06 marzo 2011
I risparmi, le banche e l’attuale regime monetario
Nino Galloni, economista, ha recentemente pubblicato un libro provocatorio dal titolo che è tutto un programma: “Prendi i tuoi soldi e scappa?” ci ha rilasciato una interessante intervista, dove ci dice che, molto probabilmente è l’euro a scappare via da noi
Prendi i tuoi soldi e scappa: fa veramente tanta paura questa crisi economica?
Più che una crisi che perdura preferirei parlare di “sindrome” per significare che questo tipo di modello unico dell’economia internazionale sta semplicemente collassando.
Nascondiamo i nostri soldi sotto il materasso come dice l’economista Eugenio Benetazzo, oppure “scappiamo” dall’euro?
Credo più probabile che sia l’euro a scappare da noi: perché la politica monetaria europea è gestita in modo di trattare l’euro come se fosse oro, rendendolo esageratamente ed artificiosamente troppo scarso nelle nostre tasche; perché non si fa abbastanza per separare le attività speculative delle banche da una sana gestione del credito finalizzato allo sviluppo.
Perché l’economista Paolo Savona propone il contrario?
Anzi Savona ha lanciato una provocazione sensata dicendo che sarebbe meglio uscirne
credo che la finalità sia stata quella di sondare e contare il “partito” dei non-euro!
Cosa fanno i governi europei per uscire dalla crisi?
Niente.
Più che parlare di crisi assistiamo ad un sistema produttivo che non regge più, infatti, l’economia ci costringe a produrre più ‘oggetti’ di quelli che in effetti abbiamo bisogno per le nostre esigenze?
Si tratta di due problematiche diverse. Oggi le tecnologie disponibili, se ben utilizzate, consentirebbero a tutta l’umanità di campare benone, ma ci sono interessi dei poteri finanziari che temono i cambiamenti nei rapporti di forza e la crescita della consapevolezza degli esseri umani. Per questo si
inventano analisi e teorie che servono solo a giustificare la penuria di mezzi destinabili allo sviluppo, lo spauracchio delle crisi ambientali (che si aggravano proprio per la mancanza e non per l’eccesso di sviluppo e progresso) e quello della sovrappopolazione, un concetto che ha senso solo in riferimento alle capacità produttive, non in astratto: senza tecnologie, ad esempio, su dieci km quadrati potrà sopravvivere solo una ventina di individui, viceversa con le attuali tecnologie tutto appare diverso e più governabile…
Agli inizi degli anni ‘70 e ‘80 l’Italia aveva una valenza per quando riguarda la tecnologia politica industriale e produzione manifatturiera per cui sarebbe stata meglio una scelta diversa da quella che ci ha portato all’euro?
Certo! Negli anni ’50, ’60, ’70 si credeva in un modello “misto” dove il massimo sostenibile di libertà di impresa non impediva allo Stato di possedere partecipazioni industriali all’avanguardia; poi si è deciso di svendere tutto con danno strategico, occupazionale e sociale e grandi vantaggi solo per pochi.
In Sudamerica come è ripartita l’economia?
Con la sinergia tra ripresa dello Stato Nazionale e monete complementari che consentissero di controllare la recuperata sovranità monetaria senza sacrificare lo sviluppo interno/locale
La moneta complementare che ruolo potrebbe avere in questa crisi economica?
Notevole, soprattutto per l’economia tradizionale che andrebbe ri-territorializzata; ma per il resto –comparti innovativi, nicchie e prodotti di avanguardia – occorrerebbero un euro moneta e non oro, un dollaro per lo sviluppo e non per le guerre, un accordo internazionale – soprattutto con la Cina – per una valuta creditizia internazionale che sterilizzi e neutralizzi l’ingente presenza di titoli tossici e speculativi pericolosamente sospesi.
