Il fattore lobby nella crisi libica
Le lobbies si muovono, pronte a sferrare l’attacco armato a Gheddafi e a trasformare – con l’aiuto determinante dei loro mezzi di informazione - la guerra civile libica in una nuova operazione Iraq, l’invasione e la defenestrazione manu militari del sin qui legittimo Governo. Ovviamente la partita è ancora aperta, ma il rischio della svolta drammatica c’è, e ed è paradossalmente favorito proprio dal forte recupero sul terreno di Gheddafi e delle forze militari e civili-militari schieratesi a sua difesa: Tripoli città tranquilla, anche ma non solo, grazie alla promessa di un contributo di 500 dinari ai suoi abitanti; Misurata e altri centri minori sotto attacco dei gheddafisti, con perdite tra i rivoltosi; Bengasi a rischio di fuga da panico di centinaia e forse migliaia di abitanti, da cui l’evidente crisi di credibilità del “governo ombra” della Cirenaica, che dal canto suo ha dato diversi consistenti segnali di “moderatismo” rispetto alle aspettative e alle trame dei falchi lobbisti occidentali: un giornale titolato “Libia” (non Cirenaica), un organismo dirigente autoproclamatosi non “Governo provvisorio” cirenaico ma “Consiglio nazionale libico”; un leader nella persona di un ex ministro di Gheddafi: è probabile che il rifiuto dell’opzione separatista sia solo il corrispettivo, una sorta di pendant, dei 300 euro di Gheddafi alla popolazione di Tripoli: vale a dire di un messaggio rivolto ai libici delle zone occidentali sotto controllo del governo, che i pozzi petroliferi non verranno loro sottratti attraverso una secessione e che dunque possono benissimo abbandonare il rais. Ma è un dato di fatto che le prese di posizioni ufficiali da Bengasi – finché dureranno – impediscono per ora uno scenario catastrofico del futuro della Jamahirya.
A questi segnali interni positivi (dove il termine positivo va calibrato nel contesto di una situazione comunque drammatica e precaria) corrisponde poi, sul piano internazionale, una posizione ufficiale della “Comunità internazionale”, cioè degli Stati nominalmente e formalmente esistenti, non completamente satisfattiva rispetto al martellamento mediatico dei mass media lobbisti: perché, contrariamente alla lettura faziosa della solita Repubblica, e come ha ben riassunto invece il Corriere della Sera, la risoluzione 1970 del Consiglio di Sicurezza del 26 febbraio scorso si presenta ad una lettura attenta come frutto di un lavorio e una mediazione laboriosa che – per l’opposizione della Cina e della Russia - ha eliminato alcuni punti programmatici fondamentali del bellicismo antigheddafista: l’articolo della Carta dell’ONU di riferimento non è il 42, quello che prevede interventi armati della solita comunità internazionale contro i paesi sovrani, e che fu un classico di tutte le “ingerenze umanitarie” dagli anni Novanta al 2003 iracheno, ma il 41, che concerne misure di tipo diverso, ad esempio l’embargo (di armi) o nel caso libico il sequestro dei beni del gruppo dirigente gheddafista, familiari compresi. E’ assolutamente importante che non siano state decise le no fly zones, un elemento cruciale dal punto di vista dei rapporti militari fra governo centrale e ribelli, e che nel 1991, applicate all’Iraq, segnarono l’inizio della fine del regime di Saddam Hussein, impedito ad intervenire con l’aviazione contro il ribellismo endemico degli sciiti al sud e dei curdi al nord.
Un paragrafo della 1790 riguarda poi la Corte Penale Internazionale: da una parte il punto 7 della risoluzione “invite le Procureur à l’informer, dans les deux mois suivant la date de l’adoption de la présente résolution, puis tous les six mois, de la suite donnée à celle-ci”; dall’altra però il preambolo richiama l’articolo 16 dello Statuto della CPI, che ricorda “l’article 16 du Statut de Rome, selon lequel aucune enquête ni aucune poursuite ne peuvent être engagées ni menées par la Cour pénale internationale pendant les 12 mois qui suivent la date à laquelle il a lui-même fait une demande en ce sens”: il processo eventuale potrebbe essere perciò di là da venire e lo stesso classico capo d’accusa – “crimini contro l’umanità” – viene citato nel testo una sola volta, al condizionale (“pourraient …”) e nel Preambolo.
Dunque – considerando anche “adhésion à la souveraineté, à l’indépendance, à l’intégrité territoriale et à l’unité nationale de la Jamahiriya arabe libyenne” del documento ONU - siamo di fronte a un testo che può lasciare uno spiraglio aperto ad un superamento della crisi e a un recupero teorico dello stesso rais di Tripoli al consesso internazionale, quale voluto da qualche raro leader occidentale oggi in difficoltà. La 1970 non presenta le caratteristiche delle risoluzioni antijugoslave e antiirachene degli anni Novanta, tutte fondate su un preteso “diritto di ingerenza umanitaria” (sostenuto anche dai media sedicenti di sinistra: vedi Dominique Vidal su Le Monde Diplomatique durante le guerre dei Balcani) e dunque su quello sfondamento del “dominio riservato” degli Stati membri dell’ONU – quale è la Libia - in cui la scuola classica giuridico-internazionalista ha sempre visto un momento fondamentale degli equilibri e del rispetto delle regole internazionali e della pace da garantirsi da parte dall’ONU.
