22 dicembre 2010

Senza il legame con i morti la nostra vita non è che un’assurda corsa nel vuoto









Chi siamo o cosa siamo noi, se viene a cadere il legame che ci tiene uniti ai nostri morti, a coloro che ci hanno preceduto sulle strade della vita?
Non è affatto una domanda oziosa o superflua: è una domanda centrale; è LA domanda, dalla cui risposta tutto il resto dipende.
Tanto per cominciare, l’espressione “i morti” è estremamente impropria e fuorviante: come se noi, che siamo vivi, ci trovassimo nella dimensione “vera” dell’esistenza, perché attuale, tangibile, dimostrabile; mentre loro, essendo stati vivi un tempo, ma non essendolo più, godessero ora di uno statuto ontologico di serie B rispetto al nostro.
È vero, semmai, il contrario.
Chi è vivo, lo è per una manciata di anni; chi ha già terminato la propria vita, appartiene all’eternità - come vi apparteneva, del resto, prima di nascere, anzi, prima di venir concepito - e perciò è lo statuto ontologico dei vivi ad essere friabile, fuggevole, illusorio.
Noi passiamo, loro rimangono: questa è la realtà.
Noi siamo qui, adesso; ma questo “adesso” si consuma rapidamente; e, quando non ne resterà più nulla, spariremo da questa dimensione, così silenziosamente come vi siamo entrati: inquilini temporanei di un mondo che non è nostro, che ci ospita solamente.
Soltanto un materialismo tanto rozzo quanto poco intelligente potrebbe sopravvalutare la nostra condizione rispetto alla loro.
Un poco alla volta, chi prima e chi dopo, tutti scivoliamo in quell’altra condizione, entrando nel numero di quelli che “furono”: perciò, mentre questi ultimi crescono senza posa, noi, senza posa, ci andiamo assottigliando.
Finché siamo bambini, finché siamo giovani, vediamo tutto intorno delle persone che se ne andranno ben prima di noi; poi, mano a mano che cresciamo, cominciano ad andarsene anche quelli che erano bambini e ragazzi quando noi eravamo appena nati, o piccolissimi; da ultimo, divenuti anziani, ci guarderemo intorno e vedremo, forse con raccapriccio, che, intorno a noi, non è rimasto nessuno di quanti hanno accompagnato la nostra vita, ma sono subentrate solamente facce nuove, persone più giovani. Anche queste ultime destinate a finire come gli altri, ma un poco più tardi e, quindi, come se appartenessero ad un altro mondo: saranno ancora vive, infatti, quando noi chiuderemo gli occhi per sempre.
Noi siamo come i fiumi che corrono verso il mare: non possiamo pretendere di essere noi soli la “vera” acqua; il nostro destino, il nostro scopo, la nostra ragion d’essere sono quelli di raggiungere il mare, a paragone del quale siamo ben piccola cosa.
Ciò non significa che siamo fatti per la morte, se con quest’ultima espressione si vuole intendere il contrario della vita, la privazione radicale dell’esistenza.
La morte non è il contrario della vita, nemmeno sul piano strettamente logico: la morte è uno stato dell’essere, il modo in cui l’essere si spegne; la vita, invece, è un processo. Si tratta di due cose differenti, non di due cose opposte: la morte non è la negazione della vita, ma il suo naturale compimento.
La negazione e il contrario della vita, semmai, consistono nella non vita, ossia nel rifiuto dell’apertura verso la vita, nel “no” al suo incessante rinnovarsi.
La morte, inoltre, non è la “nemica” della vita, ma il suo atto conclusivo e disvelatore: grazie ad essa, la vita acquista la pienezza del proprio significato; senza di essa, la vita diventerebbe una assurda, monotona ripetizione, senza scopo e senza significato.
E tuttavia, noi siamo fatti per la vita.
Siamo fatti per la vita, per la gioia, per l’amore: altrimenti non saremmo qui, non esisteremmo; perché la vita nasce dall’amore, da un atto di amore.
Si tratta, perciò, di guardare più da vicino la misteriosa soglia che chiamiamo “morte”, cosa da cui la cultura moderna si ritrae con un fremito di spavento e che aborrisce con tutta se stessa.
La cultura moderna è basata sull’idea del Progresso, del continuo, incessante andare avanti: non è strano che la morte le appaia come lo scacco supremo, perché sembra arrestare la marcia degli uomini verso la “felicità”.
La cultura moderna odia la morte, “per fatto personale”, come si usa dire: per essa, la morte è la beffa suprema, la negazione di tutto il suo credo.
Non la pensava così il mondo pre-moderno , per il quale la morte non era né una beffa né una negazione, ma una porta spalancata sull’infinito e, quindi, la via di accesso alla piena realizzazione del nostro vero essere.
Come dice San Francesco nel «Cantico delle creature»:

«Laudato si’ mi Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu homo vivente po’ skappare:
gauai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ‘l farrà male.»

