Il fattore lobby nella crisi libica
Le lobbies si muovono, pronte a sferrare l’attacco armato a Gheddafi e a trasformare – con l’aiuto determinante dei loro mezzi di informazione - la guerra civile libica in una nuova operazione Iraq, l’invasione e la defenestrazione manu militari del sin qui legittimo Governo. Ovviamente la partita è ancora aperta, ma il rischio della svolta drammatica c’è, e ed è paradossalmente favorito proprio dal forte recupero sul terreno di Gheddafi e delle forze militari e civili-militari schieratesi a sua difesa: Tripoli città tranquilla, anche ma non solo, grazie alla promessa di un contributo di 500 dinari ai suoi abitanti; Misurata e altri centri minori sotto attacco dei gheddafisti, con perdite tra i rivoltosi; Bengasi a rischio di fuga da panico di centinaia e forse migliaia di abitanti, da cui l’evidente crisi di credibilità del “governo ombra” della Cirenaica, che dal canto suo ha dato diversi consistenti segnali di “moderatismo” rispetto alle aspettative e alle trame dei falchi lobbisti occidentali: un giornale titolato “Libia” (non Cirenaica), un organismo dirigente autoproclamatosi non “Governo provvisorio” cirenaico ma “Consiglio nazionale libico”; un leader nella persona di un ex ministro di Gheddafi: è probabile che il rifiuto dell’opzione separatista sia solo il corrispettivo, una sorta di pendant, dei 300 euro di Gheddafi alla popolazione di Tripoli: vale a dire di un messaggio rivolto ai libici delle zone occidentali sotto controllo del governo, che i pozzi petroliferi non verranno loro sottratti attraverso una secessione e che dunque possono benissimo abbandonare il rais. Ma è un dato di fatto che le prese di posizioni ufficiali da Bengasi – finché dureranno – impediscono per ora uno scenario catastrofico del futuro della Jamahirya.
A questi segnali interni positivi (dove il termine positivo va calibrato nel contesto di una situazione comunque drammatica e precaria) corrisponde poi, sul piano internazionale, una posizione ufficiale della “Comunità internazionale”, cioè degli Stati nominalmente e formalmente esistenti, non completamente satisfattiva rispetto al martellamento mediatico dei mass media lobbisti: perché, contrariamente alla lettura faziosa della solita Repubblica, e come ha ben riassunto invece il Corriere della Sera, la risoluzione 1970 del Consiglio di Sicurezza del 26 febbraio scorso si presenta ad una lettura attenta come frutto di un lavorio e una mediazione laboriosa che – per l’opposizione della Cina e della Russia - ha eliminato alcuni punti programmatici fondamentali del bellicismo antigheddafista: l’articolo della Carta dell’ONU di riferimento non è il 42, quello che prevede interventi armati della solita comunità internazionale contro i paesi sovrani, e che fu un classico di tutte le “ingerenze umanitarie” dagli anni Novanta al 2003 iracheno, ma il 41, che concerne misure di tipo diverso, ad esempio l’embargo (di armi) o nel caso libico il sequestro dei beni del gruppo dirigente gheddafista, familiari compresi. E’ assolutamente importante che non siano state decise le no fly zones, un elemento cruciale dal punto di vista dei rapporti militari fra governo centrale e ribelli, e che nel 1991, applicate all’Iraq, segnarono l’inizio della fine del regime di Saddam Hussein, impedito ad intervenire con l’aviazione contro il ribellismo endemico degli sciiti al sud e dei curdi al nord.
Un paragrafo della 1790 riguarda poi la Corte Penale Internazionale: da una parte il punto 7 della risoluzione “invite le Procureur à l’informer, dans les deux mois suivant la date de l’adoption de la présente résolution, puis tous les six mois, de la suite donnée à celle-ci”; dall’altra però il preambolo richiama l’articolo 16 dello Statuto della CPI, che ricorda “l’article 16 du Statut de Rome, selon lequel aucune enquête ni aucune poursuite ne peuvent être engagées ni menées par la Cour pénale internationale pendant les 12 mois qui suivent la date à laquelle il a lui-même fait une demande en ce sens”: il processo eventuale potrebbe essere perciò di là da venire e lo stesso classico capo d’accusa – “crimini contro l’umanità” – viene citato nel testo una sola volta, al condizionale (“pourraient …”) e nel Preambolo.
Dunque – considerando anche “adhésion à la souveraineté, à l’indépendance, à l’intégrité territoriale et à l’unité nationale de la Jamahiriya arabe libyenne” del documento ONU - siamo di fronte a un testo che può lasciare uno spiraglio aperto ad un superamento della crisi e a un recupero teorico dello stesso rais di Tripoli al consesso internazionale, quale voluto da qualche raro leader occidentale oggi in difficoltà. La 1970 non presenta le caratteristiche delle risoluzioni antijugoslave e antiirachene degli anni Novanta, tutte fondate su un preteso “diritto di ingerenza umanitaria” (sostenuto anche dai media sedicenti di sinistra: vedi Dominique Vidal su Le Monde Diplomatique durante le guerre dei Balcani) e dunque su quello sfondamento del “dominio riservato” degli Stati membri dell’ONU – quale è la Libia - in cui la scuola classica giuridico-internazionalista ha sempre visto un momento fondamentale degli equilibri e del rispetto delle regole internazionali e della pace da garantirsi da parte dall’ONU.
Ma allora, se la “comunità internazionale” ha dato questi segnali, perché temere il peggio? Per diversi e corposi motivi: innanzitutto la risoluzione – in una situazione in continua evoluzione-involuzione, e in cui le parole anche scritte potranno in ogni momento essere annullate dalla politica del fatto compiuto – è pur sempre un “pezzo di carta”: basterà una scintilla, una trasformazione mediatica di una legittima repressione di ribelli armati in un “crimine contro l’umanità” per renderla superata, e per favorire altre prese di posizioni della “Comunità internazionale” di molto peggiori.
In secondo luogo per il ruolo appena accennato dei grandi mass media euroamericani, e soprattutto di quelli sedicenti “democratici”, diversi dei quali persino di “sinistra”: esattamente come nel caso delle polemiche nazionali, sono i grandi mass media lobbisti a precedere le sentenze e a plasmare le decisioni istituzionali, nel caso specifico le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. Una (parziale) eccezione, la 1970, non dà alcuna garanzia per il futuro, perché la sua stessa faziosa lettura da parte dei soliti media è capace di alimentare un clima di isteria internazionale che poi, alla fine, potrà produrre il frutto “buono”: il via all’aggressione militare. Leggiamo il titolo di apertura di Repubblica del 28 febbraio: “L’ONU: processate Gheddafi”. “Crimini contro l’umanità”. Gli Usa: aiuteremo gli insorti” Ebbene, non c’è una sola unità di notizia di questo proclama che corrisponda alla verità dei fatti: non è propriamente vero che l’ONU ha chiesto di processare Gheddafi, ha invitato il procuratore ad avviare le indagini sulla crisi libica, da cui una incriminazione ancora da decidere; non è vero dunque che c’è già un capo di imputazione, i “crimini contro l’umanità”, citati come già detto solo nel Preambolo come possibile crimine compiuto da non ben è specificato chi; non è nemmeno vero che gli USA vogliono “aiutare gli insorti”. Lo dice la Rodham Clinton, che è una voce pur autorevole dell’Amministrazione USA. E qui dunque veniamo al terzo e più importante motivo per cui non è possibile essere ottimisti sugli sviluppi della situazione libica.
