aderisce ad una formula del tutto vacua e ineffettuale. Touchè!

Quello che inizierà domani all’Aquila non andrà molto lontano da queste prospettive poco confortanti ma fatali, data l’epoca storica nella quale stiamo per affacciarci.

Al centro delle discussioni tra gli 8 Grandi della Terra ci sarà certamente la crisi finanziaria (e industriale), si dice la peggiore dal dopoguerra, più altri temi di contorno quali l’ambiente, la sicurezza alimentare ecc. ecc. che finiranno per catturare l’attenzione della pubblica opinione e quella degli avvoltoi della stampa, i quali potranno speculare sulle oneste intenzioni del vertice per vendere più copie di carta straccia.

Lucio Caracciolo, sull’Espresso, ha sostenuto una tesi cristallina secondo la quale buona parte dell’agenda viene a concentrarsi su temi “artificiali” e modaioli (al quale si aggiunge l’immancabile tentativo per fare uscire l’Africa dal suo sottosviluppo) solo perché così i partecipanti possono meglio aggirare gi interessi centrali (quelli geopolitici) che non si discutono a tavolino ma si fanno valere attraverso azioni e strategie di ben altro tipo.
Dall’incontro dell’Aquila verranno fuori i soliti documenti di una stucchevole armonia d’intenti e si faranno proclami altisonanti sugli accordi raggiunti, si dichiarerà di aver disegnato la cornice virtuosa nella quale troveranno collocazione regole nuove per dare prosperità a tutti, al solo scopo di dimostrare al mondo che con la pace e la buona volontà si ottiene tutto. Dal giorno dopo però, caduti i lustrini, smontate le passerelle mediatiche e spenti i riflettori, ciascuno tornerà a fare di testa propria. Cioè si tornerà al più prosaico bellum omnium contra omnes.

Tuttavia, non è questo che deve destare preoccupazione. Anzi, è del tutto logico che ogni Stato ricerchi la propria via d’uscita alla crisi in maniera autonoma, considerato che sono stati proprio i legami strettissimi tra le varie economie, nella fase della globalizzazione (cioè della massima estensione del modello americano sull’economia e sulla politica mondiale) a trascinare ognuno nelle attuali difficoltà.
La stessa composizione di questo G8 è vetusta e inadeguata, considerando lo spostamento e la ridefinizione dei rapporti di forza che stanno portando in primo piano quelle nazioni in forte recupero di potenza, vedi la Cina o l’India, tuttavia ancora escluse dal consesso dei grandi.
Anche la Russia, ultima arrivata, non ammette più di giocare un ruolo marginale dopo essersi ripresa dal declino dei primi anni ’90. E , soprattutto, non è più disposta ad incassare i colpi sferrati dall’America e dall’Europa restando a guardare.

Tanto per fare un esempio, valutando il solo profilo economico e demografico, i big che si incontreranno nel capoluogo abruzzese rappresentano poco più del 50% del PIL mondiale ed appena il 13% della popolazione.
Abbiamo già detto che l’origine del disastro economico non è da ricercarsi nel lassismo dei mercati e nelle innumerevoli speculazioni che hanno fatto saltare le regole delle borse. Questi elementi rappresentano gli effetti superficiali di uno scontro tra zolle, consequenziali a “scivolamenti” politici ben più sostanziali.
A fortiori, la soluzione a questi problemi non può arrivare da quella formuletta apotropaica che passa, con tanta solennità di bocca in bocca, tra gli sherpa delle delegazioni nazionali: il ripristino di una governance mondiale.

Ma è proprio tale governance, che poi significa guida indiscussa di un solo paese, che non sarà più possibile attivare, stando al nuovo contesto geopolitico. Il mondo è cambiato, gli Usa stanno perdendo appeal ed egemonia e per questo si faranno via via più aggressivi.
Lo attestano l’intensificarsi dello scontro in Afghanistan, le provocazioni ai danni dell’Iran,
quelle in America Latina e le solite ingerenze in Africa, dove c’è pure il problema di una Cina che si fa troppo penetrante nella sua azione commerciale e industriale.

L’attuale multipolarismo potrà sfociare in vero e proprio policentrismo solo allorquando Russia
e Cina (e forse anche l’India, che però attualmente sembra più vicina a Washington), le uniche potenze con aspirazioni mondiali, troveranno tra loro punti di maggiore convergenza in funzione antiegemonica (cioè antistatunitense), attirando nella propria orbita, quelle potenze regionali che gli Usa mirano, invece, a rendere sempre più instabili proprio per impedire sedimentazioni politiche ad essi sfavorevoli.

Mentre l’Europa, sempre più vaso d’argilla tra vasi di ferro, potrebbe impantanarsi nella disputa interna per la leadership sull’UE di Francia e Germania, peraltro entrambe sempre più a rimorchio di Washington.

Queste sono le vere questioni del futuro; non potranno mai essere materia di nessun vertice.

di Gianni Petrosillo

L'audience ha più peso del voto. L'élite e il potere

N el 1963 ho scritto il libro «L'élite senza potere», in cui sostenevo che, mentre nel mondo antico c'era una sola élite, quella del potere, formata dal re, la nobiltà e l'alto clero che, con la sua pompa e la sua magnificenza, ve­niva ammirata e costituiva un modello per tutti, oggi invece ve ne sono due. La seconda è formata dai divi, da star in­ternazionali, dai personaggi dello spet­tacolo noti a tutti, amati, ammirati e imitati e che costituiscono l'oggetto del pettegolezzo collettivo nelle società di massa. Questa élite interessa per la sua vita privata, i suoi amori, i suoi di­vorzi e offre a tutti modelli di comporta­mento. E, pur non avendo un potere for­male, ha un immenso peso sulla mora­le e sul costume. Quando scrivevo già si vedeva l'enorme influenza di Elvis Presley. Negli anni successivi arrive­ranno Joan Baez, i Beatles, gli hippy. Sono loro che mettono in moto la rivolu­zione giovanile, quella sessuale e crea­no le condizioni per il femminismo.

Cos'è cambiato da allora? I sociologi ci hanno detto che sono incominciati il postmoderno, il relativismo culturale, il neopaganesimo, che la società si è frantumata in tribù, è diventata liqui­da. E pare strano che nessuno di loro abbia notato il fatto più semplice ed ele­mentare: che quella che avevo chiama­to l'élite senza potere oggi in realtà ha preso il potere su tutti i mezzi di comu­nicazione di massa. Oggi è lei che pla­sma ufficialmente l'opinione pubblica e la morale corrente. Non sono più le uni­versità, i filosofi, il clero a dare modelli di comportamento. Il popolo se li fa da sé guardando e discutendo ciò che vede alla televisione. Ma a decidere chi arri­verà sullo schermo e prenderà la paro­la è una élite formata dai grandi con­duttori, divi, cineasti, cantanti, giorna­listi, comici che si cooptano fra di loro. Essi si presentano come modelli da imi­tare, poi giudicano, danno consigli, lan­ciano slogan, animano e dirigono i di­battiti. Il tutto poi viene ripreso dai quotidiani, dai settimanali e da inter­net.

Non esistono perciò più una élite del potere ed una élite senza potere, ma due élite del potere: quella politica e quella dello spettacolo. La prima si for­ma attraverso il dibattito politico e le elezioni, la seconda attraverso la coop­tazione e l'audience. Inoltre le due sfe­re della politica e dello spettacolo spes­so si sovrappongono e, nel campo del costume e dei valori, l'élite dello spetta­colo tende a prevalere su quella politi­ca. L'audience ha più peso del voto.

di Francesco Alberoni