Dunque, per l’uomo medievale il problema non è la morte, ma lo stato dell’anima allorché la morte viene; non è la morte che deve far paura, ma la prospettiva di essere da lei sorpresi in uno stato di lontananza da Dio, cioè dalla sua legge e dal suo progetto nei nostri confronti.
L’uomo medievale, come in genere l’uomo pre-moderno, sapeva perché si vive e sapeva perché si muore: si vive per rispondere alla chiamata divina, per armonizzare la propria volontà con quella del Creatore; si muore per entrare nella dimensione del permanente e per ricevere gli effetti delle proprie azioni e delle proprie scelte.
Non vi è posto per il caso, ma solo per un disegno armonioso e necessario, cui gli uomini sono chiamati a partecipare in piena libertà.
In questo senso, per la persona di fede, la morte non è la “fine”, ma il “compimento” della vita: e il defunto, lungi dall’essere divenuto una entità umbratile ed evanescente, è, propriamente parlando, colui che è divenuto “perfetto”, ossia che ha raggiunto il traguardo supremo e lo scopo ultimo per il quale è stato chiamato all’esistenza.
Una grande mistica francese, Marthe Robin, della quale altra volta abbiamo parlato (cfr. il nostro articolo «Che cos’è la natura umana quando viene ridotta all’essenziale», consultabile sul sito di Edicolaweb) soleva dire, di una persona morta (e possiamo immaginare il sorriso dolcissimo con il quale accompagnava le proprie parole), che «allora essa è compiuta».
Dovremmo smetterla, pertanto, di parlare dei “nostri poveri morti”, come se la loro condizione fosse da compiangere, rispetto alla nostra; come se loro avessero perduto un bene che noi, al contrario, possediamo e teniamo ben stretto fra le mani.
Essi non sono da compiangere o da commiserare; lo siamo noi, semmai, per le miserie e le debolezze che segnano tutto il nostro cammino terreno e che possono ridurre in condizioni pietose, fisicamente o spiritualmente, anche il più grande dei mortali.
Ciò chiarito, torniamo alla nostra domanda iniziale e proviamo a risponderle: chi siamo o cosa siamo noi, se viene a cadere il legame che ci tiene uniti ai nostri morti, a coloro che ci hanno preceduto sulle strade della vita?
La domanda sorge spontanea davanti allo spettacolo del rifiuto della morte che caratterizza le nostre esistenze e davanti al pregiudizio, cui abbiamo testé accennato, che la nostra condizione presente sia invidiabile, mentre sarebbe da compiangere quella dei defunti.
Di tutto ci piace parlare, tranne della morte: a differenza di San Francesco, consideriamo poco educato parlarne troppo apertamente, quasi fosse un argomento di per sé biasimevole, se non proprio sconveniente.
L’atteggiamento delle odierne generazioni verso i defunti è un aspetto del loro generale atteggiamento verso il passato e verso la tradizione: un misto di distrazione, di ignoranza e di vera e propria insofferenza.
«In Africa - diceva il poeta Léopold Sédar Senghor - non esistono confini, nemmeno tra la vita e la morte»; e la stessa cosa può dirsi per tutte le società tradizionali, nelle quali il legame tra il mondo dei viventi e quello degli antenati è talmente forte e vivo, da costituire l’ossatura fondamentale dell’intera struttura socioculturale.
Come è possibile, infatti, procedere sul cammino della vita, senza sentirsi parte di un processo che parte da lontano; senza sentirsi come i prosecutori dell’opera di quanti ci precedettero e come coloro i quali, al momento di andarsene, passeranno la fiaccola del domani nelle mani delle nuove generazioni?
La mancanza di memoria è anche assenza di gratitudine e, in definitiva, ignoranza del proprio posto nel mondo: perché noi non veniamo dal nulla, così come non stiamo andando verso il nulla, checché ne dicano, con funereo compiacimento, quelli che - parafrasando Henry de Montherlant - potremmo chiamare i lugubri cantori del Caos e della Notte.
Noi veniamo dal generoso «sì» alla vita dato a suo tempo dai nostri genitori, dai nostri nonni, bisnonni e trisavoli; e andiamo verso il compimento della nostra missione, che consiste nel preparare la via a coloro che ci seguiranno, nel rimuovere le erbacce dal terreno e nel lasciare ad essi in usufrutto un mondo che non sia peggiore, ma, se possibile, migliore di quello che, a nostra volta, abbiamo ricevuto.
Tutto nasce dalla consapevolezza di non essere i padroni e i signori del mondo, ma solamente degli ospiti: e il dovere degli ospiti è, oltre a quello della riconoscenza verso colui che li ha accolti, nutriti e protetti, quello di lasciare la dimora in condizioni abitabili e accoglienti per altri ospiti, che giungeranno a loro volta.
Siamo parte di un grande fiume cosmico, che va dall’umile filo d’erba alla galassia più lontana, la quale brilla negli spazi celesti a distanze inimmaginabili: tutto è in noi e noi siamo in tutto, senza che si possano tracciare dei veri confini tra noi e le cose e nemmeno, come affermava il grande poeta africano, tra la vita e la morte.
Gli amanti lo sanno: non si può dire dove finisce la loro anima e dove incominci quella dell’altro; così come, nei moneti dell’estasi, essi non potrebbero dire dove finisca il corpo dell’uno e dove incominci quello dell’altra.
Ebbene, per la grande vita cosmica di cui siamo parte, è esattamente la stessa cosa: noi siamo nel filo d’erba e nella galassia, così come il filo d’erba e la galassia sono in noi, sono parte di noi, sono tutt’uno con noi, anima e corpo.
Un soffio divino anima noi, così come pervade il filo d’erba e la lontana galassia; e quel soffio divino ci affratella a tutto ciò che esiste, a tutto ciò che è esistito in passato e a tutto ciò che esisterà nel futuro.
Del resto, che cos’è il passato, che cos’è il futuro? Non esistono in se stessi, ma soltanto nel difetto della nostra vista: sono un nostro errore di prospettiva.
L’unico tempo che esiste in sé stesso, è il presente, perché tutto è presente agli occhi dell’eternità: e non vi è differenza tra quanti hanno vissuto prima di noi e quanti vivranno dopo.
Siamo un’unica famiglia e siamo fatti per la vita, non per la morte.
La morte è solo un passaggio, non una condizione durevole dell’essere; è una crisi, nel significato greco della parola, ossia un cambiamento.
Verso che cosa avverrà tale cambiamento, ciò dipende - appunto - dal modo in cui si è vissuti.
di Francesco Lamendola