In effetti la crisi libica, come tutte le altre crisi internazionali degli ultimi vent’anni almeno, vanno viste non con la lente parziale e dunque fuorviante dei rapporti fra Stati – fra USA, UE, Russia etc, o fra i diversi Stati europei – ma con quella delle cruciali divisioni interne agli Stati in questione, e dunque del fattore lobby: quel fenomeno che riuscì nel 1991 a trascinare la riluttante coppia Bush senior-Baker nella prima guerra contro l’Iraq; che fu presente anche nella guerra di Cecenia contro la Russia, sostenuta dal banchiere e ex presidente della Sinagoga di Mosca Boris Berezovsky; che operò attivamente nelle guerre dei Balcani, fra le trame dell’Albright a Rambouillet e quelle di George Soros nel Kosovo, per distruggere la Yugoslavia di un capo di stato – Milosevic - in conflitto con il FMI e col direttore della Banca nazionale di Belgrado Abramovich: via via, passando per le guerre africane della Sierra leone e dei Grandi laghi, fino all’invasione dell’Iraq del 2003, sulla quale un congressista americano, Jim Moran, osò chiedere a Bush junior pochi giorni prima dell’invasione: “Presidente, ma lei è sicuro di non fare gli interessi di Israele?”. Bush, avvolto nelle nebbie ideologiche del suo fumoso ma anche terribilmente concreto “cristiano-sionismo” (un ossimoro obiettivamente blasfemo) non rispose; rispose invece la potente Comunità ebraica americana con la solita accusa di antisemitismo, e il risultato fu che l’intelligente ma debole Moran finì nella numerosa lista di congressisti americani firmatari di un appello per un intervento “umanitario” contro il Sudan, in nome di un inesistente “genocidio del Darfur” inventato dalla solita stampa lobbista “democratico-progessista” negli USA e di poi in Europa. Una guerra quella del Darfur, indirettamente finita sotto gli strali proprio di Gheddafi, che nel 2009 rivolse un attacco durissimo a Israele per il suo fomentare e provocare guerre in tutto il continente africano, e alla Corte penale internazionale che in Africa agiva (e agisce) come strumento giuridico internazionale a difesa obbiettiva dei soliti “poteri forti” che oggi vogliono far fuori anche il rais di Tripoli (http://www.claudiomoffa.it/pdf/2009/Gheddafiharagione.pdf). Un’accusa – quella di Gheddafi – che sicuramente nei corridoi e nelle aule della Corte Penale avrà lasciato un pessimo ricordo, con conseguenze assolutamente funeste per lui nel caso in cui finisse sullo scranno degli imputati.
Ma, appunto, torniamo alla Libia di oggi, e andiamo al nocciolo della questione, il pushing delle lobbies verso la guerra alla Libia. Sono tre per adesso – al di là degli “Stati” formalmente rappresentati all’ONU - le personalità che rappresentano il maggior rischio per la pace nel Nordafrica e dunque per la comunità internazionale: la prima è il ministro degli esteri USA Hillary Clinton. Il curriculum della moglie dell’ex Presidente USA non è certo quello di una neocons: difese il marito Bill, sia pure con un certo ritardo, dall’aggressione lobbista sul caso Lewinsky del 1998. L’accusa di una ventina d’anni fa del repubblicano Pat Buchanan - la signora Rodham Clinton è una “spia del Mossad” - appare rozza, non fosse altro per il suo status allora già prominente. Ma è certo che l’identikit del Segretario di Stato ben rientra nel fenomeno della doppia nazionalità di tanti americani di origine ebraica, di cui il caso Pollard è emblema . Ed è altrettanto certo che la moglie di Clinton era entrata in competizione con Obama durante le primarie, fino a ricordare in un momento di difficoltà l’assassinio di Kennedy (il quale, per inciso, e alla cortese attenzione dei “negazionisti” del fattore lobby nella storia e nella cronaca politica americana, si scontrò anch’egli con lo stesso mondo che accerchia oggi Obama, a causa delle sue posizioni contro il signoraggio e del suo dialogo aperto con Nasser, l’”Hitler” arabo secondo la propaganda sionista di mezzo secolo fa), e fino a gettare le armi solo dopo un accordo per la sua nomina appunto a Segretario di Stato. La dialettica Obama-Clinton non è certo plateale come quella fra Berlusconi e Fini, ma se si segue la cronologia degli eventi esiste eccome: la nomina di Mitchell a inviato speciale della Casa Bianca in Medio Oriente ha costituito un pendant utile per il capo della Casa Bianca. E durante questa crisi, la crisi libica, si può notare che a certi silenzi del presidente americano ha corrisposto un attivismo al rialzo del Segretario di stato, comprensivo delle doppie interpretazioni della posizione ufficiale USA: il “tutte le opzioni sono possibili”, come va inteso? Nel senso di un recupero di Gheddafi, o di un attacco armato? E’ chiarissimo che la Clinton punta alla seconda soluzione: non a caso ha chiesto a Ginevra che si parlasse di Tripoli non solo in termini di emergenza umanitaria, ma anche dal punto di vista politico. Né è un caso che, sconfitta al Consiglio di Sicurezza l’opzione no-fly zone, sia ancora la Clinton a profetizzare giusto ieri uno scenario somalo (per ora impossibile, proprio perché l’aviazione permette una superiorità dul terreno militari al governo gheddafista) altro buon motivo per l’invasione umanitaria angloamericana. “Gheddafi deve andarsene subito in esilio” ha ordinato la signora Rodham al rais ma anche al mondo intero …. Si potrà dire che insistere sulle distinzioni fra il capo della Casa Bianca, in crisi da tempo con il mondo di Wall Street che alcuni vedono dietro i fattori di base delle rivolte arabe , e la Clinton è esagerato: ma è lo stesso Gheddafi ad avervi fatto ricorso, quando ha accennato alla cattiva informazione di cui sarebbe vittima Obama, una “brava persona” . E ci sono alcuni analisi giornalistiche che finalmente vanno in questo senso.
Analogo discorso vale per la Gran Bretagna, con quella battuta del rais di Tripoli sulla regina Elisabetta che alcuni hanno definito frutto di una sua farneticazione e che invece potrebbe esser ben riferita alla dialettica interna al “regime” di Londra. Il rais cerca di far sponda sulle contraddizioni interne dei suoi nemici. Ed ecco il secondo pericolo per la pace nel Mediterraneo: David Cameron. Gli iraniani insistono spesso per sottolineare il ruolo di guida della Gran Bretagna di quell’insieme di “poteri forti” di cui fa parte la finanza sionista e lo stato di Israele. E’ la vecchia “perfida Albione” dei tempi di Mussolini, l’M16 che starebbe dietro l’uccisione del dittatore italiano contro la storia partigiana ufficiale, e in contatto con Cefis – il nemico di Mattei - dai tempi della guerriglia nella Valdossola. A questo ruolo di protagonista delle prospettive sioniste mondiali, ben si attaglia il primo ministro britannico : figlio di un agente di borsa della City, con ascendenze ebraiche (la nonna paterna si chiamava Edith Agnes Maud Levita), Cameron è membro dei Conservative Friends of Israel ed ha sempre manifestato forti sentimenti antislamici e prosionisti: in una conferenza stampa del 2005 in vista delle elezioni per la leadership dei Tories, se ne uscì paragonando il “terrorismo islamista” al nazismo e al comunismo ; nel 2007, si dichiarò apertamente “sionista”, e sostenne che nel DNA dei Conservatori inglesi c’era il sostegno ad Israele . Forte di queste prese di posizione, fu facile per lui diventare primo ministro dopo le sconfitte subite dai laburisti di Toiny Blair. Il suo pushing nella crisi attuale è evidente: il primo marzo ha ribadito di essere favorevole alle no-fly zone, perché Gheddafi “non può uccidere il suo popolo” . Cameron, è vero, si era pronunciato anche a favore di “concessioni” di Israele sulla questione palestinese durante la rivolta egiziana, ma pur non avendole ottenute ha ovviamente continuato a restare fedele al suo campo di appartenenza ideologica internazionale.
Infine c’è la Russia, la Russia di Medvedev: la sortita del ministro degli esteri Lavrov – che tre giorni fa “ha condannato l'uso "inaccettabile" della forza contro i civili” secondo quanto ha “riferito lo stesso il ministero russo” a proposito di una sua telefonata al ministro degli esteri di Gheddafi - potrebbe essere un giusto monito a non prestare il fianco al pushing Clinton-Cameron, ma potrebbe anche costituire un segnale di disponibilità del presidente Medvedev – ben legato a una ancora potente lobby pro israeliana in Russia - al grande passo. I biografi di Lavrov sostengono che egli non ha mai fatto parte dell’entourage di Putin , è altro rispetto a colui che fece fuori uno dopo l’altro gli esponenti della finanza russo-ebraica della “famiglia” di Eltsin. Lavrov vuole emulare il georgiano Shevarnadze, il ministro degli esteri di Eltsin che nel 1991 avrebbe gradito una partecipazione sovietica all’invasione-attacco angloamericano dell’Iraq? E’ improbabile, ma molto dipenderà dai rapporti di forza tra Medvedev e Putin, e dalla situazione sul terreno in LIbia: basterà una “strage mediatica” inventata o enfatizzata dai soliti Harry Potter “progressisti” della stampa mondiale, per far scoppiare la scintilla. Hanno già fatto così, probabilmente, con i morti di Misurata: erano innocenti “civili”? O erano (e sono) ribelli in armi – e armati da chissachi – contro cui appare cosa assolutamente normale e addirittura legittimo ai sensi dell’art. 2 della Carta dell’ONU, l’esercizio della forza da parte del governo centrale?