Ma allora, se la “comunità internazionale” ha dato questi segnali, perché temere il peggio? Per diversi e corposi motivi: innanzitutto la risoluzione – in una situazione in continua evoluzione-involuzione, e in cui le parole anche scritte potranno in ogni momento essere annullate dalla politica del fatto compiuto – è pur sempre un “pezzo di carta”: basterà una scintilla, una trasformazione mediatica di una legittima repressione di ribelli armati in un “crimine contro l’umanità” per renderla superata, e per favorire altre prese di posizioni della “Comunità internazionale” di molto peggiori.
In secondo luogo per il ruolo appena accennato dei grandi mass media euroamericani, e soprattutto di quelli sedicenti “democratici”, diversi dei quali persino di “sinistra”: esattamente come nel caso delle polemiche nazionali, sono i grandi mass media lobbisti a precedere le sentenze e a plasmare le decisioni istituzionali, nel caso specifico le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. Una (parziale) eccezione, la 1970, non dà alcuna garanzia per il futuro, perché la sua stessa faziosa lettura da parte dei soliti media è capace di alimentare un clima di isteria internazionale che poi, alla fine, potrà produrre il frutto “buono”: il via all’aggressione militare. Leggiamo il titolo di apertura di Repubblica del 28 febbraio: “L’ONU: processate Gheddafi”. “Crimini contro l’umanità”. Gli Usa: aiuteremo gli insorti” Ebbene, non c’è una sola unità di notizia di questo proclama che corrisponda alla verità dei fatti: non è propriamente vero che l’ONU ha chiesto di processare Gheddafi, ha invitato il procuratore ad avviare le indagini sulla crisi libica, da cui una incriminazione ancora da decidere; non è vero dunque che c’è già un capo di imputazione, i “crimini contro l’umanità”, citati come già detto solo nel Preambolo come possibile crimine compiuto da non ben è specificato chi; non è nemmeno vero che gli USA vogliono “aiutare gli insorti”. Lo dice la Rodham Clinton, che è una voce pur autorevole dell’Amministrazione USA. E qui dunque veniamo al terzo e più importante motivo per cui non è possibile essere ottimisti sugli sviluppi della situazione libica.
In effetti la crisi libica, come tutte le altre crisi internazionali degli ultimi vent’anni almeno, vanno viste non con la lente parziale e dunque fuorviante dei rapporti fra Stati – fra USA, UE, Russia etc, o fra i diversi Stati europei – ma con quella delle cruciali divisioni interne agli Stati in questione, e dunque del fattore lobby: quel fenomeno che riuscì nel 1991 a trascinare la riluttante coppia Bush senior-Baker nella prima guerra contro l’Iraq; che fu presente anche nella guerra di Cecenia contro la Russia, sostenuta dal banchiere e ex presidente della Sinagoga di Mosca Boris Berezovsky; che operò attivamente nelle guerre dei Balcani, fra le trame dell’Albright a Rambouillet e quelle di George Soros nel Kosovo, per distruggere la Yugoslavia di un capo di stato – Milosevic - in conflitto con il FMI e col direttore della Banca nazionale di Belgrado Abramovich: via via, passando per le guerre africane della Sierra leone e dei Grandi laghi, fino all’invasione dell’Iraq del 2003, sulla quale un congressista americano, Jim Moran, osò chiedere a Bush junior pochi giorni prima dell’invasione: “Presidente, ma lei è sicuro di non fare gli interessi di Israele?”. Bush, avvolto nelle nebbie ideologiche del suo fumoso ma anche terribilmente concreto “cristiano-sionismo” (un ossimoro obiettivamente blasfemo) non rispose; rispose invece la potente Comunità ebraica americana con la solita accusa di antisemitismo, e il risultato fu che l’intelligente ma debole Moran finì nella numerosa lista di congressisti americani firmatari di un appello per un intervento “umanitario” contro il Sudan, in nome di un inesistente “genocidio del Darfur” inventato dalla solita stampa lobbista “democratico-progessista” negli USA e di poi in Europa. Una guerra quella del Darfur, indirettamente finita sotto gli strali proprio di Gheddafi, che nel 2009 rivolse un attacco durissimo a Israele per il suo fomentare e provocare guerre in tutto il continente africano, e alla Corte penale internazionale che in Africa agiva (e agisce) come strumento giuridico internazionale a difesa obbiettiva dei soliti “poteri forti” che oggi vogliono far fuori anche il rais di Tripoli (http://www.claudiomoffa.it/pdf/2009/Gheddafiharagione.pdf). Un’accusa – quella di Gheddafi – che sicuramente nei corridoi e nelle aule della Corte Penale avrà lasciato un pessimo ricordo, con conseguenze assolutamente funeste per lui nel caso in cui finisse sullo scranno degli imputati.