21 dicembre 2010

Gli Euro Bond


In campo economico e monetario, oltre ad avere le idee chiare ed aver capito come si incastrano i vari meccanismi, da chi vengono orchestrati, a favore di chi e per quali inconfessabili scopi, è necessario soprattutto mantenere coerenza e comportamenti consequenziali con le proprie analisi ed i propri convincimenti maturati nel tempo, ancor più se questi si stanno rilevando più che utili, indispensabili alla normalizzazione della situazione economica ed occupazionale e funzionali al conseguimento del bene comune di tutti e di ciascuno. Non è possibile, dopo aver recentemente e pubblicamente modificato i propri convincimenti per quanto attiene all’emissione monetaria ed aver concluso e riconosciuto la necessità che sia lo Stato a ritornare a battere moneta in prima persona sulla scia della centennale e positiva esperienza pregressa, come ha recentemente affermato pubblicamente Marco Della Luna, e poi entusiasmarsi per gli Eurobond proposti dal Ministro Tremonti in campo europeo. Posso comprendere che la solita cricca ammantata dell'aureola bocconiana così cara alla cupola monetaria spinga per far si che ciò avvenga. Al banchiere interessa e si adopera affinché venga creato del debito da amministrare, qualunque sia ma sempre garantiti da titoli reali, sul quale lucrare e mediante il quale imporre le solite condizioni capestro che approdano come sempre accade, all’esproprio dei beni materiali di qualunque natura del debitore. Ovviamente per quanto riguarda i titoli ricevuti in garanzia, quelli di stato sono più graditi delle cambiali private, i titoli europei lo sono ancor dippiù, meglio ancora se garantiti dall'oro come già suggerito dalla cricca dei scodinzolanti economisti di vecchia memoria, sempre quelli per intenderci che sino al giorno prima non si erano accorti dell'incombenza dell'ultima devastante crisi economica. Se l’iniziativa di lanciare gli Eurobond del nostro Ministro, che tanto piace a questa razza di economisti, è una mossa che serve a dimostrare che anche questa strada non è percorribile per l’indisponibilità di alcuni Paesi, tra i quali Francia e Germania, di farsi carico dei pesi altrui, come ha evidenziato lo stesso Della Luna, allora, se non altro che per esclusione, occorre ricercare altre soluzioni capaci di reperire risorse per far ripartire l’economia e l’occupazione, senza creare nuovi debiti sia pubblici che privati. Il limite degli Eurobond è proprio questo, oltre all’assurdità di creare nuovo debito ed impastoiarsi ancor più nei confronti dei soliti banchieri. Sulle questioni economiche e monetarie non è possibile saltare i passaggi essenziali e non tenere conto degli interessi nazionali del proprio Paese, ne è pensabile voler unificare Nazioni diverse per cultura, per stato sociale, per capacità produttiva, ed ancor più per capacità creativa ed inventiva, che verrebbe definitivamente mortificata, attraverso ed utilizzando la leva del debito, che dovrebbe diventare comunitario e costruito con gli Eurobond. Come abbiamo dovuto prendere atto, il marchingegno degli Eurobond non funziona e contestualmente non può essere perso di vista quello che oggi per noi italiani è lo scopo prioritario che deve perseguire la Politica, indipendentemente dai contrasti tra governo ed d’opposizione. Ciò in primis riguarda proprio la ripresa dell'economia reale e delle attività economiche, quelle per intenderci capaci di riassorbire la disoccupazione che in barba a tutte le chiacchiere continua a crescere insieme e quasi di pari passo al debito pubblico. Non si riesce a far ripartire l’economia poiché non si dispongono le risorse necessarie per finanziare le attività vecchie o nuove che siano. Prima o al massimo contestualmente di perseguire il riassetto europeo sistemiamo casa nostra. Assistiamo alla violenta ed atavica disputa politica tra maggioranza ed opposizione per futili motivi, tra maggioranza ed ex pezzi della stessa per stabilire chi è più liberale, nella quale la maggioranza glissa sul come uscire dalla crisi economica e l’opposizione si guarda bene da avanzare proposte e denunciare in favore delle fasce sociali che si stanno sempre più impoverendo e degli imprenditori che stanno fallendo, che il tutto é causato dalle ingentissime risorse sottratte dal mercato, spesso a propria insaputa, a favore dei banchieri. Smettiamo di ricercare soluzioni attraverso l'ulteriore indebitamento così caro ai banchieri, liberiamoci della foglia di fico del liberalismo dietro la quale si annida la pattuglia dei dissidenti dell’attuale maggioranza, congeniale ai banchieri, smaniosi di acquisire, con il candido e innocente sussurro delle privatizzazioni, le migliori aziende dello Stato invidiateci da tutto il mondo, con la scusa di alleggerire il “debito pubblico” e per ammansire la canee dei famelici banchieri che con il giochino delle tre carte, con l’emissione monetaria taroccata, con le agenzie di rating, con l’esclusiva per grazia ricevuta, di battere moneta, amministrano il pseudo debito costruito appunto con i raggiri sopra descritti. Smettiamo di costruire debito mediante l’emissione di titoli di debito dello Stato per farli scontare alla solita cupola monetaria. Se i titoli di debito emessi dallo Stato, sono accettati allo sconto da questi avvedutissimi, prudentissimi ed insindacabili strozzini in guanti bianchi, debbono essere buoni per il mercato anche i titoli monetari emessi dalle stessa Pubblica Amministrazione. Poiché il trattato di Maastrikt è già stato ampiamente violato da Paesi ben più blasonati del nostro, ritorniamo senza esitazioni a battere moneta in proprio come abbiamo saputo fare così bene per




