I limiti dei movimenti sociali I movimenti di massa che hanno forzato la rimozione di Mubarak, mostrano sia le forze, sia le debolezze delle ribellioni spontanee. Da una parte il movimento ha dimostrato la sua capacità di mobilitare centinaia di migliaia, se non addirittura milioni, di persone a sostenere una battaglia vincente, culminata con il rovesciamento del dittatore in un modo che la pre-esistente opposizione non era riuscita, o forse non voleva fare. Dall' altra parte, mancando qualsiasi leadership politica nazionale, i movimenti non potevano prendere il potere politico e realizzare le loro richieste, concedendo agli alti comandi militari di Mubarak di prendere il potere e definire il processo "post Mubarak", garantendo il mantenimento della subordinazione Egiziana verso gli Stati Uniti, la protezione dell' illecita ricchezza del clan Mubarak (70 miliardi di dollari), le numerose corporation dell' elite militare e la protezione delle classi sociali alte. I milioni mobilitati dai movimenti sono stati praticamente esclusi dalla nuova giunta militare "rivoluzionaria" al momento di definire le istituzioni e le politiche da affrontare, e dalle riforme socio-economiche necessarie per rispondere ai bisogni primari della popolazione (il 40% degli egiziani vive con meno di 2 dollari al giorno, la disoccupazione giovanile è oltre il 30%). Come nel caso dei movimenti studenteschi e popolari anti regime in Corea del Sud, Taiwan e Filippine, l'Egitto dimostra che la mancanza di una organizzazione politica nazionale permette a partiti e personaggi dell' "opposizione" neo-liberale e conservatrice di rimpiazzare il regime. Procedono alla realizzazione di un regime elettorale che continuerà a servire gli interessi imperialisti, a dipendere e a difendere l' apparato statale esistente. In alcuni casi rimpiazzeranno qualche vecchio amico capitalista con uno nuovo. Non è un caso che i media stiano elogiando la natura 'spontanea' della lotta (non le richieste socio-economiche) e stiano dando una interpretazione favorevole al ruolo dei militari (sminuendo 30 anni come baluardi della dittatura). Una volta caduto il regime, i militari e l' opposizione in cerca di elezioni "celebreranno" il successo della rivoluzione e velocemente si muoveranno a smantellare i movimenti spontanei per far spazio a negoziati tra politici, Washington e la classe dirigente militare per elezioni liberali. Mentre la Casa Bianca può tollerare o addirittura promuovere movimenti sociali per spodestare ("sacrificare") dittature, ha tutte le intenzioni di preservare l' apparato statale. Nel caso dell' Egitto, il principale alleato dell' imperialismo Americano non è stato Mubarak, ma i militari. Loro sono stati in collaborazione con Washington prima, durante e dopo la cacciata di Mubarak, assicurando la "transizione" alla democrazia (sic) e garantendo la continua subordizione dell' Egitto alla politica e agli interessi di Stati Uniti ed Israele in Medio Oriente. La rivolta del popolo: il Fallimento di CIA e Mossad La rivolta araba mostra ancora una volta diversi errori strategici da parte delle tanto vantate polizie segrete, forze speciali, agenzie di intelligence Americane e l' apparato statale di Israele, nessuno dei quali ha previsto e ne è intervenuto per precludere il successo della mobilitazione ed influenzare la loro politica attraverso i loro assistiti che governano ed ora sotto attacco. L' immagine che molti scrittori, accademici e giornalisti danno dell' invincibilità del Mossad Israeliano e dell' Onnipresenza della CIA, è duramente provata dalla loro stessa ammissione di fallimento nel non riconoscere la profondità, la portata e l' intensità del movimento di milioni di persone che ha cacciato via Mubarak. Il Mossad, orgoglio e gioia dei produttori di Hollywood, presentato come un 'modello di efficenza' dai colleghi sionisti, non è stato in grado di rilevare la crescita di un movimento