Inutile dire dunque, che la situazione è tutt’altro che tranquilla. I pericoli per la pace sono enormi. Lo scenario somalo evocato dalla Clinton dopo il momentaneo fallimento della no fly zone, può essere il preannuncio di orribili attentati stragisti che “obblighino” la solita comunità internazionale a intervenire manu militari. La risoluzione 1970 – peraltro comprensibilmente irrisa da Gheddafi - non basta. Occorrerebbe una concertazione dei leaders più responsabili per evitare il peggio, impedita però oltre che dalle difficoltà di origine lobbista, interne ai diversi scenari nazionali, anche da un gioco perverso alla competizione alimentato dall’adagiarsi su vecchi schemi “destra-sinistra”. Obama è veramente su un fronte opposto, come alluso da alcuni articoli de il Giornale durante la rivolta egiziana di gennaio-febbraio? Oppure Obama alle prese con la Clinton è nella stessa situazione di Berlusconi e dei suoi ministri più impegnati per ruolo nella crisi libica? L’intervento del ministro Maroni – l’insistere, anche per salvare l’Italia e l’Europa dagli esodi in massa di profughi dalle crisi del nord Africa su un immediato intervento umanitario in Tunisia – è stato ancora una volta eccellente. Ma la situazione è per altri versi fluida, anche perché Berlusconi è alle prese con il pasticcio mediatico-giudiziario di Ruby e signorine.
.. Anche al di fuori dell’Europa il quadro è difficile, favorito indubbiamente dalla politica di (auto?) isolamento della Jamahiryia laica in un Medio Oriente scosso dai fermenti, ora progressivi ora reazionari del nuovo Islam postbipolare. La Cina non ha mai svolto un ruolo promotore di diplomazia alternativa, le sue posizioni sembrano una diretta emanazione delle politiche commerciali e di investimenti all’estero, ed il denaro – si dice – non ha colore. La Turchia perde tempo in questi giorni a litigare con la Germania sull’insegnamento del turco nelle scuole tedesche, questione su cui – per inciso – la Merkel ha pienamente ragione a rivendicare il primato della lingua tedesca in terra tedesca. Solo il Venezuela ha reagito accusando Washington di voler occupare la Libia. Quanto al defilarsi dell’Iran, stupisce e non stupisce: non stupisce perché la speranza di Teheran è quella di riempire con il suo Islam progressivo i vuoti di potere aperti dalle rivolte nei paesi arabi, Libia compresa, dalla quale è distante per la natura laica del regime di Tripoli. E’ l’accusa della stessa Clinton, con riferimento specifico all’Egitto e al Bahrein. Ma stupisce perché la flotta americana di fronte alle coste libiche è la stessa che minaccia e ha sempre minacciato il Golfo persico. Cosa pesa di più nelle considerazioni di Teheran? La permanenza al potere di un leader arabo indubbiamente inviso, o un successo anglo-americano che potrebbe, una volta inghiottito il boccone libico, riversarsi negativamente non solo sull’Iran ma su tutti gli equilibri mediorientali?
di Claudio Moffa
03 marzo 2011
Lo spettro di un attacco armato anglo-americano contro la Libia
02 marzo 2011
Scuola pubblica o privata?
I nostri sono tempi bui in cui occorrerebbe focalizzare l’attenzione soprattutto sui drammatici ed eccezionali eventi che stanno trasformando la morfologia politica planetaria e che presto sconvolgeranno le vite di tutti noi, anche nella quotidianità lavorativa e culturale. Le formazioni sociali mondiali sono infatti trascinate nel vortice di grandi cambiamenti geopolitici che riconfigurano, passo dopo passo, i rapporti di forze tra le Potenze restituendoci un contesto epocale molto differente da quello attuale.
Tuttavia, non si può fare a meno di notare come nel quadro politico italiano i rivolgimenti internazionali in corso risultino quasi del tutto sussidiari ed accessori alle piccole beghe interne. Sono quest’ultime ad informare il clima generale che risulta viepiù asfittico e svigorito mentre occorrerebbe riposizionarsi, con nuovi strumenti concettuali, nelle correnti globali al fine di afferrare il senso delle metamorfosi in atto e magari trovare il sistema, per quanto possibile, di governarle a proprio favore. Ma purtroppo per noi, considerata la cifra cerebrale della nostra classe dirigente, ci troviamo a confrontarci con minuzie di poco conto che non ci avvicinano nemmeno di un millimetro ai grandi temi di domani. Tuttavia, pur con un spirito diverso, cioè con l’intento esplicito di rompere i fatui schematismi bipolari che accaldano e inveleniscono il dibattito politico peninsulare senza mai, et pour cause, dare risultati adeguati, dobbiamo entrare nel merito di questa corta visione per smascherarla agli occhi di chi non vuole rinunciare ad offrire al proprio Paese un orizzonte di possibilità meno angusto. L’ultima sciocca diatriba tra governo ed opposizione è scoppiata sulla scuola. Per il primo è fondamentale la libertà di scelta di famiglie e discenti che hanno diritto di costruire il proprio futuro secondo i propri gusti intellettuali, ma si tratta di un paravento ideologico che copre un pregiudizio ed uno sbilanciamento a favore degli istituti privati i quali rispondono meglio alle logiche di profitto. Per la seconda, invece, l’istruzione deve restare pubblica al fine di garantire l’accessibilità anche a chi non può permettersi di pagare rette troppo elevate. Ma anche in questo caso siamo di fronte ad una valutazione di comodo, più elettorale che sociale, poiché la sinistra considera il ceto degli insegnanti uno storico bacino di consenso da non scontentare con azioni avverse. Dai preconcetti reciproci nasce dunque una stanca battaglia che ha come unico effetto quello creare sistemi di protezione e di sinecure, tanto nel privato che nel pubblico, che fanno decadere il livello generale dell’istruzione in questa benedetta nazione. Di questo si alimenta la casta professorale, soprattutto statale, la quale, proprio come quella dei magistrati, considera il proprio luogo di lavoro un esclusivo possedimento dove non valgono le leggi del Parlamento ma al più le direttive del consiglio docenti. Innanzitutto, occorre ribadire che non è mai la forma giuridica della proprietà a determinare la migliore performatività delle organizzazioni che per essere efficaci ed efficienti devono essere ispirate da uomini intelligenti e da processi innovativi e al passo coi tempi. Detto ciò, ci conviene non schierarci con nessuna delle due parti perché quando a destra sviolinano sulle scuole private hanno in testa un’idea elitaria di insegnamento pagata in contanti, mentre a sinistra vige la classica doppiezza di chi agita la bisaccia del mendicante per stare col popolo ma sotto la manica volteggiante risulta vestito all’ultima moda. Difatti questi signori di sedicente sinistra dovrebbero spiegarci perché vanno in piazza contro qualsiasi riforma della scuola ma poi infilano i loro figli nei migliori istituti privati. Cito da un articolo riportato ieri su Il Giornale: “Le figlie di Francesco Rutelli, per esempio, sono state equamente divise fra due scuole: tutte e due private. Una si è iscritta ai liceo privato Kennedy, l’altra al prestigiosissimo collegio San Giuseppe de Merode, l’istituto dei Fratelli delle scuole cristiane che si affaccia, nientemeno, su Piazza di Spagna. «Per tutta la mia vita - ha spiegato lo stesso Rutelli al Giornale - io stesso e i miei familiari abbiamo frequentato sia scuole ed università pubbliche, sia non statali, cattoliche