oltre 100 anni. Diamo risposte concrete all’opposizione poiché ci procuriamo la capacità di spesa per rilanciare le attività produttive e l‘occupazione senza indebitarci, salviamo gli imprenditori dalle angherie e dallo strangolo bancario e monetario ulteriormente pianificato da “Basilea 3”, con un colpo solo ci liberiamo dai ricatti e dall'assillo delle agenzie di rating ogni volta che si avvicina la data di scadenza o rinnovo dei titoli, risparmiamo la non lieve cifra degli interesii passivi (al tasso dell'1% 80 miliardi di euro all’anno e già si trama per aumentare tassi & affini vari), l’Esecutivo di qualunque colore sia, recupera la propria capacità politica di programmare la politica nazionale, attualmente miseramente relegata a rastrellare risorse dal mercato per convogliarle ai banchieri. Se poi la residua cupola bancaria-monetaria dovesse, come suo costume, influenzare le solite agenzie di rating e per alterare il livello dei cambi, saremmo felicissimi sia quando svalutano che quando rivalutano la moneta nazionale: disponiamo delle appropriate terapie per ogni circostanza. L'essenziale è che non siano i banchieri a gestirle.
Questo è il compito della politica seria e di tutti i cittadini consapevoli. Pensare di sottrarsi a queste incombenze è da irresponsabili sia nei confronti del prossimo ed ancor più dei propri figli.
La validità della instancabile proposta avanzata da sempre da Della Luna di espatriare per ricercare condizioni migliori, ma con il sottinteso messaggio subliminale di propagare la rassegnazione allo status quo, può essere ritenuta valida solamente dal concreto e pronto esempio di chi l’ha formulata.
di Savino Frigiola

20 dicembre 2010

Il crack del Banco Emiliano Romagnolo




Crack Banco Emiliano Romagnolo

Oggi ho ricevuto una mail sul fallimento del Banco Emiliano Romagnolo (BER) e il congelamento di conti correnti e dei titoli (che non sono di proprietà della banca) su disposizione della Banca d'Italia. Il blog ha verificato con una telefonata (la voce è stata modificata per evitare problemi a ci ha fornito le risposte) che è tutto vero. Provate a immaginare di trovarvi domani senza poter accedere al conto corrente, al bancomat, ai titoli in deposito, ai pagamenti automatici dal conto. Come vi sentireste?
Di seguito la segnalazione e l'intervista alla BER.

Segnalazione


"Voglio segnalare che il Banco Emiliano Romagnolo è stato bloccato dalla Banca d'Italia e che tutti i conto correnti sono stati congelati per evitare che tutti ritirino i soldi. Stanno cercando di vendere la banca al gruppo Intesa, non si sa altro. E dicono che fino al 7 gennaio non si saprà nulla. Passeranno le vacanze di Natale serene, loro! E non per il freddo... Mi ritrovo come tante altre persone a non poter ricevere bonifici, stipendi, addebiti e neanche ritirare contanti allo sportello. Il tutto senza preavviso e tenendo tutto nascosto. Ancora sui giornali non si legge niente.Chiamate direttamente voi in banca per vedere che è tutto vero:
0514135595 - 0514135539
Saluti" A.C.

Trascrizione telefonata del blog alla BER:


BER
: E’ stato durante un provvedimento di Banca d’Italia del 7 di dicembre in cui stabilisce che un congelamento dell’entrata e uscita dell’operatività dei conti correnti,questa tutela dei conti correnti , salvaguardare le procedure di transizione che ci sono in questo momento significa che il conto congelato, non si possono fare né ricevere bonifici assegni, RID, bancomat.. il conto è bloccato completamente. Purtroppo anche noi dipendenti siamo nella stessa situazione, non si riesce a fare la spesa, se qualcuno ha altra possibilità la situazione è cristallizzata allo stato in cui si trovava. Guardi, noi stessi che siamo all’interno che potevamo tutelarci, per prelevare, noi stessi siamo stati avvisati da un minuto all’altro, soprattutto nel rapporto con i clienti. Il 6 sera è stato preso questo provvedimento, emanato dalla Gazzetta Ufficiale della Banca d’Italia e sui giornali a tiratura nazionale. Il 7 mattina all’apertura della filiale ci ha comunicato questo. Provvedimento drastico, che chiaramente suscita, ha suscitato e susciterà enormi problemisti che alla Banca d’Italia stessa suppongo, altresì possa farlo, prenderà un sacco di denunce. Comunque sia, ovviamente che sono in forte difficoltà sono soprattutto le aziende, un disastro terribile.
Blog: Aldilà dei depositi dei CC, invece l’operatività della banca è semplice intermediaria tipo Conto Titoli anche quello è bloccato?
BER: Si Tutto, completamente tutto.
Blog: I titoli di fatto sono intestati al correntista, non alla banca.
BER: Si,bloccati nel senso che non possono essere trasferiti da un conto all’altro, lì sono e lì rimangono fino a che non si sbloccano, poi ognuno potrà disporre come vuole.
Blog:In questo periodo di congelamento non posso operare sui miei titoli?
BER: No, ma neanche sul conto corrente
Blog: Neanche da nessun altro operatore?
BER: Assolutamente no, guardi, non entrano nemmeno i bonifici
Blog:Sul conto mi è più facile capire perché è un asset della banca
BER: Capisco la sua obiezione, però anche i titoli fanno parte di una sorta di liquidità totale, credo che la maggior parte delle persone si preoccupi della liquidità per fare la spesa per pagare un mutuo, una utenza, un affitto.
Blog: Si, nella peggior delle ipotesi, congelato il conto corrente, liquido una parte dei titoli e mi arrangio in un altro modo
BER: Si ho capito, certo, infatti questo è un problema per la Borsa, per tutto, perché c’è una sorta di compra vendita, di negoziazione quanto meno, e comunque si investe anche finché tiene.