di massa nel paese di fianco a loro. Il Primo Ministro Israeliano Netanyahu è rimasto shockato (e costernato) dalla precaria situazione di Mubarak e dal collasso del suo maggior assistito arabo - per colpa delle errate informazioni del Mossad. Allo stesso modo, Washington è stata colta totalmente impreparata dall' insurrezione di massa che stava montando e dall' emergere di movimenti popolari, nonostante le 27 agenzie di intelligence ed il Pentagono, con i centinaia di migliaia di dipendenti ed un budget multi-miliardario. Alcune osservazioni teoriche sono d' obbligo. L'idea che governanti altamente repressivi, che ricevono miliardi di dollari di aiuti militari da Stati Uniti, e che contano circa un milione di militari fra polizia, esercito e forze speciali, siano i migliori garanti dell' egemonia imperialista è stato dimostrata essere falsa. L' ipotesi che rapporti a lungo termine e su larga scala con questi dittatori salvaguardino gli interessi imperiali degli Stati Uniti è stata smentita. L' arroganza Israliana e la sua presunzione di superiorità organizzativa, strategica e politica della parte ebraica rispetto agli "arabi" si è fortemente sgonfiata. Lo stato di Israele, i suoi esperti, i suoi agenti sotto copertura e gli accademici dell' Ivy League sono stati ciechi di fronte allo svolgersi della realtà, ignorando la profonda disaffezione e dimostrandosi impotenti nel prevenire una opposizione di massa nel loro miglior assistito. Gli addetti stampa Israeliani negli Stati Uniti, che difficilmente resistono all' opportunità di promuovere la "brillantezza" delle forze di sicurezza di Israele, che uccidano un leader arabo in Libano o a Dubai, o che bombardino una struttura militare in Siria, per ora sono rimasti senza parole. La caduta di Mubarak e la possibile comparsa di un governo indipendente e democratico potrebbe significare per Israele la perdita del suo miglior 'poliziotto'. Un pubblico democratico non coopererà con Israele nel mantenimento del blocco di Gaza - affamando i Palestinesi per stroncare la loro resistenza. Israele non potrà contare su un governo democratico che sostenga l' espropriazione violenta delle terre nella West Bank ed il suo regime fantoccio Palestinese. E neanche gli Stati Uniti possono contare su un Egitto democratico che appoggi i loro intrighi in Libano, le loro guerre in Iraq e Afghanistan, e le loro sanzioni all' Iran. Inoltre, la rivolta Egiziana è servita come esempio per movimenti popolari contro altre dittature amiche degli Stati Uniti in Giordania, Yemen e Arabia Saudita. Per questi motivi, Washington ha sostenuto il golpe militare per poter guidare una transizione politica che aggradi gli interessi imperiali. L' indebolimento del principale pilastro del potere imperialista degli Stati Uniti e del colonialismo Israeliano in nord Africa e nel Medio Oriente rivela il ruolo fondamentale dei regimi collaborazionisti. Il carattere dittatoriale di questi regimi è una diretta conseguenza del ruolo che svolgono nel sostenere gli interessi imperialisti. I principali pacchetti di aiuti militari che corrompono ed arricchiscono l' elite governante sono la ricompensa per essere stati dei volenterosi collaboratori. Data l' importanza strategica della dittatura Egiziana, come spieghiamo il fa llimento delle intelligenceAmericane e Israeliane nell' anticipare le rivolte? CIA e Mossad hanno lavorato con agenti dell' intelligence Egiziana, si basavano sulle loro informazioni, sui loro report dove dicevano che "tutto era sotto controllo": i partiti d' opposizione erano deboli, decimati dalle repressioni e dagli infiltrati, i militanti stanno in prigione o soffrono di fatali "attacchi di cuore" per le "dure tecniche di interrogatorio". Le elezioni sono state truccate per eleggere uomini degli Stati Uniti e Israele - nessuna sorpresa democratica a medio o breve termine. Gli agenti dell' intelligence Egiziana sono stati addestrati