Ma, appunto, torniamo alla Libia di oggi, e andiamo al nocciolo della questione, il pushing delle lobbies verso la guerra alla Libia. Sono tre per adesso – al di là degli “Stati” formalmente rappresentati all’ONU - le personalità che rappresentano il maggior rischio per la pace nel Nordafrica e dunque per la comunità internazionale: la prima è il ministro degli esteri USA Hillary Clinton. Il curriculum della moglie dell’ex Presidente USA non è certo quello di una neocons: difese il marito Bill, sia pure con un certo ritardo, dall’aggressione lobbista sul caso Lewinsky del 1998. L’accusa di una ventina d’anni fa del repubblicano Pat Buchanan - la signora Rodham Clinton è una “spia del Mossad” - appare rozza, non fosse altro per il suo status allora già prominente. Ma è certo che l’identikit del Segretario di Stato ben rientra nel fenomeno della doppia nazionalità di tanti americani di origine ebraica, di cui il caso Pollard è emblema . Ed è altrettanto certo che la moglie di Clinton era entrata in competizione con Obama durante le primarie, fino a ricordare in un momento di difficoltà l’assassinio di Kennedy (il quale, per inciso, e alla cortese attenzione dei “negazionisti” del fattore lobby nella storia e nella cronaca politica americana, si scontrò anch’egli con lo stesso mondo che accerchia oggi Obama, a causa delle sue posizioni contro il signoraggio e del suo dialogo aperto con Nasser, l’”Hitler” arabo secondo la propaganda sionista di mezzo secolo fa), e fino a gettare le armi solo dopo un accordo per la sua nomina appunto a Segretario di Stato. La dialettica Obama-Clinton non è certo plateale come quella fra Berlusconi e Fini, ma se si segue la cronologia degli eventi esiste eccome: la nomina di Mitchell a inviato speciale della Casa Bianca in Medio Oriente ha costituito un pendant utile per il capo della Casa Bianca. E durante questa crisi, la crisi libica, si può notare che a certi silenzi del presidente americano ha corrisposto un attivismo al rialzo del Segretario di stato, comprensivo delle doppie interpretazioni della posizione ufficiale USA: il “tutte le opzioni sono possibili”, come va inteso? Nel senso di un recupero di Gheddafi, o di un attacco armato? E’ chiarissimo che la Clinton punta alla seconda soluzione: non a caso ha chiesto a Ginevra che si parlasse di Tripoli non solo in termini di emergenza umanitaria, ma anche dal punto di vista politico. Né è un caso che, sconfitta al Consiglio di Sicurezza l’opzione no-fly zone, sia ancora la Clinton a profetizzare giusto ieri uno scenario somalo (per ora impossibile, proprio perché l’aviazione permette una superiorità dul terreno militari al governo gheddafista) altro buon motivo per l’invasione umanitaria angloamericana. “Gheddafi deve andarsene subito in esilio” ha ordinato la signora Rodham al rais ma anche al mondo intero …. Si potrà dire che insistere sulle distinzioni fra il capo della Casa Bianca, in crisi da tempo con il mondo di Wall Street che alcuni vedono dietro i fattori di base delle rivolte arabe , e la Clinton è esagerato: ma è lo stesso Gheddafi ad avervi fatto ricorso, quando ha accennato alla cattiva informazione di cui sarebbe vittima Obama, una “brava persona” . E ci sono alcuni analisi giornalistiche che finalmente vanno in questo senso.
Analogo discorso vale per la Gran Bretagna, con quella battuta del rais di Tripoli sulla regina Elisabetta che alcuni hanno definito frutto di una sua farneticazione e che invece potrebbe esser ben riferita alla dialettica interna al “regime” di Londra. Il rais cerca di far sponda sulle contraddizioni interne dei suoi nemici. Ed ecco il secondo pericolo per la pace nel Mediterraneo: David Cameron. Gli iraniani insistono spesso per sottolineare il ruolo di guida della Gran Bretagna di quell’insieme di “poteri forti” di cui fa parte la finanza sionista e lo stato di Israele. E’ la vecchia “perfida Albione” dei tempi di Mussolini, l’M16 che starebbe dietro l’uccisione del dittatore italiano contro la storia partigiana ufficiale, e in contatto con Cefis – il nemico di Mattei - dai tempi della guerriglia nella Valdossola. A questo ruolo di protagonista delle prospettive sioniste mondiali, ben si attaglia il primo ministro britannico : figlio di un agente di borsa della City, con ascendenze ebraiche (la nonna paterna si chiamava Edith Agnes Maud Levita), Cameron è membro dei Conservative Friends of Israel ed ha sempre manifestato forti sentimenti antislamici e prosionisti: in una conferenza stampa del 2005 in vista delle elezioni per la leadership dei Tories, se ne uscì paragonando il “terrorismo islamista” al nazismo e al comunismo ; nel 2007, si dichiarò apertamente “sionista”, e sostenne che nel DNA dei Conservatori inglesi c’era il sostegno ad Israele . Forte di queste prese di posizione, fu facile per lui diventare primo ministro dopo le sconfitte subite dai laburisti di Toiny Blair. Il suo pushing nella crisi attuale è evidente: il primo marzo ha ribadito di essere favorevole alle no-fly zone, perché Gheddafi “non può uccidere il suo popolo” . Cameron, è vero, si era pronunciato anche a favore di “concessioni” di Israele sulla questione palestinese durante la rivolta egiziana, ma pur non avendole ottenute ha ovviamente continuato a restare fedele al suo campo di appartenenza ideologica internazionale.