di Beppe Grillo

22 dicembre 2010

Senza il legame con i morti la nostra vita non è che un’assurda corsa nel vuoto









Chi siamo o cosa siamo noi, se viene a cadere il legame che ci tiene uniti ai nostri morti, a coloro che ci hanno preceduto sulle strade della vita?
Non è affatto una domanda oziosa o superflua: è una domanda centrale; è LA domanda, dalla cui risposta tutto il resto dipende.
Tanto per cominciare, l’espressione “i morti” è estremamente impropria e fuorviante: come se noi, che siamo vivi, ci trovassimo nella dimensione “vera” dell’esistenza, perché attuale, tangibile, dimostrabile; mentre loro, essendo stati vivi un tempo, ma non essendolo più, godessero ora di uno statuto ontologico di serie B rispetto al nostro.
È vero, semmai, il contrario.
Chi è vivo, lo è per una manciata di anni; chi ha già terminato la propria vita, appartiene all’eternità - come vi apparteneva, del resto, prima di nascere, anzi, prima di venir concepito - e perciò è lo statuto ontologico dei vivi ad essere friabile, fuggevole, illusorio.
Noi passiamo, loro rimangono: questa è la realtà.
Noi siamo qui, adesso; ma questo “adesso” si consuma rapidamente; e, quando non ne resterà più nulla, spariremo da questa dimensione, così silenziosamente come vi siamo entrati: inquilini temporanei di un mondo che non è nostro, che ci ospita solamente.
Soltanto un materialismo tanto rozzo quanto poco intelligente potrebbe sopravvalutare la nostra condizione rispetto alla loro.
Un poco alla volta, chi prima e chi dopo, tutti scivoliamo in quell’altra condizione, entrando nel numero di quelli che “furono”: perciò, mentre questi ultimi crescono senza posa, noi, senza posa, ci andiamo assottigliando.
Finché siamo bambini, finché siamo giovani, vediamo tutto intorno delle persone che se ne andranno ben prima di noi; poi, mano a mano che cresciamo, cominciano ad andarsene anche quelli che erano bambini e ragazzi quando noi eravamo appena nati, o piccolissimi; da ultimo, divenuti anziani, ci guarderemo intorno e vedremo, forse con raccapriccio, che, intorno a noi, non è rimasto nessuno di quanti hanno accompagnato la nostra vita, ma sono subentrate solamente facce nuove, persone più giovani. Anche queste ultime destinate a finire come gli altri, ma un poco più tardi e, quindi, come se appartenessero ad un altro mondo: saranno ancora vive, infatti, quando noi chiuderemo gli occhi per sempre.
Noi siamo come i fiumi che corrono verso il mare: non possiamo pretendere di essere noi soli la “vera” acqua; il nostro destino, il nostro scopo, la nostra ragion d’essere sono quelli di raggiungere il mare, a paragone del quale siamo ben piccola cosa.
Ciò non significa che siamo fatti per la morte, se con quest’ultima espressione si vuole intendere il contrario della vita, la privazione radicale dell’esistenza.
La morte non è il contrario della vita, nemmeno sul piano strettamente logico: la morte è uno stato dell’essere, il modo in cui l’essere si spegne; la vita, invece, è un processo. Si tratta di due cose differenti, non di due cose opposte: la morte non è la negazione della vita, ma il suo naturale compimento.
La negazione e il contrario della vita, semmai, consistono nella non vita, ossia nel rifiuto dell’apertura verso la vita, nel “no” al suo incessante rinnovarsi.
La morte, inoltre, non è la “nemica” della vita, ma il suo atto conclusivo e disvelatore: grazie ad essa, la vita acquista la pienezza del proprio significato; senza di essa, la vita diventerebbe una assurda, monotona ripetizione, senza scopo e senza significato.
E tuttavia, noi siamo fatti per la vita.
Siamo fatti per la vita, per la gioia, per l’amore: altrimenti non saremmo qui, non esisteremmo; perché la vita nasce dall’amore, da un atto di amore.
Si tratta, perciò, di guardare più da vicino la misteriosa soglia che chiamiamo “morte”, cosa da cui la cultura moderna si ritrae con un fremito di spavento e che aborrisce con tutta se stessa.
La cultura moderna è basata sull’idea del Progresso, del continuo, incessante andare avanti: non è strano che la morte le appaia come lo scacco supremo, perché sembra arrestare la marcia degli uomini verso la “felicità”.
La cultura moderna odia la morte, “per fatto personale”, come si usa dire: per essa, la morte è la beffa suprema, la negazione di tutto il suo credo.
Non la pensava così il mondo pre-moderno , per il quale la morte non era né una beffa né una negazione, ma una porta spalancata sull’infinito e, quindi, la via di accesso alla piena realizzazione del nostro vero essere.
Come dice San Francesco nel «Cantico delle creature»:

«Laudato si’ mi Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu homo vivente po’ skappare:
gauai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ‘l farrà male.»