e finanziati da agenti Israeliani e Statunitensi e sono propensi ad eseguire le volontà dei loro padroni. Sono stati così compiacenti nel fornire report che accomodassero i loro mentori, che hanno ignorato tutti i segnali di una protesta popolare crescente o di agitazione su internet. CIA e Mossad erano così embedded nel vasto apparato di sicurezza di Mubarak che non erano capaci di ottenere qualsiasi informazione dalla fonte principale, decentrata, dai fiorenti movimenti indipendenti dalla tradizionale opposizione elettorale "controllata". Quando i movimenti di massa extra-parlamentari sono scoppiati, il Mossad e la CIA hanno contato sull' apparato di Mubarak per riprendere il controllo, con il tipico sistema del bastone e della carota: concessioni transitorie simboliche e chiamare le l' esercito, la polizia e gli squadroni della morte. Mentre il movimento cresceva, da migliaia a milioni di persone, il Mossad e alcuni deputati Statunitensi, sostenitori di Israele, hanno esortato Mubarak a "tenere duro". La CIA è stato stata ridotta a rappresentare la Casa Bianca con ufficiali militari affidabili e malleabili personaggi politici "di transizione" disposti a seguire le orme di Mubarak. Ancora una volta CIA e Mossad hanno dimostrato la loro dipendenza dell' apparato di Mubarak per informarsi su chi potrebbe essere una "fattibile" (pro-Stati Uniti/Israle) alternativa, ignorando le principali esigenze delle masse. Il tentativo di cooptare la vecchia guardia elettoralistica dei Fratelli Musulmani con negoziati con il vicepresidente Suleiman è fallito; in parte perchè la Fratellanza non aveva il controllo del movimento, e perchè Israele e i suoi sostenitori Statunitensi hanno obiettato. Inoltre, l' ala giovanile della Fratellanza Mussulmana ha fatto pressioni per la ritirata dai negoziati. Il fallimento dell' intelligence ha complicato gli sforzi di Washington e Tel Aviv di sacrificare il dittatore per salvare lo stato: CIA e Mossad non hanno sviluppato legami con nessuno dei leader emergenti. Gli Israeliani non hanno trovato nessun "volto nuovo" con un seguito popolare disposto a servire come uno stupido collaboratore dell' oppressione coloniale. La CIA era stata totalmente impegnata nell' uso della polizia segreta Egiziana per torturare i sospetti terroristi ("exceptional rendition") e in attività di polizia nei paesi Arabi vicini. Come risultato sia Washington che Israele hanno promosso il golpe militare per prevenire ulteriori radicalizzazioni. Alla fine, il fallimento di CIA e Mossad nell' individuare e prevenire il sorgere di un movimento popolare e democratico, ha rivelato le basi precarie del potere imperiale e coloniale. Nel lungo periodo non sono le armi, i miliardi di dollari, la polizia segreta e le camere di tortura a decidere la storia. Rivoluzioni democratiche occorrono quando la vasta maggioranza del popolo insorge e dice "basta", prende le strade, paralizza l' economia, smantella lo stato autoritario e chiede libertà e istituzioni democratiche senza la tutela imperiale e l' asservimento coloniale. di James Petras Titolo originale: "Egypt: Social Movements, the CIA, and Mossad" |
12 marzo 2011
Egitto: movimenti, Cia e Mossad
11 marzo 2011
Il lavoro nobilita l’uomo…(e lo rende simile alle bestie?!!)
E’ con puro spirito catartico che mi appresto a vergare - seppur virtualmente - queste bianche pagine di Word; al solo scopo di consentire - così come si fa con la pentola sul fuoco, quando si favorisce la fuoriuscita di quel poco di pressione che sarebbe pericoloso e incontrollabile lasciar affiorare in un sol colpo all’apertura del coperchio – una riduzione significativa del mio stato di agitazione e talvolta di rabbia. Per evitare “l’esplosione” o più facilmente “l’implosione”…
Non so se qualcuno avrà accesso a queste mie righe; mi auto assolvo sin d’ora pertanto, se la prosa non sarà particolarmente curata come magari sarei in grado di fare.