Infine c’è la Russia, la Russia di Medvedev: la sortita del ministro degli esteri Lavrov – che tre giorni fa “ha condannato l'uso "inaccettabile" della forza contro i civili” secondo quanto ha “riferito lo stesso il ministero russo” a proposito di una sua telefonata al ministro degli esteri di Gheddafi - potrebbe essere un giusto monito a non prestare il fianco al pushing Clinton-Cameron, ma potrebbe anche costituire un segnale di disponibilità del presidente Medvedev – ben legato a una ancora potente lobby pro israeliana in Russia - al grande passo. I biografi di Lavrov sostengono che egli non ha mai fatto parte dell’entourage di Putin , è altro rispetto a colui che fece fuori uno dopo l’altro gli esponenti della finanza russo-ebraica della “famiglia” di Eltsin. Lavrov vuole emulare il georgiano Shevarnadze, il ministro degli esteri di Eltsin che nel 1991 avrebbe gradito una partecipazione sovietica all’invasione-attacco angloamericano dell’Iraq? E’ improbabile, ma molto dipenderà dai rapporti di forza tra Medvedev e Putin, e dalla situazione sul terreno in LIbia: basterà una “strage mediatica” inventata o enfatizzata dai soliti Harry Potter “progressisti” della stampa mondiale, per far scoppiare la scintilla. Hanno già fatto così, probabilmente, con i morti di Misurata: erano innocenti “civili”? O erano (e sono) ribelli in armi – e armati da chissachi – contro cui appare cosa assolutamente normale e addirittura legittimo ai sensi dell’art. 2 della Carta dell’ONU, l’esercizio della forza da parte del governo centrale?
Inutile dire dunque, che la situazione è tutt’altro che tranquilla. I pericoli per la pace sono enormi. Lo scenario somalo evocato dalla Clinton dopo il momentaneo fallimento della no fly zone, può essere il preannuncio di orribili attentati stragisti che “obblighino” la solita comunità internazionale a intervenire manu militari. La risoluzione 1970 – peraltro comprensibilmente irrisa da Gheddafi - non basta. Occorrerebbe una concertazione dei leaders più responsabili per evitare il peggio, impedita però oltre che dalle difficoltà di origine lobbista, interne ai diversi scenari nazionali, anche da un gioco perverso alla competizione alimentato dall’adagiarsi su vecchi schemi “destra-sinistra”. Obama è veramente su un fronte opposto, come alluso da alcuni articoli de il Giornale durante la rivolta egiziana di gennaio-febbraio? Oppure Obama alle prese con la Clinton è nella stessa situazione di Berlusconi e dei suoi ministri più impegnati per ruolo nella crisi libica? L’intervento del ministro Maroni – l’insistere, anche per salvare l’Italia e l’Europa dagli esodi in massa di profughi dalle crisi del nord Africa su un immediato intervento umanitario in Tunisia – è stato ancora una volta eccellente. Ma la situazione è per altri versi fluida, anche perché Berlusconi è alle prese con il pasticcio mediatico-giudiziario di Ruby e signorine.
.. Anche al di fuori dell’Europa il quadro è difficile, favorito indubbiamente dalla politica di (auto?) isolamento della Jamahiryia laica in un Medio Oriente scosso dai fermenti, ora progressivi ora reazionari del nuovo Islam postbipolare. La Cina non ha mai svolto un ruolo promotore di diplomazia alternativa, le sue posizioni sembrano una diretta emanazione delle politiche commerciali e di investimenti all’estero, ed il denaro – si dice – non ha colore. La Turchia perde tempo in questi giorni a litigare con la Germania sull’insegnamento del turco nelle scuole tedesche, questione su cui – per inciso – la Merkel ha pienamente ragione a rivendicare il primato della lingua tedesca in terra tedesca. Solo il Venezuela ha reagito accusando Washington di voler occupare la Libia. Quanto al defilarsi dell’Iran, stupisce e non stupisce: non stupisce perché la speranza di Teheran è quella di riempire con il suo Islam progressivo i vuoti di potere aperti dalle rivolte nei paesi arabi, Libia compresa, dalla quale è distante per la natura laica del regime di Tripoli. E’ l’accusa della stessa Clinton, con riferimento specifico all’Egitto e al Bahrein. Ma stupisce perché la flotta americana di fronte alle coste libiche è la stessa che minaccia e ha sempre minacciato il Golfo persico. Cosa pesa di più nelle considerazioni di Teheran? La permanenza al potere di un leader arabo indubbiamente inviso, o un successo anglo-americano che potrebbe, una volta inghiottito il boccone libico, riversarsi negativamente non solo sull’Iran ma su tutti gli equilibri mediorientali?