Dunque, per l’uomo medievale il problema non è la morte, ma lo stato dell’anima allorché la morte viene; non è la morte che deve far paura, ma la prospettiva di essere da lei sorpresi in uno stato di lontananza da Dio, cioè dalla sua legge e dal suo progetto nei nostri confronti.
L’uomo medievale, come in genere l’uomo pre-moderno, sapeva perché si vive e sapeva perché si muore: si vive per rispondere alla chiamata divina, per armonizzare la propria volontà con quella del Creatore; si muore per entrare nella dimensione del permanente e per ricevere gli effetti delle proprie azioni e delle proprie scelte.
Non vi è posto per il caso, ma solo per un disegno armonioso e necessario, cui gli uomini sono chiamati a partecipare in piena libertà.
In questo senso, per la persona di fede, la morte non è la “fine”, ma il “compimento” della vita: e il defunto, lungi dall’essere divenuto una entità umbratile ed evanescente, è, propriamente parlando, colui che è divenuto “perfetto”, ossia che ha raggiunto il traguardo supremo e lo scopo ultimo per il quale è stato chiamato all’esistenza.
Una grande mistica francese, Marthe Robin, della quale altra volta abbiamo parlato (cfr. il nostro articolo «Che cos’è la natura umana quando viene ridotta all’essenziale», consultabile sul sito di Edicolaweb) soleva dire, di una persona morta (e possiamo immaginare il sorriso dolcissimo con il quale accompagnava le proprie parole), che «allora essa è compiuta».
Dovremmo smetterla, pertanto, di parlare dei “nostri poveri morti”, come se la loro condizione fosse da compiangere, rispetto alla nostra; come se loro avessero perduto un bene che noi, al contrario, possediamo e teniamo ben stretto fra le mani.
Essi non sono da compiangere o da commiserare; lo siamo noi, semmai, per le miserie e le debolezze che segnano tutto il nostro cammino terreno e che possono ridurre in condizioni pietose, fisicamente o spiritualmente, anche il più grande dei mortali.
Ciò chiarito, torniamo alla nostra domanda iniziale e proviamo a risponderle: chi siamo o cosa siamo noi, se viene a cadere il legame che ci tiene uniti ai nostri morti, a coloro che ci hanno preceduto sulle strade della vita?
La domanda sorge spontanea davanti allo spettacolo del rifiuto della morte che caratterizza le nostre esistenze e davanti al pregiudizio, cui abbiamo testé accennato, che la nostra condizione presente sia invidiabile, mentre sarebbe da compiangere quella dei defunti.
Di tutto ci piace parlare, tranne della morte: a differenza di San Francesco, consideriamo poco educato parlarne troppo apertamente, quasi fosse un argomento di per sé biasimevole, se non proprio sconveniente.
L’atteggiamento delle odierne generazioni verso i defunti è un aspetto del loro generale atteggiamento verso il passato e verso la tradizione: un misto di distrazione, di ignoranza e di vera e propria insofferenza.
«In Africa - diceva il poeta Léopold Sédar Senghor - non esistono confini, nemmeno tra la vita e la morte»; e la stessa cosa può dirsi per tutte le società tradizionali, nelle quali il legame tra il mondo dei viventi e quello degli antenati è talmente forte e vivo, da costituire l’ossatura fondamentale dell’intera struttura socioculturale.
Come è possibile, infatti, procedere sul cammino della vita, senza sentirsi parte di un processo che parte da lontano; senza sentirsi come i prosecutori dell’opera di quanti ci precedettero e come coloro i quali, al momento di andarsene, passeranno la fiaccola del domani nelle mani delle nuove generazioni?
La mancanza di memoria è anche assenza di gratitudine e, in definitiva, ignoranza del proprio posto nel mondo: perché noi non veniamo dal nulla, così come non stiamo andando verso il nulla, checché ne dicano, con funereo compiacimento, quelli che - parafrasando Henry de Montherlant - potremmo chiamare i lugubri cantori del Caos e della Notte.
Noi veniamo dal generoso «sì» alla vita dato a suo tempo dai nostri genitori, dai nostri nonni, bisnonni e trisavoli; e andiamo verso il compimento della nostra missione, che consiste nel preparare la via a coloro che ci seguiranno, nel rimuovere le erbacce dal terreno e nel lasciare ad essi in usufrutto un mondo che non sia peggiore, ma, se possibile, migliore di quello che, a nostra volta, abbiamo ricevuto.
Tutto nasce dalla consapevolezza di non essere i padroni e i signori del mondo, ma solamente degli ospiti: e il dovere degli ospiti è, oltre a quello della riconoscenza verso colui che li ha accolti, nutriti e protetti, quello di lasciare la dimora in condizioni abitabili e accoglienti per altri ospiti, che giungeranno a loro volta.
Siamo parte di un grande fiume cosmico, che va dall’umile filo d’erba alla galassia più lontana, la quale brilla negli spazi celesti a distanze inimmaginabili: tutto è in noi e noi siamo in tutto, senza che si possano tracciare dei veri confini tra noi e le cose e nemmeno, come affermava il grande poeta africano, tra la vita e la morte.
Gli amanti lo sanno: non si può dire dove finisce la loro anima e dove incominci quella dell’altro; così come, nei moneti dell’estasi, essi non potrebbero dire dove finisca il corpo dell’uno e dove incominci quello dell’altra.
Ebbene, per la grande vita cosmica di cui siamo parte, è esattamente la stessa cosa: noi siamo nel filo d’erba e nella galassia, così come il filo d’erba e la galassia sono in noi, sono parte di noi, sono tutt’uno con noi, anima e corpo.
Un soffio divino anima noi, così come pervade il filo d’erba e la lontana galassia; e quel soffio divino ci affratella a tutto ciò che esiste, a tutto ciò che è esistito in passato e a tutto ciò che esisterà nel futuro.
Del resto, che cos’è il passato, che cos’è il futuro? Non esistono in se stessi, ma soltanto nel difetto della nostra vista: sono un nostro errore di prospettiva.
L’unico tempo che esiste in sé stesso, è il presente, perché tutto è presente agli occhi dell’eternità: e non vi è differenza tra quanti hanno vissuto prima di noi e quanti vivranno dopo.
Siamo un’unica famiglia e siamo fatti per la vita, non per la morte.
La morte è solo un passaggio, non una condizione durevole dell’essere; è una crisi, nel significato greco della parola, ossia un cambiamento.
Verso che cosa avverrà tale cambiamento, ciò dipende - appunto - dal modo in cui si è vissuti.
di Francesco Lamendola