di Giovanna Canzano
04 marzo 2011
La chiarezza di Chavez sull'ipocrisia USA
Non ha usato mezzi termini, come suo solito, il presidente venezuelano per mettere a fuoco la situazione della politica internazionale in merito alle prese di posizione su quanto sta avvenendo in Libia. Chavez, tra le altre cose, ha il pregio di rendere la diplomazia comprensibile ai più in occasioni del genere. Il presidente è “sicuro che gli Stati Uniti stanno esagerando le cose per giustificare una invasione in Libia", e ancora che "sono impazziti per il petrolio libico”. Si riferisce naturalmente alla neanche tanto velata volontà, da parte dell'Occidente e in primo luogo degli Usa, di iniziare una ennesima missione umanitaria in Libia. Le dichiarazioni della Clinton dei giorni scorsi, volte a posizionare gli Stati Uniti al fianco dei ribelli, sono da considerarsi in tal senso, con una ulteriore precisazione, naturalmente, ben oltre l'ipocrisia di un governo, quello Usa, che praticamente in ogni dove nel mondo vi siano risorse da sfruttare e capi di governo da insediare al proprio soldo per perpetrare i propri affari non si tirano indietro per nessun motivo al mondo. Così come non badano a spese, e a coinvolgere l'Europa, per affrontare campagne militari dietro la falsa e bieca motivazione dell'impegno umanitario. Dell'umanità, bisogna pure che qualcuno lo dica, agli Stati Uniti non importa un fico secco. Anche perché altrimenti non si spiega il motivo per il quale la stessa Amministrazione non si tiri certo indietro, in merito a bombardamenti dall'alto sulla popolazione inerme, nel caso in cui gli interessi siano marcati a stelle e strisce. Anche in questo caso, tornano utilissime le parole di Chavez, che se da una parte, sia chiaro, ci tiene a precisare che "non sostiene Gheddafi", dall'altro lato rammenta che "quelli che hanno condannato immediatamente la Libia, erano stati muti di fronte ai bombardamenti israeliani causa di migliaia e migliaia di morti, compresi bambini, donne, intere famiglie; sono stati zitti di fronte ai bombardamenti e ai massacri in Iraq, in Afghanistan”. Ad ogni modo, sulla Libia si stanno preparando a fare carne di porco. Le navi statunitensi stanno riposizionandosi sui mari e iniziano a incrociare a distanza utile per un intervento imminente. In Europa, oltre alla risoluzione Onu e al congelamento dei beni di Gheddafi, si paventa l'istituzione di una no fly zone nello stesso momento in cui dalla Russia si definisce il rais libico come un "cadavere politico" e dove anche la Cina, solitamente restia, dal punto di vista diplomatico, a rilasciare dichiarazioni pesanti, in questo caso ha fatto sentire la sua voce di concerto con tutte le altre provenienti dall'Occidente (soprassediamo, per carità verso il lettore, sulle dichiarazioni dei nostri Frattini e Berlusconi…). Il punto insomma dovrebbe essere ormai chiaro: Tripoli è assediata ma non solo dai ribelli, e se da una parte è certa la fine politica di Gheddafi, è parimenti certo il fatto che, sebbene ancora timidamente, ovvero senza scoprirsi troppo, tutti i paesi del mondo, in pratica, stiano girando come avvoltoi per piantare la propria bandierina, e i propri pozzi, direttamente o mediante un nuovo governo fantoccio, sulla Libia. Tutto è nelle mani, come in Egitto, dei popoli che stanno conducendo la rivolta. Perché il rischio più grande, in questo caso come in altri, risiede nel fatto che una volta liberatisi - giustamente, se lo ritengono necessario - del rais di turno, potrebbero trovarsi sotto la dittatura, dolce, melliflua e corrompente, del nostro modello di sviluppo. Vale la pena chiarire che in Libia il reddito pro capite è circa il triplo rispetto a quello delle altre regioni del Nord Africa, e che dunque, anche se la componente economica è stata certamente una fra quelle determinanti per far scattare la rivolta, non è affatto detto che la molla della fame sia l'unica a essere caricata nelle menti della gente in piazza. Potrebbero esserci anche altre e ben più importanti motivazioni, per esempio di carattere squisitamente politico e ideologico, ad aver fatto muovere i ribelli contro Gheddafi. Così come nelle rivolte d'Egitto. Il che rappresenta il vero e proprio incubo nelle notti di Washington. Ma di questo, un'altra volta. Per ora basti tenere la luce accesa sul fatto che, come sempre, i motivi per i quali si paventano interventi da parte dell'Occidente sono ovviamente del tutto avulsi da motivazioni umanitarie, ma rappresentano interessi di due tipologie ben precise: materie prime e basi geopolitiche. Ovvero petrolio e controllo di luoghi strategici in una delle parti più importanti, a tal fine, del mondo. Intanto, di passaggio, per capire la più alta posta in gioco nello scacchiere mediorientale, registriamo, e comunichiamo, che la Borsa dell'Arabia Saudita, in soli quattro giorni, ha perso il 16%. Che ne dite, ci sarà un intervento o lasceranno Egitto e Libia a fare la propria storia da sé come è giusto che sia? di Valerio Lo Monaco |