di Claudio Moffa
03 marzo 2011
Lo spettro di un attacco armato anglo-americano contro la Libia
03 marzo 2011
Lo spettro di un attacco armato anglo-americano contro la Libia
Il fattore lobby nella crisi libica
Le lobbies si muovono, pronte a sferrare l’attacco armato a Gheddafi e a trasformare – con l’aiuto determinante dei loro mezzi di informazione - la guerra civile libica in una nuova operazione Iraq, l’invasione e la defenestrazione manu militari del sin qui legittimo Governo. Ovviamente la partita è ancora aperta, ma il rischio della svolta drammatica c’è, e ed è paradossalmente favorito proprio dal forte recupero sul terreno di Gheddafi e delle forze militari e civili-militari schieratesi a sua difesa: Tripoli città tranquilla, anche ma non solo, grazie alla promessa di un contributo di 500 dinari ai suoi abitanti; Misurata e altri centri minori sotto attacco dei gheddafisti, con perdite tra i rivoltosi; Bengasi a rischio di fuga da panico di centinaia e forse migliaia di abitanti, da cui l’evidente crisi di credibilità del “governo ombra” della Cirenaica, che dal canto suo ha dato diversi consistenti segnali di “moderatismo” rispetto alle aspettative e alle trame dei falchi lobbisti occidentali: un giornale titolato “Libia” (non Cirenaica), un organismo dirigente autoproclamatosi non “Governo provvisorio” cirenaico ma “Consiglio nazionale libico”; un leader nella persona di un ex ministro di Gheddafi: è probabile che il rifiuto dell’opzione separatista sia solo il corrispettivo, una sorta di pendant, dei 300 euro di Gheddafi alla popolazione di Tripoli: vale a dire di un messaggio rivolto ai libici delle zone occidentali sotto controllo del governo, che i pozzi petroliferi non verranno loro sottratti attraverso una secessione e che dunque possono benissimo abbandonare il rais. Ma è un dato di fatto che le prese di posizioni ufficiali da Bengasi – finché dureranno – impediscono per ora uno scenario catastrofico del futuro della Jamahirya.
A questi segnali interni positivi (dove il termine positivo va calibrato nel contesto di una situazione comunque drammatica e precaria) corrisponde poi, sul piano internazionale, una posizione ufficiale della “Comunità internazionale”, cioè degli Stati nominalmente e formalmente esistenti, non completamente satisfattiva rispetto al martellamento mediatico dei mass media lobbisti: perché, contrariamente alla lettura faziosa della solita Repubblica, e come ha ben riassunto invece il Corriere della Sera, la risoluzione 1970 del Consiglio di Sicurezza del 26 febbraio scorso si presenta ad una lettura attenta come frutto di un lavorio e una mediazione laboriosa che – per l’opposizione della Cina e della Russia - ha eliminato alcuni punti programmatici fondamentali del bellicismo antigheddafista: l’articolo della Carta dell’ONU di riferimento non è il 42, quello che prevede interventi armati della solita comunità internazionale contro i paesi sovrani, e che fu un classico di tutte le “ingerenze umanitarie” dagli anni Novanta al 2003 iracheno, ma il 41, che concerne misure di tipo diverso, ad esempio l’embargo (di armi) o nel caso libico il sequestro dei beni del gruppo dirigente gheddafista, familiari compresi. E’ assolutamente importante che non siano state decise le no fly zones, un elemento cruciale dal punto di vista dei rapporti militari fra governo centrale e ribelli, e che nel 1991, applicate all’Iraq, segnarono l’inizio della fine del regime di Saddam Hussein, impedito ad intervenire con l’aviazione contro il ribellismo endemico degli sciiti al sud e dei curdi al nord.
Un paragrafo della 1790 riguarda poi la Corte Penale Internazionale: da una parte il punto 7 della risoluzione “invite le Procureur à l’informer, dans les deux mois suivant la date de l’adoption de la présente résolution, puis tous les six mois, de la suite donnée à celle-ci”; dall’altra però il preambolo richiama l’articolo 16 dello Statuto della CPI, che ricorda “l’article 16 du Statut de Rome, selon lequel aucune enquête ni aucune poursuite ne peuvent être engagées ni menées par la Cour pénale internationale pendant les 12 mois qui suivent la date à laquelle il a lui-même fait une demande en ce sens”: il processo eventuale potrebbe essere perciò di là da venire e lo stesso classico capo d’accusa – “crimini contro l’umanità” – viene citato nel testo una sola volta, al condizionale (“pourraient …”) e nel Preambolo.
Dunque – considerando anche “adhésion à la souveraineté, à l’indépendance, à l’intégrité territoriale et à l’unité nationale de la Jamahiriya arabe libyenne” del documento ONU - siamo di fronte a un testo che può lasciare uno spiraglio aperto ad un superamento della crisi e a un recupero teorico dello stesso rais di Tripoli al consesso internazionale, quale voluto da qualche raro leader occidentale oggi in difficoltà. La 1970 non presenta le caratteristiche delle risoluzioni antijugoslave e antiirachene degli anni Novanta, tutte fondate su un preteso “diritto di ingerenza umanitaria” (sostenuto anche dai media sedicenti di sinistra: vedi Dominique Vidal su Le Monde Diplomatique durante le guerre dei Balcani) e dunque su quello sfondamento del “dominio riservato” degli Stati membri dell’ONU – quale è la Libia - in cui la scuola classica giuridico-internazionalista ha sempre visto un momento fondamentale degli equilibri e del rispetto delle regole internazionali e della pace da garantirsi da parte dall’ONU.