21 dicembre 2010

Gli Euro Bond


In campo economico e monetario, oltre ad avere le idee chiare ed aver capito come si incastrano i vari meccanismi, da chi vengono orchestrati, a favore di chi e per quali inconfessabili scopi, è necessario soprattutto mantenere coerenza e comportamenti consequenziali con le proprie analisi ed i propri convincimenti maturati nel tempo, ancor più se questi si stanno rilevando più che utili, indispensabili alla normalizzazione della situazione economica ed occupazionale e funzionali al conseguimento del bene comune di tutti e di ciascuno. Non è possibile, dopo aver recentemente e pubblicamente modificato i propri convincimenti per quanto attiene all’emissione monetaria ed aver concluso e riconosciuto la necessità che sia lo Stato a ritornare a battere moneta in prima persona sulla scia della centennale e positiva esperienza pregressa, come ha recentemente affermato pubblicamente Marco Della Luna, e poi entusiasmarsi per gli Eurobond proposti dal Ministro Tremonti in campo europeo. Posso comprendere che la solita cricca ammantata dell'aureola bocconiana così cara alla cupola monetaria spinga per far si che ciò avvenga. Al banchiere interessa e si adopera affinché venga creato del debito da amministrare, qualunque sia ma sempre garantiti da titoli reali, sul quale lucrare e mediante il quale imporre le solite condizioni capestro che approdano come sempre accade, all’esproprio dei beni materiali di qualunque natura del debitore. Ovviamente per quanto riguarda i titoli ricevuti in garanzia, quelli di stato sono più graditi delle cambiali private, i titoli europei lo sono ancor dippiù, meglio ancora se garantiti dall'oro come già suggerito dalla cricca dei scodinzolanti economisti di vecchia memoria, sempre quelli per intenderci che sino al giorno prima non si erano accorti dell'incombenza dell'ultima devastante crisi economica. Se l’iniziativa di lanciare gli Eurobond del nostro Ministro, che tanto piace a questa razza di economisti, è una mossa che serve a dimostrare che anche questa strada non è percorribile per l’indisponibilità di alcuni Paesi, tra i quali Francia e Germania, di farsi carico dei pesi altrui, come ha evidenziato lo stesso Della Luna, allora, se non altro che per esclusione, occorre ricercare altre soluzioni capaci di reperire risorse per far ripartire l’economia e l’occupazione, senza creare nuovi debiti sia pubblici che privati. Il limite degli Eurobond è proprio questo, oltre all’assurdità di creare nuovo debito ed impastoiarsi ancor più nei confronti dei soliti banchieri. Sulle questioni economiche e monetarie non è possibile saltare i passaggi essenziali e non tenere conto degli interessi nazionali del proprio Paese, ne è pensabile voler unificare Nazioni diverse per cultura, per stato sociale, per capacità produttiva, ed ancor più per capacità creativa ed inventiva, che verrebbe definitivamente mortificata, attraverso ed utilizzando la leva del debito, che dovrebbe diventare comunitario e costruito con gli Eurobond. Come abbiamo dovuto prendere atto, il marchingegno degli Eurobond non funziona e contestualmente non può essere perso di vista quello che oggi per noi italiani è lo scopo prioritario che deve perseguire la Politica, indipendentemente dai contrasti tra governo ed d’opposizione. Ciò in primis riguarda proprio la ripresa dell'economia reale e delle attività economiche, quelle per intenderci capaci di riassorbire la disoccupazione che in barba a tutte le chiacchiere continua a crescere insieme e quasi di pari passo al debito pubblico. Non si riesce a far ripartire l’economia poiché non si dispongono le risorse necessarie per finanziare le attività vecchie o nuove che siano. Prima o al massimo contestualmente di perseguire il riassetto europeo sistemiamo casa nostra. Assistiamo alla violenta ed atavica disputa politica tra maggioranza ed opposizione per futili motivi, tra maggioranza ed ex pezzi della stessa per stabilire chi è più liberale, nella quale la maggioranza glissa sul come uscire dalla crisi economica e l’opposizione si guarda bene da avanzare proposte e denunciare in favore delle fasce sociali che si stanno sempre più impoverendo e degli imprenditori che stanno fallendo, che il tutto é causato dalle ingentissime risorse sottratte dal mercato, spesso a propria insaputa, a favore dei banchieri. Smettiamo di ricercare soluzioni attraverso l'ulteriore indebitamento così caro ai banchieri, liberiamoci della foglia di fico del liberalismo dietro la quale si annida la pattuglia dei dissidenti dell’attuale maggioranza, congeniale ai banchieri, smaniosi di acquisire, con il candido e innocente sussurro delle privatizzazioni, le migliori aziende dello Stato invidiateci da tutto il mondo, con la scusa di alleggerire il “debito pubblico” e per ammansire la canee dei famelici banchieri che con il giochino delle tre carte, con l’emissione monetaria taroccata, con le agenzie di rating, con l’esclusiva per grazia ricevuta, di battere moneta, amministrano il pseudo debito costruito appunto con i raggiri sopra descritti. Smettiamo di costruire debito mediante l’emissione di titoli di debito dello Stato per farli scontare alla solita cupola monetaria. Se i titoli di debito emessi dallo Stato, sono accettati allo sconto da questi avvedutissimi, prudentissimi ed insindacabili strozzini in guanti bianchi, debbono essere buoni per il mercato anche i titoli monetari emessi dalle stessa Pubblica Amministrazione. Poiché il trattato di Maastrikt è già stato ampiamente violato da Paesi ben più blasonati del nostro, ritorniamo senza esitazioni a battere moneta in proprio come abbiamo saputo fare così bene per