o laiche. Di volta in volta, è stata una scelta condivisa di figli e genitori». Anche la discendente dell’ex ministro dello sport Giovanna Melandri ha preso la direzione delle scuole paritarie: a casa Melandri prediligono il collegio San Giuseppe di via del Casaletto. Altri invece studiano in scuole estere: organizzate a meraviglia, utilissime per imparare una lingua e sprovincializzare il cervello, portandolo lontano dalle polemiche ombelicali di casa nostra: la figlia di Santoro va allo Chateaubriand, dove la prima lingua è il francese e l’italiano è terra straniera. Il figlio del regista Nanni Moretti è invece sintonizzato sull’inglese e cresce all’Ambrit International School, sempre nella capitale. Insomma, ai tradizionali istituti religiosi si affianca il meglio della cultura internazionale: enclave nel cuore della capitale in cui si respira l’aria di New York o di Parigi. L’elenco però è lungo e va continuamente aggiornato anche se molti di questi ragazzi, figli della sinistra chic, manifestano nelle occasioni canoniche mescolandosi ai ragazzi delle scuole pubbliche: si mettono dietro striscioni colorati e soffiano nei fischetti sempre a portata di mano. I discendenti di Anna Finocchiaro studiano in un istituto di Catania, l’ex ministro della Pubblica Istruzione Beppe Fioroni, il predecessore della Gelmini, ha paracadutato il rampollo al liceo scientifico Cardinal Ragonesi di Viterbo, curiosamente la stessa scuola frequentata da papà a suo tempo. Il Cardinal Ragonesi è gestito dai Fratelli Maristi, una congregazione religiosa fondata in Francia duecento anni fa da san Marcellino Champagnat. E nel recinto più o meno dorato delle scuole private si trovano le nuove generazioni di altre famiglie della nomenklatura: dai figli dell’imprenditore Alfio Marchini ai nipoti dell’ex presidente della Camera Fausto Bertinotti. Insomma, la futura classe dirigente si mescola alla piazza ma poi torna sui banchi di scuole costose ed elitarie, ove si insegna il meglio con i mezzi migliori. Sorpresa: frequenta uno di questi istituti, il carissimo San Carlo di Milano, Giovanni. Ricordate? Giovanni è il tredicenne che si è guadagnato la standing ovation e i riflettori della stampa nella recente manifestazione del Palasharp di Milano: lì si è esibito per due minuti contro il presidente del consiglio. Il ragazzino ha puntato il dito contro il governo perché «parla di scuola pubblica solo per tagliarne i fondi». Legittimo, ci mancherebbe, tuonare contro la Gelmini. Lui però è al riparo dal piccone. I suoi genitori pagano rette salatissime al San Carlo. Per la cronaca, la madre è una delle animatrici di Giustizia & Libertà, il movimento che ha calamitato l’opposizione al Palasharp, ed è avvocato di fiducia di Carlo De Benedetti nel processo sul Lodo Mondadori. Insomma, l’opposizione è a tempo pieno, ma quando suona la campanella si cambia registro”. Lo stesso dicasi per la sanità che costoro, sempre in fregola d’identificarsi coi dannati della terra, pretendono sia pubblica salvo alla prima malattia o visita di controllo recarsi nelle più moderne cliniche private. Da D’Alema a Bertinotti non si salva nessuno, o meglio si salvano tutti perché possono permetterselo. A noi poveri mortali ci lasciano solo i peggiori bar di Caracas dove preferiamo ubriacarci per non dovergli dare retta. Concludo con un' ultima riflessione. I nostri governanti sanno insultarsi tra loro per ogni cosa ma non sanno proporre soluzioni per nulla. Diceva il grande Schopenhauer che colui che insulta dimostra con ciò di non essere in grado di addurre, contro l'altro, nulla di veritiero e di concreto, perchè altrimenti lo direbbe come promessa, lasciando a chi ha sentito la possibilità di trarre da sé le conclusioni; invece dà la conclusione e resta debitore delle premesse. Appunto. Quali conclusioni dovremmo trarre noi italiani da questo balletto di improperi bipartizan?
di Gianni Petrosillo
01 marzo 2011
L'ideologia dell'anti-stato
Si avvera dunque la facile profezia che avevamo formulato solo una settimana fa. Altro che senso dello Stato, altro che tregua istituzionale: Silvio Berlusconi si prepara a consumare quel che resta della legislatura all'insegna del conflitto permanente. C'è da chiedersi perché lo fa. C'è da chiedersi quale vantaggio possa trarre lui stesso, da un'aggressione sistematica che destabilizza gli equilibri costituzionali e avvelena le relazioni istituzionali. Le sue parole, da questo punto di vista, si prestano a un doppio livello di analisi possibile.
In primo luogo c'è la strategia politica. Risolto con una scandalosa compravendita il duello contro Gianfranco Fini, rinsaldata a suon di prebende un'esangue maggioranza aritmetica, neutralizzato momentaneamente l'assedio dell'opposizione parlamentare, il premier ha ora un bisogno disperato di trovare altri "contro-poteri" e di additarli all'opinione pubblica come ostacoli insormontabili sul cammino della "modernizzazione". Sa che non potrà fare le "grandi riforme" promesse in campagna elettorale. Non potrà varare la storica "rivoluzione fiscale" che consentirà ai contribuenti di pagare meno tasse, perché non ha il coraggio di stanare l'evasione. Non potrà varare un serio pacchetto di "scossa" all'economia, perché non sa trovare le risorse necessarie. Non potrà varare un vero riordino della giustizia nell'interesse di tutti i cittadini, perché la sua unica ossessione è un "ordinamento ad personam" che consenta solo a lui di salvarsi dai suoi processi.
Il suo carniere è vuoto. E resterà vuoto di qui alla fine della legislatura, anticipata o naturale che sia. Per questo deve trovare un capro espiatorio, sul quale scaricare i suoi fallimenti e travestirli da "impedimenti". Il Quirinale e la Consulta sono due bersagli ottimali. Con il suo attacco frontale, il Cavaliere sta dicendo agli italiani: sappiate che se non sono riuscito a risolvere i vostri problemi la colpa non è mia, ma di chi ha demolito le mie leggi. Quello di Berlusconi è solo un gigantesco alibi, che nasconde una colossale bugia. Ma solo di questo, oggi, può vivere il suo sfibrato governo e la sua disastrata coalizione: alibi e bugie, su cui galleggiare fino al 2013, per poi tentare il grande salto sul Colle più alto. A dispetto degli scandali privati di cui è stato protagonista e dei disastri pubblici di cui è stato artefice.
In secondo luogo c'è la "filosofia" politica. E qui, purtroppo, il presidente del Consiglio non fa altro che confermare la natura tecnicamente eversiva del suo modo di intendere il governo e la dialettica tra i poteri, la Carta costituzionale e lo Stato di diritto. In una parola, la democrazia. È tecnicamente eversiva l'idea che il presidente della Repubblica o la Consulta possano rinviare o bocciare una legge "perché non gli piace": non lo sfiora nemmeno il dubbio che l'uno o l'altra, nel giudicare sulla legittimità di una norma, agiscano semplicemente in base alle prerogative fissate dalla Costituzione agli articoli 74, 87 e 134. È tecnicamente eversiva l'idea che in Parlamento "lavorano al massimo 50 persone, mentre tutti gli altri stanno lì a fare pettegolezzo": non lo sfiora nemmeno il sospetto che la trasfigurazione delle Camere in volgare "votificio" sia esattamente il risultato della torsione delle regole che lui stesso ha voluto e causato, con decreti omnibus piovuti sulle assemblee legislative e imposti a colpi di fiducia.