Ma allora, se la “comunità internazionale” ha dato questi segnali, perché temere il peggio? Per diversi e corposi motivi: innanzitutto la risoluzione – in una situazione in continua evoluzione-involuzione, e in cui le parole anche scritte potranno in ogni momento essere annullate dalla politica del fatto compiuto – è pur sempre un “pezzo di carta”: basterà una scintilla, una trasformazione mediatica di una legittima repressione di ribelli armati in un “crimine contro l’umanità” per renderla superata, e per favorire altre prese di posizioni della “Comunità internazionale” di molto peggiori.
In secondo luogo per il ruolo appena accennato dei grandi mass media euroamericani, e soprattutto di quelli sedicenti “democratici”, diversi dei quali persino di “sinistra”: esattamente come nel caso delle polemiche nazionali, sono i grandi mass media lobbisti a precedere le sentenze e a plasmare le decisioni istituzionali, nel caso specifico le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. Una (parziale) eccezione, la 1970, non dà alcuna garanzia per il futuro, perché la sua stessa faziosa lettura da parte dei soliti media è capace di alimentare un clima di isteria internazionale che poi, alla fine, potrà produrre il frutto “buono”: il via all’aggressione militare. Leggiamo il titolo di apertura di Repubblica del 28 febbraio: “L’ONU: processate Gheddafi”. “Crimini contro l’umanità”. Gli Usa: aiuteremo gli insorti” Ebbene, non c’è una sola unità di notizia di questo proclama che corrisponda alla verità dei fatti: non è propriamente vero che l’ONU ha chiesto di processare Gheddafi, ha invitato il procuratore ad avviare le indagini sulla crisi libica, da cui una incriminazione ancora da decidere; non è vero dunque che c’è già un capo di imputazione, i “crimini contro l’umanità”, citati come già detto solo nel Preambolo come possibile crimine compiuto da non ben è specificato chi; non è nemmeno vero che gli USA vogliono “aiutare gli insorti”. Lo dice la Rodham Clinton, che è una voce pur autorevole dell’Amministrazione USA. E qui dunque veniamo al terzo e più importante motivo per cui non è possibile essere ottimisti sugli sviluppi della situazione libica.
In effetti la crisi libica, come tutte le altre crisi internazionali degli ultimi vent’anni almeno, vanno viste non con la lente parziale e dunque fuorviante dei rapporti fra Stati – fra USA, UE, Russia etc, o fra i diversi Stati europei – ma con quella delle cruciali divisioni interne agli Stati in questione, e dunque del fattore lobby: quel fenomeno che riuscì nel 1991 a trascinare la riluttante coppia Bush senior-Baker nella prima guerra contro l’Iraq; che fu presente anche nella guerra di Cecenia contro la Russia, sostenuta dal banchiere e ex presidente della Sinagoga di Mosca Boris Berezovsky; che operò attivamente nelle guerre dei Balcani, fra le trame dell’Albright a Rambouillet e quelle di George Soros nel Kosovo, per distruggere la Yugoslavia di un capo di stato – Milosevic - in conflitto con il FMI e col direttore della Banca nazionale di Belgrado Abramovich: via via, passando per le guerre africane della Sierra leone e dei Grandi laghi, fino all’invasione dell’Iraq del 2003, sulla quale un congressista americano, Jim Moran, osò chiedere a Bush junior pochi giorni prima dell’invasione: “Presidente, ma lei è sicuro di non fare gli interessi di Israele?”. Bush, avvolto nelle nebbie ideologiche del suo fumoso ma anche terribilmente concreto “cristiano-sionismo” (un ossimoro obiettivamente blasfemo) non rispose; rispose invece la potente Comunità ebraica americana con la solita accusa di antisemitismo, e il risultato fu che l’intelligente ma debole Moran finì nella numerosa lista di congressisti americani firmatari di un appello per un intervento “umanitario” contro il Sudan, in nome di un inesistente “genocidio del Darfur” inventato dalla solita stampa lobbista “democratico-progessista” negli USA e di poi in Europa. Una guerra quella del Darfur, indirettamente finita sotto gli strali proprio di Gheddafi, che nel 2009 rivolse un attacco durissimo a Israele per il suo fomentare e provocare guerre in tutto il continente africano, e alla Corte penale internazionale che in Africa agiva (e agisce) come strumento giuridico internazionale a difesa obbiettiva dei soliti “poteri forti” che oggi vogliono far fuori anche il rais di Tripoli (http://www.claudiomoffa.it/pdf/2009/Gheddafiharagione.pdf). Un’accusa – quella di Gheddafi – che sicuramente nei corridoi e nelle aule della Corte Penale avrà lasciato un pessimo ricordo, con conseguenze assolutamente funeste per lui nel caso in cui finisse sullo scranno degli imputati.