La profezia ignorata: "Una massa di disperati seppellirà l'Occidente"
Un romanzo francese del 1973 aveva previsto l'ondata di migranti. Un evento che la sinistra ha sempre negato. Per la paura di affrontarlo
Una notte prossima ventura, sulle coste mediterranee di una nazione europea si arena una flottiglia di navi e barconi, carica di un milione di emigranti. Poveracci in preda alla miseria, intere famiglie con donne e bambini, una nuvola di disperazione proveniente dal Sud del mondo verso quella che è ritenuta la Terra promessa. Sperano e ispirano una immensa pietà. Deboli, disarmati, posseggono solo la forza che è propria del numero. Sono l’oggetto dei nostri rimorsi e dell’angelismo delle nostre coscienze. Sono L’Altro, cioè la moltitudine, meglio, l’avanguardia della moltitudine. Ora che sono qui, accetterà quella nazione, «terra d’esilio e d’accoglienza » per eccellenza, di riceverli, a rischio di incoraggiare la partenza di altre flotte di infelici che lì si preparano? Perché poi è l’Occidente in quanto tale a scoprirsi minacciato: essere sommerso è ciò che l’attende, e insomma la propria fine. Che fare, dunque? Rinviarli da dove sono venuti, ma come? Chiuderli in campi profughi recintati? Sì, ma poi? Usare la forza contro la debolezza? Affrontarli con la marina, con l’esercito? Sparare? Sparare nel mucchio? Chi obbedirebbe a simili ordini? A tutti i livelli, coscienza universale e coscienza individuale, governi, equilibri geopolitici, ci si pone queste domande, ma, ormai, è troppo tardi...
Nel 1973, quando Le Camp des Saints di Jean Raspail uscì per l’editore Laffont, in Francia si fece finta che fosse un romanzo razzista e si pensò che il silenzio fosse il modo migliore per parlarne. Trenta e passa anni dopo, mai citato eppure sempre più tradotto, sempre esaurito, sempre riedito e sempre ristampato, sino a questa nuova edizione (389 pagine, 22 euro) che si avvale di una prefazione ad hoc del suo au-tore, è forse giunto il momento per prenderlo per quello che è: un romanzo realista nella sua prefigurazione del futuro. Negli Stati Uniti, dove il moralismo non esclude il pragmatismo, The Camp of the Saints è divenuto un classico, studiato nelle università e al Pentagono, livre de chevet di intellettuali come Paul Kennedy, Samuel Huntington, Jeffrey Hart. Nel Vecchio continente, dove gli sconquassi della sponda orientale di quello che una volta si definiva mare nostrum , sono sotto gli occhi di tutti, ci si continua a rifugiare nei soliti cliché: fratellanza, spirito umanitario, senso di responsabilità nei confronti dei meno fortunati. In Italia, lasciamo perdere... Mentre un leader come il britannico Cameron parla del fallimento del multiculturalismo, la Comunità europea non sembra nemmeno affer-rare, come ha scritto l’altro giorno Guido Ceronetti sul Corriere della sera , che «un afflusso sulle coste italiane di sbarcanti a flottiglie intere farebbe esplodere, nell’intera penisola, la precaria e già provata convivenza urbana. L’immigrazione di diseredati, senza un prima né un dopo, in una civiltà di tormentati impoveriti d’idee, si potrebbe definirla con nomi appropriati, severi, gravi, invece che con vulgate buonistiche e aspersioni di ottimismo là dove un dramma insolubile si presenta e ci schiaccia?».
Trenta e passa anni dopo, Ceronetti prende dunque di petto «una sfida storica: che dire? che fare?» che trenta e passa anni prima Jean Raspail aveva fatto materia di romanzo, e siccome Ceronetti è un uomo mite e non sospetto di razzismo, bisognerebbe, credo, prestargli attenzione. Anche perché, come scrive egli stesso, «i Romani chiamavano Africa un solo punto: Cartagine. Ci sarà un remoto, temuto, fantasma che si è risvegliato, sulle rovine di Cartagine, dove vagava Caio Mario? Quel che è buono per Cartagine può esserlo anche per Roma?».