Ma qui sta davvero l'essenza del berlusconismo. Cioè quell'impasto deforme di plebiscitarismo e populismo, di violenza anti-politica e onnipotenza carismatica. Da questa miscela esplosiva, con tutta evidenza, nasce l'Anti-Stato che ormai il Cavaliere incarna, in tutte le sue forme più esasperate e conflittuali. In questa dimensione distruttiva, la stessa democrazia, con i suoi canoni e i suoi precetti, non è più il "luogo" nel quale ci si deve confrontare, ma diventa la "gabbia" dalla quale ci si deve liberare. Contro il popolo, in nome del popolo. "Dispotismo democratico", l'aveva definito Alexis de Tocqueville. Scriveva dall'America, due secoli fa. È una formula perfetta per l'Italia di oggi.
di massimo giannini
03 marzo 2011
Lo spettro di un attacco armato anglo-americano contro la Libia
Il fattore lobby nella crisi libica
Le lobbies si muovono, pronte a sferrare l’attacco armato a Gheddafi e a trasformare – con l’aiuto determinante dei loro mezzi di informazione - la guerra civile libica in una nuova operazione Iraq, l’invasione e la defenestrazione manu militari del sin qui legittimo Governo. Ovviamente la partita è ancora aperta, ma il rischio della svolta drammatica c’è, e ed è paradossalmente favorito proprio dal forte recupero sul terreno di Gheddafi e delle forze militari e civili-militari schieratesi a sua difesa: Tripoli città tranquilla, anche ma non solo, grazie alla promessa di un contributo di 500 dinari ai suoi abitanti; Misurata e altri centri minori sotto attacco dei gheddafisti, con perdite tra i rivoltosi; Bengasi a rischio di fuga da panico di centinaia e forse migliaia di abitanti, da cui l’evidente crisi di credibilità del “governo ombra” della Cirenaica, che dal canto suo ha dato diversi consistenti segnali di “moderatismo” rispetto alle aspettative e alle trame dei falchi lobbisti occidentali: un giornale titolato “Libia” (non Cirenaica), un organismo dirigente autoproclamatosi non “Governo provvisorio” cirenaico ma “Consiglio nazionale libico”; un leader nella persona di un ex ministro di Gheddafi: è probabile che il rifiuto dell’opzione separatista sia solo il corrispettivo, una sorta di pendant, dei 300 euro di Gheddafi alla popolazione di Tripoli: vale a dire di un messaggio rivolto ai libici delle zone occidentali sotto controllo del governo, che i pozzi petroliferi non verranno loro sottratti attraverso una secessione e che dunque possono benissimo abbandonare il rais. Ma è un dato di fatto che le prese di posizioni ufficiali da Bengasi – finché dureranno – impediscono per ora uno scenario catastrofico del futuro della Jamahirya.
A questi segnali interni positivi (dove il termine positivo va calibrato nel contesto di una situazione comunque drammatica e precaria) corrisponde poi, sul piano internazionale, una posizione ufficiale della “Comunità internazionale”, cioè degli Stati nominalmente e formalmente esistenti, non completamente satisfattiva rispetto al martellamento mediatico dei mass media lobbisti: perché, contrariamente alla lettura faziosa della solita Repubblica, e come ha ben riassunto invece il Corriere della Sera, la risoluzione 1970 del Consiglio di Sicurezza del 26 febbraio scorso si presenta ad una lettura attenta come frutto di un lavorio e una mediazione laboriosa che – per l’opposizione della Cina e della Russia - ha eliminato alcuni punti programmatici fondamentali del bellicismo antigheddafista: l’articolo della Carta dell’ONU di riferimento non è il 42, quello che prevede interventi armati della solita comunità internazionale contro i paesi sovrani, e che fu un classico di tutte le “ingerenze umanitarie” dagli anni Novanta al 2003 iracheno, ma il 41, che concerne misure di tipo diverso, ad esempio l’embargo (di armi) o nel caso libico il sequestro dei beni del gruppo dirigente gheddafista, familiari compresi. E’ assolutamente importante che non siano state decise le no fly zones, un elemento cruciale dal punto di vista dei rapporti militari fra governo centrale e ribelli, e che nel 1991, applicate all’Iraq, segnarono l’inizio della fine del regime di Saddam Hussein, impedito ad intervenire con l’aviazione contro il ribellismo endemico degli sciiti al sud e dei curdi al nord.
Un paragrafo della 1790 riguarda poi la Corte Penale Internazionale: da una parte il punto 7 della risoluzione “invite le Procureur à l’informer, dans les deux mois suivant la date de l’adoption de la présente résolution, puis tous les six mois, de la suite donnée à celle-ci”; dall’altra però il preambolo richiama l’articolo 16 dello Statuto della CPI, che ricorda “l’article 16 du Statut de Rome, selon lequel aucune enquête ni aucune poursuite ne peuvent être engagées ni menées par la Cour pénale internationale pendant les 12 mois qui suivent la date à laquelle il a lui-même fait une demande en ce sens”: il processo eventuale potrebbe essere perciò di là da venire e lo stesso classico capo d’accusa – “crimini contro l’umanità” – viene citato nel testo una sola volta, al condizionale (“pourraient …”) e nel Preambolo.
Dunque – considerando anche “adhésion à la souveraineté, à l’indépendance, à l’intégrité territoriale et à l’unité nationale de la Jamahiriya arabe libyenne” del documento ONU - siamo di fronte a un testo che può lasciare uno spiraglio aperto ad un superamento della crisi e a un recupero teorico dello stesso rais di Tripoli al consesso internazionale, quale voluto da qualche raro leader occidentale oggi in difficoltà. La 1970 non presenta le caratteristiche delle risoluzioni antijugoslave e antiirachene degli anni Novanta, tutte fondate su un preteso “diritto di ingerenza umanitaria” (sostenuto anche dai media sedicenti di sinistra: vedi Dominique Vidal su Le Monde Diplomatique durante le guerre dei Balcani) e dunque su quello sfondamento del “dominio riservato” degli Stati membri dell’ONU – quale è la Libia - in cui la scuola classica giuridico-internazionalista ha sempre visto un momento fondamentale degli equilibri e del rispetto delle regole internazionali e della pace da garantirsi da parte dall’ONU.
Ma allora, se la “comunità internazionale” ha dato questi segnali, perché temere il peggio? Per diversi e corposi motivi: innanzitutto la risoluzione – in una situazione in continua evoluzione-involuzione, e in cui le parole anche scritte potranno in ogni momento essere annullate dalla politica del fatto compiuto – è pur sempre un “pezzo di carta”: basterà una scintilla, una trasformazione mediatica di una legittima repressione di ribelli armati in un “crimine contro l’umanità” per renderla superata, e per favorire altre prese di posizioni della “Comunità internazionale” di molto peggiori.
In secondo luogo per il ruolo appena accennato dei grandi mass media euroamericani, e soprattutto di quelli sedicenti “democratici”, diversi dei quali persino di “sinistra”: esattamente come nel caso delle polemiche nazionali, sono i grandi mass media lobbisti a precedere le sentenze e a plasmare le decisioni istituzionali, nel caso specifico le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. Una (parziale) eccezione, la 1970, non dà alcuna garanzia per il futuro, perché la sua stessa faziosa lettura da parte dei soliti media è capace di alimentare un clima di isteria internazionale che poi, alla fine, potrà produrre il frutto “buono”: il via all’aggressione militare. Leggiamo il titolo di apertura di Repubblica del 28 febbraio: “L’ONU: processate Gheddafi”. “Crimini contro l’umanità”. Gli Usa: aiuteremo gli insorti” Ebbene, non c’è una sola unità di notizia di questo proclama che corrisponda alla verità dei fatti: non è propriamente vero che l’ONU ha chiesto di processare Gheddafi, ha invitato il procuratore ad avviare le indagini sulla crisi libica, da cui una incriminazione ancora da decidere; non è vero dunque che c’è già un capo di imputazione, i “crimini contro l’umanità”, citati come già detto solo nel Preambolo come possibile crimine compiuto da non ben è specificato chi; non è nemmeno vero che gli USA vogliono “aiutare gli insorti”. Lo dice la Rodham Clinton, che è una voce pur autorevole dell’Amministrazione USA. E qui dunque veniamo al terzo e più importante motivo per cui non è possibile essere ottimisti sugli sviluppi della situazione libica.