L’obiettivo vuole essere chiaro e dichiarato sin dal principio: quali sono le ragioni vere, profonde e ultime del disagio, che - palesato talvolta da evidenze di carattere psicofisico (insonnia, mal di stomaco, ansia, tristezza immotivata, paura del futuro…) - si manifesta oggi in un numero sempre maggiore di persone, a proposito della propria condizione lavorativa?
E’ giusto di questa mattina l’importante presa di posizione di Papa Bendetto XVI, Che, nel corso dell’Angelus di domenica 27 febbraio 2011, così si è espresso:
“La fede nella Provvidenza non dispensa dalla faticosa lotta per una vita dignitosa, ma libera dall’affanno per le cose e dalla paura del domani”
E’ a partire da una lettura seria e approfonite di questa affermazione che provo ad argomentare il mio pensiero.
Il lavoro nobilita l’uomo.
Questa frase, attribuita normalmente a Charles Darwin (1809-1882), segna probabilmente l’inizio di un’era, tutt’ora in corso, che ha mutato concezioni e modi di pensare e di agire che erano stati invece connaturati negli uomini per secoli.
Beh, probabilmente non ci si poteva aspettare molto di più da chi ha provato per tutta la vita (tutt’ora senza validazione scientifica…), a dimostrarci che discendiamo dagli scimmioni, mancando di spiegarci dove sta questo benedetto (o maledetto), anello di congiunzione (che a scadenze prefissate torna sulle cronache e le prime pagine dei TG, salvo poi scomparire mestamente come l’ennesima bufala); e senza chiarirci peraltro come mai, i suddetti scimmioni continuino a esistere oggi, a fianco dell’homo sapiens sapiens.
Nei secoli passati, dire che il lavoro nobilita l’uomo, sarebbe stato certamente inteso come segnale di pazzia o di possessione diabolica…
Me lo immagino il contadino, ricurvo su se stesso dopo 12 ore di lavoro nei campi, recarsi dal latifondista di turno e ricordargli che “il lavoro nobilita l’uomo”… Senz’altro sarebbe stato chiamato il prete per abbozzare un esorcismo.
Già, i preti, i monaci meglio. Proviamo a sfatare un’altra leggenda. Tutti conoscono la Regola benedettina dell’Ora et labora. Prega e lavora, appunto.
E’ evidente che, in un’ottica religiosa ed escatologica, questo aveva un senso profondo. La giornata era tutta dedicata a Dio, verso il quale si rivolgevano preghiere – sin dalla mattina presto - , e per il quale si lavorava assiduamente. Il lavoro era una specie di prolungamento della preghiera, in linea con i Padri del deserto che esortavano i monaci a pregare anche durante il lavoro. Rispondeva inoltre al non secondario bisogno di procurarsi il necessario alla sopravvivenza. E’ stato infine grazie al lavoro dei monaci che ci sono pervenute le più importanti opere storiche e letterarie, oltre che artistiche, del passato.
Lo stesso noto e più volte citato passaggio di San Paolo (Tessalonicesi 2 – 3,10), “chi non vuol lavorare neppure mangi”, se rappresenta senz’altro una conferma della “responsabilità individuale” di ciascuno a provvedere al proprio sostentamento, non costituisce certo, a mio avviso, una apologia acritica e indiscriminata del “lavoro” come strumento “salvifico”.
Intendo dire: è doveroso lavorare e procurarsi con il sudore della fronte ciò di cui ha bisogno, per l’uomo macchiato dal peccato originale. Ma questo non significa, in virtù di qualche erroneo sillogismo, derivarne una esaltazione del lavoro…
Più esplicitamente ancora: ci tocca lavorare per vivere, e questo siamo tenuti a fare.
E comunque, il nobile, per definizione, NON ha mai lavorato.
Il lavoro è indispensabile per la realizzazione dell’uomo?