Ma, appunto, torniamo alla Libia di oggi, e andiamo al nocciolo della questione, il pushing delle lobbies verso la guerra alla Libia. Sono tre per adesso – al di là degli “Stati” formalmente rappresentati all’ONU - le personalità che rappresentano il maggior rischio per la pace nel Nordafrica e dunque per la comunità internazionale: la prima è il ministro degli esteri USA Hillary Clinton. Il curriculum della moglie dell’ex Presidente USA non è certo quello di una neocons: difese il marito Bill, sia pure con un certo ritardo, dall’aggressione lobbista sul caso Lewinsky del 1998. L’accusa di una ventina d’anni fa del repubblicano Pat Buchanan - la signora Rodham Clinton è una “spia del Mossad” - appare rozza, non fosse altro per il suo status allora già prominente. Ma è certo che l’identikit del Segretario di Stato ben rientra nel fenomeno della doppia nazionalità di tanti americani di origine ebraica, di cui il caso Pollard è emblema . Ed è altrettanto certo che la moglie di Clinton era entrata in competizione con Obama durante le primarie, fino a ricordare in un momento di difficoltà l’assassinio di Kennedy (il quale, per inciso, e alla cortese attenzione dei “negazionisti” del fattore lobby nella storia e nella cronaca politica americana, si scontrò anch’egli con lo stesso mondo che accerchia oggi Obama, a causa delle sue posizioni contro il signoraggio e del suo dialogo aperto con Nasser, l’”Hitler” arabo secondo la propaganda sionista di mezzo secolo fa), e fino a gettare le armi solo dopo un accordo per la sua nomina appunto a Segretario di Stato. La dialettica Obama-Clinton non è certo plateale come quella fra Berlusconi e Fini, ma se si segue la cronologia degli eventi esiste eccome: la nomina di Mitchell a inviato speciale della Casa Bianca in Medio Oriente ha costituito un pendant utile per il capo della Casa Bianca. E durante questa crisi, la crisi libica, si può notare che a certi silenzi del presidente americano ha corrisposto un attivismo al rialzo del Segretario di stato, comprensivo delle doppie interpretazioni della posizione ufficiale USA: il “tutte le opzioni sono possibili”, come va inteso? Nel senso di un recupero di Gheddafi, o di un attacco armato? E’ chiarissimo che la Clinton punta alla seconda soluzione: non a caso ha chiesto a Ginevra che si parlasse di Tripoli non solo in termini di emergenza umanitaria, ma anche dal punto di vista politico. Né è un caso che, sconfitta al Consiglio di Sicurezza l’opzione no-fly zone, sia ancora la Clinton a profetizzare giusto ieri uno scenario somalo (per ora impossibile, proprio perché l’aviazione permette una superiorità dul terreno militari al governo gheddafista) altro buon motivo per l’invasione umanitaria angloamericana. “Gheddafi deve andarsene subito in esilio” ha ordinato la signora Rodham al rais ma anche al mondo intero …. Si potrà dire che insistere sulle distinzioni fra il capo della Casa Bianca, in crisi da tempo con il mondo di Wall Street che alcuni vedono dietro i fattori di base delle rivolte arabe , e la Clinton è esagerato: ma è lo stesso Gheddafi ad avervi fatto ricorso, quando ha accennato alla cattiva informazione di cui sarebbe vittima Obama, una “brava persona” . E ci sono alcuni analisi giornalistiche che finalmente vanno in questo senso.
Analogo discorso vale per la Gran Bretagna, con quella battuta del rais di Tripoli sulla regina Elisabetta che alcuni hanno definito frutto di una sua farneticazione e che invece potrebbe esser ben riferita alla dialettica interna al “regime” di Londra. Il rais cerca di far sponda sulle contraddizioni interne dei suoi nemici. Ed ecco il secondo pericolo per la pace nel Mediterraneo: David Cameron. Gli iraniani insistono spesso per sottolineare il ruolo di guida della Gran Bretagna di quell’insieme di “poteri forti” di cui fa parte la finanza sionista e lo stato di Israele. E’ la vecchia “perfida Albione” dei tempi di Mussolini, l’M16 che starebbe dietro l’uccisione del dittatore italiano contro la storia partigiana ufficiale, e in contatto con Cefis – il nemico di Mattei - dai tempi della guerriglia nella Valdossola. A questo ruolo di protagonista delle prospettive sioniste mondiali, ben si attaglia il primo ministro britannico : figlio di un agente di borsa della City, con ascendenze ebraiche (la nonna paterna si chiamava Edith Agnes Maud Levita), Cameron è membro dei Conservative Friends of Israel ed ha sempre manifestato forti sentimenti antislamici e prosionisti: in una conferenza stampa del 2005 in vista delle elezioni per la leadership dei Tories, se ne uscì paragonando il “terrorismo islamista” al nazismo e al comunismo ; nel 2007, si dichiarò apertamente “sionista”, e sostenne che nel DNA dei Conservatori inglesi c’era il sostegno ad Israele . Forte di queste prese di posizione, fu facile per lui diventare primo ministro dopo le sconfitte subite dai laburisti di Toiny Blair. Il suo pushing nella crisi attuale è evidente: il primo marzo ha ribadito di essere favorevole alle no-fly zone, perché Gheddafi “non può uccidere il suo popolo” . Cameron, è vero, si era pronunciato anche a favore di “concessioni” di Israele sulla questione palestinese durante la rivolta egiziana, ma pur non avendole ottenute ha ovviamente continuato a restare fedele al suo campo di appartenenza ideologica internazionale.