In effetti la crisi libica, come tutte le altre crisi internazionali degli ultimi vent’anni almeno, vanno viste non con la lente parziale e dunque fuorviante dei rapporti fra Stati – fra USA, UE, Russia etc, o fra i diversi Stati europei – ma con quella delle cruciali divisioni interne agli Stati in questione, e dunque del fattore lobby: quel fenomeno che riuscì nel 1991 a trascinare la riluttante coppia Bush senior-Baker nella prima guerra contro l’Iraq; che fu presente anche nella guerra di Cecenia contro la Russia, sostenuta dal banchiere e ex presidente della Sinagoga di Mosca Boris Berezovsky; che operò attivamente nelle guerre dei Balcani, fra le trame dell’Albright a Rambouillet e quelle di George Soros nel Kosovo, per distruggere la Yugoslavia di un capo di stato – Milosevic - in conflitto con il FMI e col direttore della Banca nazionale di Belgrado Abramovich: via via, passando per le guerre africane della Sierra leone e dei Grandi laghi, fino all’invasione dell’Iraq del 2003, sulla quale un congressista americano, Jim Moran, osò chiedere a Bush junior pochi giorni prima dell’invasione: “Presidente, ma lei è sicuro di non fare gli interessi di Israele?”. Bush, avvolto nelle nebbie ideologiche del suo fumoso ma anche terribilmente concreto “cristiano-sionismo” (un ossimoro obiettivamente blasfemo) non rispose; rispose invece la potente Comunità ebraica americana con la solita accusa di antisemitismo, e il risultato fu che l’intelligente ma debole Moran finì nella numerosa lista di congressisti americani firmatari di un appello per un intervento “umanitario” contro il Sudan, in nome di un inesistente “genocidio del Darfur” inventato dalla solita stampa lobbista “democratico-progessista” negli USA e di poi in Europa. Una guerra quella del Darfur, indirettamente finita sotto gli strali proprio di Gheddafi, che nel 2009 rivolse un attacco durissimo a Israele per il suo fomentare e provocare guerre in tutto il continente africano, e alla Corte penale internazionale che in Africa agiva (e agisce) come strumento giuridico internazionale a difesa obbiettiva dei soliti “poteri forti” che oggi vogliono far fuori anche il rais di Tripoli (http://www.claudiomoffa.it/pdf/2009/Gheddafiharagione.pdf). Un’accusa – quella di Gheddafi – che sicuramente nei corridoi e nelle aule della Corte Penale avrà lasciato un pessimo ricordo, con conseguenze assolutamente funeste per lui nel caso in cui finisse sullo scranno degli imputati.
Ma, appunto, torniamo alla Libia di oggi, e andiamo al nocciolo della questione, il pushing delle lobbies verso la guerra alla Libia. Sono tre per adesso – al di là degli “Stati” formalmente rappresentati all’ONU - le personalità che rappresentano il maggior rischio per la pace nel Nordafrica e dunque per la comunità internazionale: la prima è il ministro degli esteri USA Hillary Clinton. Il curriculum della moglie dell’ex Presidente USA non è certo quello di una neocons: difese il marito Bill, sia pure con un certo ritardo, dall’aggressione lobbista sul caso Lewinsky del 1998. L’accusa di una ventina d’anni fa del repubblicano Pat Buchanan - la signora Rodham Clinton è una “spia del Mossad” - appare rozza, non fosse altro per il suo status allora già prominente. Ma è certo che l’identikit del Segretario di Stato ben rientra nel fenomeno della doppia nazionalità di tanti americani di origine ebraica, di cui il caso Pollard è emblema . Ed è altrettanto certo che la moglie di Clinton era entrata in competizione con Obama durante le primarie, fino a ricordare in un momento di difficoltà l’assassinio di Kennedy (il quale, per inciso, e alla cortese attenzione dei “negazionisti” del fattore lobby nella storia e nella cronaca politica americana, si scontrò anch’egli con lo stesso mondo che accerchia oggi Obama, a causa delle sue posizioni contro il signoraggio e del suo dialogo aperto con Nasser, l’”Hitler” arabo secondo la propaganda sionista di mezzo secolo fa), e fino a gettare le armi solo dopo un accordo per la sua nomina appunto a Segretario di Stato. La dialettica Obama-Clinton non è certo plateale come quella fra Berlusconi e Fini, ma se si segue la cronologia degli eventi esiste eccome: la nomina di Mitchell a inviato speciale della Casa Bianca in Medio Oriente ha costituito un pendant utile per il capo della Casa Bianca. E durante questa crisi, la crisi libica, si può notare che a certi silenzi del presidente americano ha corrisposto un attivismo al rialzo del Segretario di stato, comprensivo delle doppie interpretazioni della posizione ufficiale USA: il “tutte le opzioni sono possibili”, come va inteso? Nel senso di un recupero di Gheddafi, o di un attacco armato? E’ chiarissimo che la Clinton punta alla seconda soluzione: non a caso ha chiesto a Ginevra che si parlasse di Tripoli non solo in termini di emergenza umanitaria, ma anche dal punto di vista politico. Né è un caso che, sconfitta al Consiglio di Sicurezza l’opzione no-fly zone, sia ancora la Clinton a profetizzare giusto ieri uno scenario somalo (per ora impossibile, proprio perché l’aviazione permette una superiorità dul terreno militari al governo gheddafista) altro buon motivo per l’invasione umanitaria angloamericana. “Gheddafi deve andarsene subito in esilio” ha ordinato la signora Rodham al rais ma anche al mondo intero …. Si potrà dire che insistere sulle distinzioni fra il capo della Casa Bianca, in crisi da tempo con il mondo di Wall Street che alcuni vedono dietro i fattori di base delle rivolte arabe , e la Clinton è esagerato: ma è lo stesso Gheddafi ad avervi fatto ricorso, quando ha accennato alla cattiva informazione di cui sarebbe vittima Obama, una “brava persona” . E ci sono alcuni analisi giornalistiche che finalmente vanno in questo senso.
Analogo discorso vale per la Gran Bretagna, con quella battuta del rais di Tripoli sulla regina Elisabetta che alcuni hanno definito frutto di una sua farneticazione e che invece potrebbe esser ben riferita alla dialettica interna al “regime” di Londra. Il rais cerca di far sponda sulle contraddizioni interne dei suoi nemici. Ed ecco il secondo pericolo per la pace nel Mediterraneo: David Cameron. Gli iraniani insistono spesso per sottolineare il ruolo di guida della Gran Bretagna di quell’insieme di “poteri forti” di cui fa parte la finanza sionista e lo stato di Israele. E’ la vecchia “perfida Albione” dei tempi di Mussolini, l’M16 che starebbe dietro l’uccisione del dittatore italiano contro la storia partigiana ufficiale, e in contatto con Cefis – il nemico di Mattei - dai tempi della guerriglia nella Valdossola. A questo ruolo di protagonista delle prospettive sioniste mondiali, ben si attaglia il primo ministro britannico : figlio di un agente di borsa della City, con ascendenze ebraiche (la nonna paterna si chiamava Edith Agnes Maud Levita), Cameron è membro dei Conservative Friends of Israel ed ha sempre manifestato forti sentimenti antislamici e prosionisti: in una conferenza stampa del 2005 in vista delle elezioni per la leadership dei Tories, se ne uscì paragonando il “terrorismo islamista” al nazismo e al comunismo ; nel 2007, si dichiarò apertamente “sionista”, e sostenne che nel DNA dei Conservatori inglesi c’era il sostegno ad Israele . Forte di queste prese di posizione, fu facile per lui diventare primo ministro dopo le sconfitte subite dai laburisti di Toiny Blair. Il suo pushing nella crisi attuale è evidente: il primo marzo ha ribadito di essere favorevole alle no-fly zone, perché Gheddafi “non può uccidere il suo popolo” . Cameron, è vero, si era pronunciato anche a favore di “concessioni” di Israele sulla questione palestinese durante la rivolta egiziana, ma pur non avendole ottenute ha ovviamente continuato a restare fedele al suo campo di appartenenza ideologica internazionale.
Infine c’è la Russia, la Russia di Medvedev: la sortita del ministro degli esteri Lavrov – che tre giorni fa “ha condannato l'uso "inaccettabile" della forza contro i civili” secondo quanto ha “riferito lo stesso il ministero russo” a proposito di una sua telefonata al ministro degli esteri di Gheddafi - potrebbe essere un giusto monito a non prestare il fianco al pushing Clinton-Cameron, ma potrebbe anche costituire un segnale di disponibilità del presidente Medvedev – ben legato a una ancora potente lobby pro israeliana in Russia - al grande passo. I biografi di Lavrov sostengono che egli non ha mai fatto parte dell’entourage di Putin , è altro rispetto a colui che fece fuori uno dopo l’altro gli esponenti della finanza russo-ebraica della “famiglia” di Eltsin. Lavrov vuole emulare il georgiano Shevarnadze, il ministro degli esteri di Eltsin che nel 1991 avrebbe gradito una partecipazione sovietica all’invasione-attacco angloamericano dell’Iraq? E’ improbabile, ma molto dipenderà dai rapporti di forza tra Medvedev e Putin, e dalla situazione sul terreno in LIbia: basterà una “strage mediatica” inventata o enfatizzata dai soliti Harry Potter “progressisti” della stampa mondiale, per far scoppiare la scintilla. Hanno già fatto così, probabilmente, con i morti di Misurata: erano innocenti “civili”? O erano (e sono) ribelli in armi – e armati da chissachi – contro cui appare cosa assolutamente normale e addirittura legittimo ai sensi dell’art. 2 della Carta dell’ONU, l’esercizio della forza da parte del governo centrale?