Così si sente dire spesso, soprattutto da parte di chi, dal lavoro… degli altri… trae vantaggi economici, sociali, di prestigio, quando non addirittura giustificazioni mistico religiose che lo convincono che sta operando per un Bene più grande.
Cosa si intende per realizzazione dell’uomo?
Mi piace citare un bellissimo passaggio di Peguy (L’argent, 1914) a proposito del lavoro:
“Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura. Una tradizione venuta, risalita da profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali. E sono solo io — io ormai così imbastardito — a farla adesso tanto lunga. Per loro, in loro non c’era neppure l’ombra di una riflessione. Il lavoro stava là. Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o di non essere visti.
Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto”.
Ebbene rifletto da tempo su queste righe, condividendole in pieno, chiedendomi però come sia possibile applicarle oggi, 2011, nella Società odierna.
Come può un addetto al call center “coltivare un onore assoluto” mentre risponde a utenti imbizzarriti perché il decoder è fuori uso e non consente di vedere l’ avvincente puntata de “Il Grande fratello”; oppure come può riuscire un addetto alle vendite di qualche fumosa azienda di servizi, misurato esclusivamente sui ricavi portati o sulle quote di mercato rubate alla concorrenza, riuscire a convincersi che “(la gamba della sedia)…non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario (…) doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura”.
Sempre più facilmente, oggi, si lavora perché costretti a farlo. Per mangiare, per avere un tetto sotto cui dormire… Si è vero, ma sempre più spesso ci troviamo a “fare un lavoro che non ci piace per comprarci cose che non ci servono” come dice Tyler, il protagonista di Fight Club (il cult movie anni’90 con Brad Pitt e Edward Norton).
“La fede nella Provvidenza non dispensa dalla faticosa lotta per una vita dignitosa, ma libera dall’affanno per le cose e dalla paura del domani” ha detto Papa Benedetto XVI questa mattina. Non credo si possa interpretare questa affermazione come una esaltazione del “lavoro” come fine a se stesso. Ma semmai come una esortazione a non farsi sopraffare (e mai come in questo periodo il rischio è concreto), da un’idea di predestinazione, assunta la quale diventa inutile “lottare” e darsi da fare. Superfluo credo sottolineare l’idea di libero arbitrio, distintiva e differenziale per noi cattolici, che non permette a nessuno di trincerarsi dietro uno sconfortante “eh…colpa del destino!”
Intendo piuttosto dire che è privilegio di pochi poter fare un lavoro in grado di suscitare pensieri come quelli magistralmente narrati da Peguy nella citazione sopra riportata. E non mi riferisco, come si potrebbe immaginare, ad attori o cantanti strapagati, spesso con problematiche ben superiori a quelle del comune uomo della strada. Penso invece a chi, come per l’appunto nella pagina di Peguy in oggetto, grazie a una occupazione di tipo artigianale, davvero può percepire queste finezze. Il falegname che “crea” una libreria “fuori standard”, tale da inserirsi al millimetro nel piccolo appartamento del Cliente che ancora (…antico lui…!), vuole conservare qualche decina di libri. Oppure al chirurgo che con l’opera della sua mente e delle sue mani salva quotidianamente la vita alle persone.
Ipotesi future
Quali prospettive allora per il futuro?
Rassegnarsi a una esistenza triste, senza soddisfazioni, come gli schiavi appunto?
Oppure cercare altrove una realizzazione che solo pochi riescono a trarre dal proprio lavoro?
E’ inevitabile che alla lunga, anche questo, come ogni ragionamento che sia degno di questo nome, se esasperato dal punto di vista logico, non possa che portare a pensare in termini “ultimi”, escatologici per i più dotti.
Per quale ragione ci troviamo su questa Terra? Qual è il nostro Progetto? E dove finiremo una volta trapassati?
Non credo di fare azzardi logici se affermo che, in un’ultima analisi, ragionare sul “lavoro” comporti anche ragionare su questo tipo di tematiche.