Quando Raspail scrisse il suo romanzo, i movimenti di liberazione del cosiddetto Terzo mondo erano in auge, ogni dittatore nato sulle rovine del colonialismo era considerato un rivoluzionario, applaudito come tale da una sinistra marxista allora in piena salute, l’Europa era scossa dalla contestazione studentesca e non solo al suo interno.
La questione dell’immigrazione era ancora in fasce, ma il clima ideologico dell’epoca era già pronto per trasformarla in qualcos’altro: l’internazionalismo che batteva in breccia il nazionalismo «bianco», l’idea di meticciato che si sostituiva all’idea di tradizione, lingua, radici; gli «altri» potevano e dovevano essere fieri delle loro, all’Europa non era più permesso: ne aveva approfittato, e ora doveva espiare e divenire un’altra cosa. Nel tempo, la porosità delle frontiere, l’inflazione delle naturalizzazioni, la nazionalità acquisita per matrimonio, la ripugnanza degli europei a esercitare mestieri umili resa possibile dall’utilizzo al loro posto di migliaia e migliaia di immigranti, la spirale inarrestabile dei clandestini (regolamentazione, riunione delle famiglie, scolarizzazione obbligatoria dei bambini) e l’ombrello sociale comunque predisposto (sovvenzioni alle associazioni di sostegno, prestazioni sociali, alloggi eccetera) ha fatto il resto.
Nel Camp des Saints , non è in discussione la religione. Non è la minaccia del fondamentalismo islamico a essere prefigurata. È il numero, sono le motivazioni di ordine materiale, esistenziale: la miseria, la disperazione, la visione di una terra promessa, l’aspirazione a una vita migliore. Il paradosso è che tutto ciò che un certo pensiero unico occidentale depreca o demonizza al proprio interno, il consumismo, il lusso, persino il sesso, giudica però degno della bramosia di chi arriva dall’esterno: gli fanno schifo le televisioni commerciali, le veline e le letterine seminude, i supermarket e i grandi magazzini, ma è pronto a offrirli al Terzo mondo perché ne gioisca anche lui. È un suo diritto... È il trionfo della dialettica e del contorcimento intellettuale, quello che da trenta e passa anni ha del resto dettato legge nei giornali, nelle università, nell’editoria e che ha creato un «politicamente corretto » grottesco quanto velenoso. Raspail ne dà un riassunto esemplare: «Giorno dopo giorno, mese dopo mese, sul filo del dubbio,l’ordine diveniva una forma di fascismo, l’insegnamento un’imposizione, il lavoro un’alienazione, la rivoluzione uno sport gratuito, il piacere un privilegio di classe, la famiglia una realtà soffocante, il consumismo un’oppressione, il successo sociale una malattia, la giovinezza un tribunale permanente, la disciplina un attentato alla personalità umana ».
Torniamo a bomba. Un ideale umano che si pone al di sopra delle nazioni, dei sistemi economici, delle religioni è un’astrazione, non significa nulla, se non appunto il niente assoluto, qualcosa come la fissione dell’atomo, il vuoto immenso liberato d’un colpo. Parliamo di diritti universali dell’uomo perché è il metodo più comodo per evitare di affrontare la realtà e perché speriamo sempre che la realtà non ci presenti il conto. Eludiamo il problema, vogliamo avere la coscienza tranquilla e quindi non guardiamo ai numeri, alla demografia, ai rapporti di forza. Ci inteneriamo di fronte alle classi multietniche, naturalmente, sono così carini quei bambini e nella retorica del 150˚ dell’Unità d’Italia, poi, fanno così colore... Fingendo di pensare ai nostri figli, gli prepariamo un futuro a cui non sapranno né potranno opporsi. Perché una notte prossima ventura, sulle coste mediterranee di una nazione europea...