Infine c’è la Russia, la Russia di Medvedev: la sortita del ministro degli esteri Lavrov – che tre giorni fa “ha condannato l'uso "inaccettabile" della forza contro i civili” secondo quanto ha “riferito lo stesso il ministero russo” a proposito di una sua telefonata al ministro degli esteri di Gheddafi - potrebbe essere un giusto monito a non prestare il fianco al pushing Clinton-Cameron, ma potrebbe anche costituire un segnale di disponibilità del presidente Medvedev – ben legato a una ancora potente lobby pro israeliana in Russia - al grande passo. I biografi di Lavrov sostengono che egli non ha mai fatto parte dell’entourage di Putin , è altro rispetto a colui che fece fuori uno dopo l’altro gli esponenti della finanza russo-ebraica della “famiglia” di Eltsin. Lavrov vuole emulare il georgiano Shevarnadze, il ministro degli esteri di Eltsin che nel 1991 avrebbe gradito una partecipazione sovietica all’invasione-attacco angloamericano dell’Iraq? E’ improbabile, ma molto dipenderà dai rapporti di forza tra Medvedev e Putin, e dalla situazione sul terreno in LIbia: basterà una “strage mediatica” inventata o enfatizzata dai soliti Harry Potter “progressisti” della stampa mondiale, per far scoppiare la scintilla. Hanno già fatto così, probabilmente, con i morti di Misurata: erano innocenti “civili”? O erano (e sono) ribelli in armi – e armati da chissachi – contro cui appare cosa assolutamente normale e addirittura legittimo ai sensi dell’art. 2 della Carta dell’ONU, l’esercizio della forza da parte del governo centrale?
Inutile dire dunque, che la situazione è tutt’altro che tranquilla. I pericoli per la pace sono enormi. Lo scenario somalo evocato dalla Clinton dopo il momentaneo fallimento della no fly zone, può essere il preannuncio di orribili attentati stragisti che “obblighino” la solita comunità internazionale a intervenire manu militari. La risoluzione 1970 – peraltro comprensibilmente irrisa da Gheddafi - non basta. Occorrerebbe una concertazione dei leaders più responsabili per evitare il peggio, impedita però oltre che dalle difficoltà di origine lobbista, interne ai diversi scenari nazionali, anche da un gioco perverso alla competizione alimentato dall’adagiarsi su vecchi schemi “destra-sinistra”. Obama è veramente su un fronte opposto, come alluso da alcuni articoli de il Giornale durante la rivolta egiziana di gennaio-febbraio? Oppure Obama alle prese con la Clinton è nella stessa situazione di Berlusconi e dei suoi ministri più impegnati per ruolo nella crisi libica? L’intervento del ministro Maroni – l’insistere, anche per salvare l’Italia e l’Europa dagli esodi in massa di profughi dalle crisi del nord Africa su un immediato intervento umanitario in Tunisia – è stato ancora una volta eccellente. Ma la situazione è per altri versi fluida, anche perché Berlusconi è alle prese con il pasticcio mediatico-giudiziario di Ruby e signorine.
.. Anche al di fuori dell’Europa il quadro è difficile, favorito indubbiamente dalla politica di (auto?) isolamento della Jamahiryia laica in un Medio Oriente scosso dai fermenti, ora progressivi ora reazionari del nuovo Islam postbipolare. La Cina non ha mai svolto un ruolo promotore di diplomazia alternativa, le sue posizioni sembrano una diretta emanazione delle politiche commerciali e di investimenti all’estero, ed il denaro – si dice – non ha colore. La Turchia perde tempo in questi giorni a litigare con la Germania sull’insegnamento del turco nelle scuole tedesche, questione su cui – per inciso – la Merkel ha pienamente ragione a rivendicare il primato della lingua tedesca in terra tedesca. Solo il Venezuela ha reagito accusando Washington di voler occupare la Libia. Quanto al defilarsi dell’Iran, stupisce e non stupisce: non stupisce perché la speranza di Teheran è quella di riempire con il suo Islam progressivo i vuoti di potere aperti dalle rivolte nei paesi arabi, Libia compresa, dalla quale è distante per la natura laica del regime di Tripoli. E’ l’accusa della stessa Clinton, con riferimento specifico all’Egitto e al Bahrein. Ma stupisce perché la flotta americana di fronte alle coste libiche è la stessa che minaccia e ha sempre minacciato il Golfo persico. Cosa pesa di più nelle considerazioni di Teheran? La permanenza al potere di un leader arabo indubbiamente inviso, o un successo anglo-americano che potrebbe, una volta inghiottito il boccone libico, riversarsi negativamente non solo sull’Iran ma su tutti gli equilibri mediorientali?
di Claudio Moffa
2 commenti:
tutto è ptogrammato dalle sette segrete!? Non si potrebbe pensare altrimenti!? Stiamo parlando delle società segrete che hanno programmato la guerra di hitler e di bush!?E' fantascienza o realta'!?VERIFICATE!
E' fantapolitik
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