Inutile dire dunque, che la situazione è tutt’altro che tranquilla. I pericoli per la pace sono enormi. Lo scenario somalo evocato dalla Clinton dopo il momentaneo fallimento della no fly zone, può essere il preannuncio di orribili attentati stragisti che “obblighino” la solita comunità internazionale a intervenire manu militari. La risoluzione 1970 – peraltro comprensibilmente irrisa da Gheddafi - non basta. Occorrerebbe una concertazione dei leaders più responsabili per evitare il peggio, impedita però oltre che dalle difficoltà di origine lobbista, interne ai diversi scenari nazionali, anche da un gioco perverso alla competizione alimentato dall’adagiarsi su vecchi schemi “destra-sinistra”. Obama è veramente su un fronte opposto, come alluso da alcuni articoli de il Giornale durante la rivolta egiziana di gennaio-febbraio? Oppure Obama alle prese con la Clinton è nella stessa situazione di Berlusconi e dei suoi ministri più impegnati per ruolo nella crisi libica? L’intervento del ministro Maroni – l’insistere, anche per salvare l’Italia e l’Europa dagli esodi in massa di profughi dalle crisi del nord Africa su un immediato intervento umanitario in Tunisia – è stato ancora una volta eccellente. Ma la situazione è per altri versi fluida, anche perché Berlusconi è alle prese con il pasticcio mediatico-giudiziario di Ruby e signorine.
.. Anche al di fuori dell’Europa il quadro è difficile, favorito indubbiamente dalla politica di (auto?) isolamento della Jamahiryia laica in un Medio Oriente scosso dai fermenti, ora progressivi ora reazionari del nuovo Islam postbipolare. La Cina non ha mai svolto un ruolo promotore di diplomazia alternativa, le sue posizioni sembrano una diretta emanazione delle politiche commerciali e di investimenti all’estero, ed il denaro – si dice – non ha colore. La Turchia perde tempo in questi giorni a litigare con la Germania sull’insegnamento del turco nelle scuole tedesche, questione su cui – per inciso – la Merkel ha pienamente ragione a rivendicare il primato della lingua tedesca in terra tedesca. Solo il Venezuela ha reagito accusando Washington di voler occupare la Libia. Quanto al defilarsi dell’Iran, stupisce e non stupisce: non stupisce perché la speranza di Teheran è quella di riempire con il suo Islam progressivo i vuoti di potere aperti dalle rivolte nei paesi arabi, Libia compresa, dalla quale è distante per la natura laica del regime di Tripoli. E’ l’accusa della stessa Clinton, con riferimento specifico all’Egitto e al Bahrein. Ma stupisce perché la flotta americana di fronte alle coste libiche è la stessa che minaccia e ha sempre minacciato il Golfo persico. Cosa pesa di più nelle considerazioni di Teheran? La permanenza al potere di un leader arabo indubbiamente inviso, o un successo anglo-americano che potrebbe, una volta inghiottito il boccone libico, riversarsi negativamente non solo sull’Iran ma su tutti gli equilibri mediorientali?
di Claudio Moffa
02 marzo 2011
Scuola pubblica o privata?
I nostri sono tempi bui in cui occorrerebbe focalizzare l’attenzione soprattutto sui drammatici ed eccezionali eventi che stanno trasformando la morfologia politica planetaria e che presto sconvolgeranno le vite di tutti noi, anche nella quotidianità lavorativa e culturale. Le formazioni sociali mondiali sono infatti trascinate nel vortice di grandi cambiamenti geopolitici che riconfigurano, passo dopo passo, i rapporti di forze tra le Potenze restituendoci un contesto epocale molto differente da quello attuale.
Tuttavia, non si può fare a meno di notare come nel quadro politico italiano i rivolgimenti internazionali in corso risultino quasi del tutto sussidiari ed accessori alle piccole beghe interne. Sono quest’ultime ad informare il clima generale che risulta viepiù asfittico e svigorito mentre occorrerebbe riposizionarsi, con nuovi strumenti concettuali, nelle correnti globali al fine di afferrare il senso delle metamorfosi in atto e magari trovare il sistema, per quanto possibile, di governarle a proprio favore. Ma purtroppo per noi, considerata la cifra cerebrale della nostra classe dirigente, ci troviamo a confrontarci con minuzie di poco conto che non ci avvicinano nemmeno di un millimetro ai grandi temi di domani. Tuttavia, pur con un spirito diverso, cioè con l’intento esplicito di rompere i fatui schematismi bipolari che accaldano e inveleniscono il dibattito politico peninsulare senza mai, et pour cause, dare risultati adeguati, dobbiamo entrare nel merito di questa corta visione per smascherarla agli occhi di chi non vuole rinunciare ad offrire al proprio Paese un orizzonte di possibilità meno angusto. L’ultima sciocca diatriba tra governo ed opposizione è scoppiata sulla scuola. Per il primo è fondamentale la libertà di scelta di famiglie e discenti che hanno diritto di costruire il proprio futuro secondo i propri gusti intellettuali, ma si tratta di un paravento ideologico che copre un pregiudizio ed uno sbilanciamento a favore degli istituti privati i quali rispondono meglio alle logiche di profitto. Per la seconda, invece, l’istruzione deve restare pubblica al fine di garantire l’accessibilità anche a chi non può permettersi di pagare rette troppo elevate. Ma anche in questo caso siamo di fronte ad una valutazione di comodo, più elettorale che sociale, poiché la sinistra considera il ceto degli insegnanti uno storico bacino di consenso da non scontentare con azioni avverse. Dai preconcetti reciproci nasce dunque una stanca battaglia che ha come unico effetto quello creare sistemi di protezione e di sinecure, tanto nel privato che nel pubblico, che fanno decadere il livello generale dell’istruzione in questa benedetta nazione. Di questo si alimenta la casta professorale, soprattutto statale, la quale, proprio come quella dei magistrati, considera il proprio luogo di lavoro un esclusivo possedimento dove non valgono le leggi del Parlamento ma al più le direttive del consiglio docenti. Innanzitutto, occorre ribadire che non è mai la forma giuridica della proprietà a determinare la migliore performatività delle organizzazioni che per essere efficaci ed efficienti devono essere ispirate da uomini intelligenti e da processi innovativi e al passo coi tempi. Detto ciò, ci conviene non schierarci con nessuna delle due parti perché quando a destra sviolinano sulle scuole private hanno in testa un’idea elitaria di insegnamento pagata in contanti, mentre a sinistra vige la classica doppiezza di chi agita la bisaccia del mendicante per stare col popolo ma sotto la manica volteggiante risulta vestito all’ultima moda. Difatti questi signori di sedicente sinistra dovrebbero spiegarci perché vanno in piazza contro qualsiasi riforma della scuola ma poi infilano i loro figli nei migliori istituti privati. Cito da un articolo riportato ieri su Il Giornale: “Le figlie di Francesco Rutelli, per esempio, sono state equamente divise fra due scuole: tutte e due private. Una si è iscritta ai liceo privato Kennedy, l’altra al prestigiosissimo collegio San Giuseppe de Merode, l’istituto dei Fratelli delle scuole cristiane che si affaccia, nientemeno, su Piazza di Spagna. «Per tutta la mia vita - ha spiegato lo stesso Rutelli al Giornale - io stesso e i miei familiari abbiamo frequentato sia scuole ed università pubbliche, sia non statali, cattoliche o laiche. Di volta in volta, è stata una scelta condivisa di figli e genitori». Anche la discendente dell’ex ministro dello sport Giovanna Melandri ha preso la direzione delle scuole paritarie: a casa Melandri prediligono il collegio San Giuseppe di via del Casaletto. Altri invece studiano in scuole estere: organizzate a meraviglia, utilissime per imparare una lingua e sprovincializzare il