Ps. Le Camp des Saints è stato tradotto in italiano alla fine degli anni Novanta, dalle Edizioni del Cavallo alato, la piccola casa editrice di Franco Freda. Non se n’è accorto nessuno o quasi, ma chi lo vuole ridurre a un romanzo razzista non ha che da impugnare quel nome come una clava. Siamo sempre un Paese di indignati speciali.
di Stenio Solinas
06 marzo 2011
I risparmi, le banche e l’attuale regime monetario
Nino Galloni, economista, ha recentemente pubblicato un libro provocatorio dal titolo che è tutto un programma: “Prendi i tuoi soldi e scappa?” ci ha rilasciato una interessante intervista, dove ci dice che, molto probabilmente è l’euro a scappare via da noi
Prendi i tuoi soldi e scappa: fa veramente tanta paura questa crisi economica?
Più che una crisi che perdura preferirei parlare di “sindrome” per significare che questo tipo di modello unico dell’economia internazionale sta semplicemente collassando.
Nascondiamo i nostri soldi sotto il materasso come dice l’economista Eugenio Benetazzo, oppure “scappiamo” dall’euro?
Credo più probabile che sia l’euro a scappare da noi: perché la politica monetaria europea è gestita in modo di trattare l’euro come se fosse oro, rendendolo esageratamente ed artificiosamente troppo scarso nelle nostre tasche; perché non si fa abbastanza per separare le attività speculative delle banche da una sana gestione del credito finalizzato allo sviluppo.
Perché l’economista Paolo Savona propone il contrario?
Anzi Savona ha lanciato una provocazione sensata dicendo che sarebbe meglio uscirne
credo che la finalità sia stata quella di sondare e contare il “partito” dei non-euro!
Cosa fanno i governi europei per uscire dalla crisi?
Niente.
Più che parlare di crisi assistiamo ad un sistema produttivo che non regge più, infatti, l’economia ci costringe a produrre più ‘oggetti’ di quelli che in effetti abbiamo bisogno per le nostre esigenze?
Si tratta di due problematiche diverse. Oggi le tecnologie disponibili, se ben utilizzate, consentirebbero a tutta l’umanità di campare benone, ma ci sono interessi dei poteri finanziari che temono i cambiamenti nei rapporti di forza e la crescita della consapevolezza degli esseri umani. Per questo si
inventano analisi e teorie che servono solo a giustificare la penuria di mezzi destinabili allo sviluppo, lo spauracchio delle crisi ambientali (che si aggravano proprio per la mancanza e non per l’eccesso di sviluppo e progresso) e quello della sovrappopolazione, un concetto che ha senso solo in riferimento alle capacità produttive, non in astratto: senza tecnologie, ad esempio, su dieci km quadrati potrà sopravvivere solo una ventina di individui, viceversa con le attuali tecnologie tutto appare diverso e più governabile…
Agli inizi degli anni ‘70 e ‘80 l’Italia aveva una valenza per quando riguarda la tecnologia politica industriale e produzione manifatturiera per cui sarebbe stata meglio una scelta diversa da quella che ci ha portato all’euro?
Certo! Negli anni ’50, ’60, ’70 si credeva in un modello “misto” dove il massimo sostenibile di libertà di impresa non impediva allo Stato di possedere partecipazioni industriali all’avanguardia; poi si è deciso di svendere tutto con danno strategico, occupazionale e sociale e grandi vantaggi solo per pochi.
In Sudamerica come è ripartita l’economia?
Con la sinergia tra ripresa dello Stato Nazionale e monete complementari che consentissero di controllare la recuperata sovranità monetaria senza sacrificare lo sviluppo interno/locale
La moneta complementare che ruolo potrebbe avere in questa crisi economica?
Notevole, soprattutto per l’economia tradizionale che andrebbe ri-territorializzata; ma per il resto –comparti innovativi, nicchie e prodotti di avanguardia – occorrerebbero un euro moneta e non oro, un dollaro per lo sviluppo e non per le guerre, un accordo internazionale – soprattutto con la Cina – per una valuta creditizia internazionale che sterilizzi e neutralizzi l’ingente presenza di titoli tossici e speculativi pericolosamente sospesi.