oltre 100 anni. Diamo risposte concrete all’opposizione poiché ci procuriamo la capacità di spesa per rilanciare le attività produttive e l‘occupazione senza indebitarci, salviamo gli imprenditori dalle angherie e dallo strangolo bancario e monetario ulteriormente pianificato da “Basilea 3”, con un colpo solo ci liberiamo dai ricatti e dall'assillo delle agenzie di rating ogni volta che si avvicina la data di scadenza o rinnovo dei titoli, risparmiamo la non lieve cifra degli interesii passivi (al tasso dell'1% 80 miliardi di euro all’anno e già si trama per aumentare tassi & affini vari), l’Esecutivo di qualunque colore sia, recupera la propria capacità politica di programmare la politica nazionale, attualmente miseramente relegata a rastrellare risorse dal mercato per convogliarle ai banchieri. Se poi la residua cupola bancaria-monetaria dovesse, come suo costume, influenzare le solite agenzie di rating e per alterare il livello dei cambi, saremmo felicissimi sia quando svalutano che quando rivalutano la moneta nazionale: disponiamo delle appropriate terapie per ogni circostanza. L'essenziale è che non siano i banchieri a gestirle.
Questo è il compito della politica seria e di tutti i cittadini consapevoli. Pensare di sottrarsi a queste incombenze è da irresponsabili sia nei confronti del prossimo ed ancor più dei propri figli.
La validità della instancabile proposta avanzata da sempre da Della Luna di espatriare per ricercare condizioni migliori, ma con il sottinteso messaggio subliminale di propagare la rassegnazione allo status quo, può essere ritenuta valida solamente dal concreto e pronto esempio di chi l’ha formulata.
di Savino Frigiola

20 dicembre 2010

Il crack del Banco Emiliano Romagnolo




Crack Banco Emiliano Romagnolo

Oggi ho ricevuto una mail sul fallimento del Banco Emiliano Romagnolo (BER) e il congelamento di conti correnti e dei titoli (che non sono di proprietà della banca) su disposizione della Banca d'Italia. Il blog ha verificato con una telefonata (la voce è stata modificata per evitare problemi a ci ha fornito le risposte) che è tutto vero. Provate a immaginare di trovarvi domani senza poter accedere al conto corrente, al bancomat, ai titoli in deposito, ai pagamenti automatici dal conto. Come vi sentireste?
Di seguito la segnalazione e l'intervista alla BER.

Segnalazione


"Voglio segnalare che il Banco Emiliano Romagnolo è stato bloccato dalla Banca d'Italia e che tutti i conto correnti sono stati congelati per evitare che tutti ritirino i soldi. Stanno cercando di vendere la banca al gruppo Intesa, non si sa altro. E dicono che fino al 7 gennaio non si saprà nulla. Passeranno le vacanze di Natale serene, loro! E non per il freddo... Mi ritrovo come tante altre persone a non poter ricevere bonifici, stipendi, addebiti e neanche ritirare contanti allo sportello. Il tutto senza preavviso e tenendo tutto nascosto. Ancora sui giornali non si legge niente.Chiamate direttamente voi in banca per vedere che è tutto vero:
0514135595 - 0514135539
Saluti" A.C.

Trascrizione telefonata del blog alla BER:


BER
: E’ stato durante un provvedimento di Banca d’Italia del 7 di dicembre in cui stabilisce che un congelamento dell’entrata e uscita dell’operatività dei conti correnti,questa tutela dei conti correnti , salvaguardare le procedure di transizione che ci sono in questo momento significa che il conto congelato, non si possono fare né ricevere bonifici assegni, RID, bancomat.. il conto è bloccato completamente. Purtroppo anche noi dipendenti siamo nella stessa situazione, non si riesce a fare la spesa, se qualcuno ha altra possibilità la situazione è cristallizzata allo stato in cui si trovava. Guardi, noi stessi che siamo all’interno che potevamo tutelarci, per prelevare, noi stessi siamo stati avvisati da un minuto all’altro, soprattutto nel rapporto con i clienti. Il 6 sera è stato preso questo provvedimento, emanato dalla Gazzetta Ufficiale della Banca d’Italia e sui giornali a tiratura nazionale. Il 7 mattina all’apertura della filiale ci ha comunicato questo. Provvedimento drastico, che chiaramente suscita, ha suscitato e susciterà enormi problemisti che alla Banca d’Italia stessa suppongo, altresì possa farlo, prenderà un sacco di denunce. Comunque sia, ovviamente che sono in forte difficoltà sono soprattutto le aziende, un disastro terribile.
Blog: Aldilà dei depositi dei CC, invece l’operatività della banca è semplice intermediaria tipo Conto Titoli anche quello è bloccato?
BER: Si Tutto, completamente tutto.
Blog: I titoli di fatto sono intestati al correntista, non alla banca.
BER: Si,bloccati nel senso che non possono essere trasferiti da un conto all’altro, lì sono e lì rimangono fino a che non si sbloccano, poi ognuno potrà disporre come vuole.
Blog:In questo periodo di congelamento non posso operare sui miei titoli?
BER: No, ma neanche sul conto corrente
Blog: Neanche da nessun altro operatore?
BER: Assolutamente no, guardi, non entrano nemmeno i bonifici
Blog:Sul conto mi è più facile capire perché è un asset della banca
BER: Capisco la sua obiezione, però anche i titoli fanno parte di una sorta di liquidità totale, credo che la maggior parte delle persone si preoccupi della liquidità per fare la spesa per pagare un mutuo, una utenza, un affitto.
Blog: Si, nella peggior delle ipotesi, congelato il conto corrente, liquido una parte dei titoli e mi arrangio in un altro modo
BER: Si ho capito, certo, infatti questo è un problema per la Borsa, per tutto, perché c’è una sorta di compra vendita, di negoziazione quanto meno, e comunque si investe anche finché tiene.

di Beppe Grillo