cervello, portandolo lontano dalle polemiche ombelicali di casa nostra: la figlia di Santoro va allo Chateaubriand, dove la prima lingua è il francese e l’italiano è terra straniera. Il figlio del regista Nanni Moretti è invece sintonizzato sull’inglese e cresce all’Ambrit International School, sempre nella capitale. Insomma, ai tradizionali istituti religiosi si affianca il meglio della cultura internazionale: enclave nel cuore della capitale in cui si respira l’aria di New York o di Parigi. L’elenco però è lungo e va continuamente aggiornato anche se molti di questi ragazzi, figli della sinistra chic, manifestano nelle occasioni canoniche mescolandosi ai ragazzi delle scuole pubbliche: si mettono dietro striscioni colorati e soffiano nei fischetti sempre a portata di mano. I discendenti di Anna Finocchiaro studiano in un istituto di Catania, l’ex ministro della Pubblica Istruzione Beppe Fioroni, il predecessore della Gelmini, ha paracadutato il rampollo al liceo scientifico Cardinal Ragonesi di Viterbo, curiosamente la stessa scuola frequentata da papà a suo tempo. Il Cardinal Ragonesi è gestito dai Fratelli Maristi, una congregazione religiosa fondata in Francia duecento anni fa da san Marcellino Champagnat. E nel recinto più o meno dorato delle scuole private si trovano le nuove generazioni di altre famiglie della nomenklatura: dai figli dell’imprenditore Alfio Marchini ai nipoti dell’ex presidente della Camera Fausto Bertinotti. Insomma, la futura classe dirigente si mescola alla piazza ma poi torna sui banchi di scuole costose ed elitarie, ove si insegna il meglio con i mezzi migliori. Sorpresa: frequenta uno di questi istituti, il carissimo San Carlo di Milano, Giovanni. Ricordate? Giovanni è il tredicenne che si è guadagnato la standing ovation e i riflettori della stampa nella recente manifestazione del Palasharp di Milano: lì si è esibito per due minuti contro il presidente del consiglio. Il ragazzino ha puntato il dito contro il governo perché «parla di scuola pubblica solo per tagliarne i fondi». Legittimo, ci mancherebbe, tuonare contro la Gelmini. Lui però è al riparo dal piccone. I suoi genitori pagano rette salatissime al San Carlo. Per la cronaca, la madre è una delle animatrici di Giustizia & Libertà, il movimento che ha calamitato l’opposizione al Palasharp, ed è avvocato di fiducia di Carlo De Benedetti nel processo sul Lodo Mondadori. Insomma, l’opposizione è a tempo pieno, ma quando suona la campanella si cambia registro”. Lo stesso dicasi per la sanità che costoro, sempre in fregola d’identificarsi coi dannati della terra, pretendono sia pubblica salvo alla prima malattia o visita di controllo recarsi nelle più moderne cliniche private. Da D’Alema a Bertinotti non si salva nessuno, o meglio si salvano tutti perché possono permetterselo. A noi poveri mortali ci lasciano solo i peggiori bar di Caracas dove preferiamo ubriacarci per non dovergli dare retta. Concludo con un' ultima riflessione. I nostri governanti sanno insultarsi tra loro per ogni cosa ma non sanno proporre soluzioni per nulla. Diceva il grande Schopenhauer che colui che insulta dimostra con ciò di non essere in grado di addurre, contro l'altro, nulla di veritiero e di concreto, perchè altrimenti lo direbbe come promessa, lasciando a chi ha sentito la possibilità di trarre da sé le conclusioni; invece dà la conclusione e resta debitore delle premesse. Appunto. Quali conclusioni dovremmo trarre noi italiani da questo balletto di improperi bipartizan?
di Gianni Petrosillo
01 marzo 2011
L'ideologia dell'anti-stato
Si avvera dunque la facile profezia che avevamo formulato solo una settimana fa. Altro che senso dello Stato, altro che tregua istituzionale: Silvio Berlusconi si prepara a consumare quel che resta della legislatura all'insegna del conflitto permanente. C'è da chiedersi perché lo fa. C'è da chiedersi quale vantaggio possa trarre lui stesso, da un'aggressione sistematica che destabilizza gli equilibri costituzionali e avvelena le relazioni istituzionali. Le sue parole, da questo punto di vista, si prestano a un doppio livello di analisi possibile.
In primo luogo c'è la strategia politica. Risolto con una scandalosa compravendita il duello contro Gianfranco Fini, rinsaldata a suon di prebende un'esangue maggioranza aritmetica, neutralizzato momentaneamente l'assedio dell'opposizione parlamentare, il premier ha ora un bisogno disperato di trovare altri "contro-poteri" e di additarli all'opinione pubblica come ostacoli insormontabili sul cammino della "modernizzazione". Sa che non potrà fare le "grandi riforme" promesse in campagna elettorale. Non potrà varare la storica "rivoluzione fiscale" che consentirà ai contribuenti di pagare meno tasse, perché non ha il coraggio di stanare l'evasione. Non potrà varare un serio pacchetto di "scossa" all'economia, perché non sa trovare le risorse necessarie. Non potrà varare un vero riordino della giustizia nell'interesse di tutti i cittadini, perché la sua unica ossessione è un "ordinamento ad personam" che consenta solo a lui di salvarsi dai suoi processi.
Il suo carniere è vuoto. E resterà vuoto di qui alla fine della legislatura, anticipata o naturale che sia. Per questo deve trovare un capro espiatorio, sul quale scaricare i suoi fallimenti e travestirli da "impedimenti". Il Quirinale e la Consulta sono due bersagli ottimali. Con il suo attacco frontale, il Cavaliere sta dicendo agli italiani: sappiate che se non sono riuscito a risolvere i vostri problemi la colpa non è mia, ma di chi ha demolito le mie leggi. Quello di Berlusconi è solo un gigantesco alibi, che nasconde una colossale bugia. Ma solo di questo, oggi, può vivere il suo sfibrato governo e la sua disastrata coalizione: alibi e bugie, su cui galleggiare fino al 2013, per poi tentare il grande salto sul Colle più alto. A dispetto degli scandali privati di cui è stato protagonista e dei disastri pubblici di cui è stato artefice.
In secondo luogo c'è la "filosofia" politica. E qui, purtroppo, il presidente del Consiglio non fa altro che confermare la natura tecnicamente eversiva del suo modo di intendere il governo e la dialettica tra i poteri, la Carta costituzionale e lo Stato di diritto. In una parola, la democrazia. È tecnicamente eversiva l'idea che il presidente della Repubblica o la Consulta possano rinviare o bocciare una legge "perché non gli piace": non lo sfiora nemmeno il dubbio che l'uno o l'altra, nel giudicare sulla legittimità di una norma, agiscano semplicemente in base alle prerogative fissate dalla Costituzione agli articoli 74, 87 e 134. È tecnicamente eversiva l'idea che in Parlamento "lavorano al massimo 50 persone, mentre tutti gli altri stanno lì a fare pettegolezzo": non lo sfiora nemmeno il sospetto che la trasfigurazione delle Camere in volgare "votificio" sia esattamente il risultato della torsione delle regole che lui stesso ha voluto e causato, con decreti omnibus piovuti sulle assemblee legislative e imposti a colpi di fiducia.
Ma qui sta davvero l'essenza del berlusconismo. Cioè quell'impasto deforme di plebiscitarismo e populismo, di violenza anti-politica e onnipotenza carismatica. Da questa miscela esplosiva, con tutta evidenza, nasce l'Anti-Stato che ormai il Cavaliere incarna, in tutte le sue forme più esasperate e conflittuali. In questa dimensione distruttiva, la stessa democrazia, con i suoi canoni e i suoi precetti, non è più il "luogo" nel quale ci si deve confrontare, ma diventa la "gabbia" dalla quale ci si deve liberare. Contro il popolo, in nome del popolo. "Dispotismo democratico", l'aveva definito Alexis de Tocqueville. Scriveva dall'America, due secoli fa. È una formula perfetta per l'Italia di oggi.
di massimo giannini