di Giovanna Canzano
04 marzo 2011
La chiarezza di Chavez sull'ipocrisia USA
Non ha usato mezzi termini, come suo solito, il presidente venezuelano per mettere a fuoco la situazione della politica internazionale in merito alle prese di posizione su quanto sta avvenendo in Libia. Chavez, tra le altre cose, ha il pregio di rendere la diplomazia comprensibile ai più in occasioni del genere. Il presidente è “sicuro che gli Stati Uniti stanno esagerando le cose per giustificare una invasione in Libia", e ancora che "sono impazziti per il petrolio libico”. Si riferisce naturalmente alla neanche tanto velata volontà, da parte dell'Occidente e in primo luogo degli Usa, di iniziare una ennesima missione umanitaria in Libia. Le dichiarazioni della Clinton dei giorni scorsi, volte a posizionare gli Stati Uniti al fianco dei ribelli, sono da considerarsi in tal senso, con una ulteriore precisazione, naturalmente, ben oltre l'ipocrisia di un governo, quello Usa, che praticamente in ogni dove nel mondo vi siano risorse da sfruttare e capi di governo da insediare al proprio soldo per perpetrare i propri affari non si tirano indietro per nessun motivo al mondo. Così come non badano a spese, e a coinvolgere l'Europa, per affrontare campagne militari dietro la falsa e bieca motivazione dell'impegno umanitario. Dell'umanità, bisogna pure che qualcuno lo dica, agli Stati Uniti non importa un fico secco. Anche perché altrimenti non si spiega il motivo per il quale la stessa Amministrazione non si tiri certo indietro, in merito a bombardamenti dall'alto sulla popolazione inerme, nel caso in cui gli interessi siano marcati a stelle e strisce. Anche in questo caso, tornano utilissime le parole di Chavez, che se da una parte, sia chiaro, ci tiene a precisare che "non sostiene Gheddafi", dall'altro lato rammenta che "quelli che hanno condannato immediatamente la Libia, erano stati muti di fronte ai bombardamenti israeliani causa di migliaia e migliaia di morti, compresi bambini, donne, intere famiglie; sono stati zitti di fronte ai bombardamenti e ai massacri in Iraq, in Afghanistan”. Ad ogni modo, sulla Libia si stanno preparando a fare carne di porco. Le navi statunitensi stanno riposizionandosi sui mari e iniziano a incrociare a distanza utile per un intervento imminente. In Europa, oltre alla risoluzione Onu e al congelamento dei beni di Gheddafi, si paventa l'istituzione di una no fly zone nello stesso momento in cui dalla Russia si definisce il rais libico come un "cadavere politico" e dove anche la Cina, solitamente restia, dal punto di vista diplomatico, a rilasciare dichiarazioni pesanti, in questo caso ha fatto sentire la sua voce di concerto con tutte le altre provenienti dall'Occidente (soprassediamo, per carità verso il lettore, sulle dichiarazioni dei nostri Frattini e Berlusconi…). Il punto insomma dovrebbe essere ormai chiaro: Tripoli è assediata ma non solo dai ribelli, e se da una parte è certa la fine politica di Gheddafi, è parimenti certo il fatto che, sebbene ancora timidamente, ovvero senza scoprirsi troppo, tutti i paesi del mondo, in pratica, stiano girando come avvoltoi per piantare la propria bandierina, e i propri pozzi, direttamente o mediante un nuovo governo fantoccio, sulla Libia. Tutto è nelle mani, come in Egitto, dei popoli che stanno conducendo la rivolta. Perché il rischio più grande, in questo caso come in altri, risiede nel fatto che una volta liberatisi - giustamente, se lo ritengono necessario - del rais di turno, potrebbero trovarsi sotto la dittatura, dolce, melliflua e corrompente, del nostro modello di sviluppo. Vale la pena chiarire che in Libia il reddito pro capite è circa il triplo rispetto a quello delle altre regioni del Nord Africa, e che dunque, anche se la componente economica è stata certamente una fra quelle determinanti per far scattare la rivolta, non è affatto detto che la molla della fame sia l'unica a essere caricata nelle menti della gente in piazza. Potrebbero esserci anche altre e ben più importanti motivazioni, per esempio di carattere squisitamente politico e ideologico, ad aver fatto muovere i ribelli contro Gheddafi. Così come nelle rivolte d'Egitto. Il che rappresenta il vero e proprio incubo nelle notti di Washington. Ma di questo, un'altra volta. Per ora basti tenere la luce accesa sul fatto che, come sempre, i motivi per i quali si paventano interventi da parte dell'Occidente sono ovviamente del tutto avulsi da motivazioni umanitarie, ma rappresentano interessi di due tipologie ben precise: materie prime e basi geopolitiche. Ovvero petrolio e controllo di luoghi strategici in una delle parti più importanti, a tal fine, del mondo. Intanto, di passaggio, per capire la più alta posta in gioco nello scacchiere mediorientale, registriamo, e comunichiamo, che la Borsa dell'Arabia Saudita, in soli quattro giorni, ha perso il 16%. Che ne dite, ci sarà un intervento o lasceranno Egitto e Libia a fare la propria storia da sé come è giusto che sia? di Valerio Lo Monaco |
La profezia ignorata: "Una massa di disperati seppellirà l'Occidente"
Un romanzo francese del 1973 aveva previsto l'ondata di migranti. Un evento che la sinistra ha sempre negato. Per la paura di affrontarlo
Una notte prossima ventura, sulle coste mediterranee di una nazione europea si arena una flottiglia di navi e barconi, carica di un milione di emigranti. Poveracci in preda alla miseria, intere famiglie con donne e bambini, una nuvola di disperazione proveniente dal Sud del mondo verso quella che è ritenuta la Terra promessa. Sperano e ispirano una immensa pietà. Deboli, disarmati, posseggono solo la forza che è propria del numero. Sono l’oggetto dei nostri rimorsi e dell’angelismo delle nostre coscienze. Sono L’Altro, cioè la moltitudine, meglio, l’avanguardia della moltitudine. Ora che sono qui, accetterà quella nazione, «terra d’esilio e d’accoglienza » per eccellenza, di riceverli, a rischio di incoraggiare la partenza di altre flotte di infelici che lì si preparano? Perché poi è l’Occidente in quanto tale a scoprirsi minacciato: essere sommerso è ciò che l’attende, e insomma la propria fine. Che fare, dunque? Rinviarli da dove sono venuti, ma come? Chiuderli in campi profughi recintati? Sì, ma poi? Usare la forza contro la debolezza? Affrontarli con la marina, con l’esercito? Sparare? Sparare nel mucchio? Chi obbedirebbe a simili ordini? A tutti i livelli, coscienza universale e coscienza individuale, governi, equilibri geopolitici, ci si pone queste domande, ma, ormai, è troppo tardi...
Nel 1973, quando Le Camp des Saints di Jean Raspail uscì per l’editore Laffont, in Francia si fece finta che fosse un romanzo razzista e si pensò che il silenzio fosse il modo migliore per parlarne. Trenta e passa anni dopo, mai citato eppure sempre più tradotto, sempre esaurito, sempre riedito e sempre ristampato, sino a questa nuova edizione (389 pagine, 22 euro) che si avvale di una prefazione ad hoc del suo au-tore, è forse giunto il momento per prenderlo per quello che è: un romanzo realista nella sua prefigurazione del futuro. Negli Stati Uniti, dove il moralismo non esclude il pragmatismo, The Camp of the Saints è divenuto un classico, studiato nelle università e al Pentagono, livre de chevet di intellettuali come Paul Kennedy, Samuel Huntington, Jeffrey Hart. Nel Vecchio continente, dove gli sconquassi della sponda orientale di quello che una volta si definiva mare nostrum , sono sotto gli occhi di tutti, ci si continua a rifugiare nei soliti cliché: fratellanza, spirito umanitario, senso di responsabilità nei confronti dei meno fortunati. In Italia, lasciamo perdere... Mentre un leader come il britannico Cameron parla del fallimento del multiculturalismo, la Comunità europea non sembra nemmeno affer-rare, come ha scritto l’altro giorno Guido Ceronetti sul Corriere della sera , che «un afflusso sulle coste italiane di sbarcanti a flottiglie intere farebbe esplodere, nell’intera penisola, la precaria e già provata convivenza urbana. L’immigrazione di diseredati, senza un prima né un dopo, in una civiltà di tormentati impoveriti d’idee, si potrebbe definirla con nomi appropriati, severi, gravi, invece che con vulgate buonistiche e aspersioni di ottimismo là dove un dramma insolubile si presenta e ci schiaccia?».
Trenta e passa anni dopo, Ceronetti prende dunque di petto «una sfida storica: che dire? che fare?» che trenta e passa anni prima Jean Raspail aveva fatto materia di romanzo, e siccome Ceronetti è un uomo mite e non sospetto di razzismo, bisognerebbe, credo, prestargli attenzione. Anche perché, come scrive egli stesso, «i Romani chiamavano Africa un solo punto: Cartagine. Ci sarà un remoto, temuto, fantasma che si è risvegliato, sulle rovine di Cartagine, dove vagava Caio Mario? Quel che è buono per Cartagine può esserlo anche per Roma?».
Quando Raspail scrisse il suo romanzo, i movimenti di liberazione del cosiddetto Terzo mondo erano in auge, ogni dittatore nato sulle rovine del colonialismo era considerato un rivoluzionario, applaudito come tale da una sinistra marxista allora in piena salute, l’Europa era scossa dalla contestazione studentesca e non solo al suo interno.
La questione dell’immigrazione era ancora in fasce, ma il clima ideologico dell’epoca era già pronto per trasformarla in qualcos’altro: l’internazionalismo che batteva in breccia il nazionalismo «bianco», l’idea di meticciato che si sostituiva all’idea di tradizione, lingua, radici; gli «altri» potevano e dovevano essere fieri delle loro, all’Europa non era più permesso: ne aveva approfittato, e ora doveva espiare e divenire un’altra cosa. Nel tempo, la porosità delle frontiere, l’inflazione delle naturalizzazioni, la nazionalità acquisita per matrimonio, la ripugnanza degli europei a esercitare mestieri umili resa possibile dall’utilizzo al loro posto di migliaia e migliaia di immigranti, la spirale inarrestabile dei clandestini (regolamentazione, riunione delle famiglie, scolarizzazione obbligatoria dei bambini) e l’ombrello sociale comunque predisposto (sovvenzioni alle associazioni di sostegno, prestazioni sociali, alloggi eccetera) ha fatto il resto.
Nel Camp des Saints , non è in discussione la religione. Non è la minaccia del fondamentalismo islamico a essere prefigurata. È il numero, sono le motivazioni di ordine materiale, esistenziale: la miseria, la disperazione, la visione di una terra promessa, l’aspirazione a una vita migliore. Il paradosso è che tutto ciò che un certo pensiero unico occidentale depreca o demonizza al proprio interno, il consumismo, il lusso, persino il sesso, giudica però degno della bramosia di chi arriva dall’esterno: gli fanno schifo le televisioni commerciali, le veline e le letterine seminude, i supermarket e i grandi magazzini, ma è pronto a offrirli al Terzo mondo perché ne gioisca anche lui. È un suo diritto... È il trionfo della dialettica e del contorcimento intellettuale, quello che da trenta e passa anni ha del resto dettato legge nei giornali, nelle università, nell’editoria e che ha creato un «politicamente corretto » grottesco quanto velenoso. Raspail ne dà un riassunto esemplare: «Giorno dopo giorno, mese dopo mese, sul filo del dubbio,l’ordine diveniva una forma di fascismo, l’insegnamento un’imposizione, il lavoro un’alienazione, la rivoluzione uno sport gratuito, il piacere un privilegio di classe, la famiglia una realtà soffocante, il consumismo un’oppressione, il successo sociale una malattia, la giovinezza un tribunale permanente, la disciplina un attentato alla personalità umana ».
Torniamo a bomba. Un ideale umano che si pone al di sopra delle nazioni, dei sistemi economici, delle religioni è un’astrazione, non significa nulla, se non appunto il niente assoluto, qualcosa come la fissione dell’atomo, il vuoto immenso liberato d’un colpo. Parliamo di diritti universali dell’uomo perché è il metodo più comodo per evitare di affrontare la realtà e perché speriamo sempre che la realtà non ci presenti il conto. Eludiamo il problema, vogliamo avere la coscienza tranquilla e quindi non guardiamo ai numeri, alla demografia, ai rapporti di forza. Ci inteneriamo di fronte alle classi multietniche, naturalmente, sono così carini quei bambini e nella retorica del 150˚ dell’Unità d’Italia, poi, fanno così colore... Fingendo di pensare ai nostri figli, gli prepariamo un futuro a cui non sapranno né potranno opporsi. Perché una notte prossima ventura, sulle coste mediterranee di una nazione europea...
Ps. Le Camp des Saints è stato tradotto in italiano alla fine degli anni Novanta, dalle Edizioni del Cavallo alato, la piccola casa editrice di Franco Freda. Non se n’è accorto nessuno o quasi, ma chi lo vuole ridurre a un romanzo razzista non ha che da impugnare quel nome come una clava. Siamo sempre un Paese di indignati speciali.
di Stenio Solinas