Invece sempre più spesso sento (s)parlare - a proposito del “lavoro” - di nuove vision, di individuazione del proprio ruolo nel mondo, di rispetto per le generazioni future.
Il “lavoro” inteso appunto come strumento di realizzazione per l’Uomo.
Rimango turbato quando sento fare certi accostamenti.
E, attraverso la tastiera del mio PC, li contesto. Si perché non posso permettermi di farlo coram populo, ne andrebbe – appunto – del mio mezzo di sostentamento!
Cosa faresti se potessi vivere di rendita e scegliere davvero, in base alle tue inclinazioni, cosa fare del tempo che il Signore ti vorrà concedere? Sarà capitato a molti di fare questi pensieri…a me capita spesso! Ebbene, personalmente leggerei, studierei, approfondirei tematiche storiche e letterarie che negli anni del liceo ho solo sfiorato (e, diciamola tutta, nemmeno tanto apprezzato…erano un obbligo!). Scriverei senz’altro, per me sia inteso, nessuna velleità giornalistico/letteraria (pubblicista lo sono già stato anni fa…senza particolare soddisfazione nel raccontare, annoiato, di patetici consigli comunali del mio comune, piuttosto che di improbabili corsi di campana tibetana organizzati dal circolo culturale di turno…).
E allora qual è, oggi, la conclusione? Lavoro per vivere, e leggo, studio, approfondisco, scrivo…per diletto, o meglio per “sopravvivere”...
Nella speranza, un giorno, di poter raggiungere un bilanciamento così perfetto, da poter invertire sia i fattori che il risultato finale…
Vana illusione la mia, dettata da un momento di sconforto, che presto sarà sostituita da più terrene aspirazioni?
Non ne ho idea…so solo che in questa ora abbondante trascorsa davanti al PC mi sono sentito davvero bene, e per un momento il mal di stomaco è scomparso!
Devo prenderla come un “segno divino”?
di Roberto Solcia
09 marzo 2011
Papi-girl? Ci vorrebbero madri vere
Aveva ragione Francesco Borgonovo quando, qualche settimana fa in un suo articolo su Libero, da noi ripreso e commentato QUI, affermava con inveterata e fervida fede, che la rivoluzione berlusconiana aveva prodotto l’uomo nuovo: quello che pretende di arricchirsi e di giudicare con scrupoloso soggettivismo quali tasse sono giuste da pagare e quali, invece, no. Ma, pur avendo la ragione che gli dà la cronaca, era in difetto di riferimenti. Perché limitarsi all’uomo? Anche la donna berlusconiana brilla di quel radioso avvenire che irraggia all’Olgettina le papi-girls in attesa trepida della chiamata alle armi di Arcore, Palazzo Grazioli, Villa Certosa, Castel di Tor Crescenzo ed eventuali e varie altre zone limitrofe e collegate. E che dire della famiglia? Oh! quel sacro vincolo cementato un tempo dal sangue e dagli affetti, non ha subito forse una radicale trasformazione? La mamma che alla figlia prostrata per una sei giorni festosa con il Priapo di Brianza («non ti puoi immaginare in che condizioni sono guarda (…) sono in condizioni pietose, pietose proprio») chiede, ancor prima di consigliarle di «riposare», quant’è stato il corrispettivo ricevuto per i sudati allori, tirando alla risposta («seimila euro») un sospiro di soddisfazione, non è forse l’indice di una trasmutazione antropologica avvenuta anche nel nido familiare? E il fidanzato di un’altra descamisada (no, dico, il fidanzato: uno che un tempo se solo ti cadevano gli occhi sulla sua donna te li cavava, gli occhi, e te li metteva pure in mano in segno di elemosina), che rimprovera la fidanzata per non essersi fatta dare «i vestiti» (i vestiti?) perché, si giustificava la meschina: «comunque…non faccio niente con lui» subendo il rimbrotto dell’amato: «Eh, ma sei scema? Ma anche se fai o non fai, fatti dare!»; un fidanzato del genere – dicevo – non è forse un’altra spia lampante della rivoluzione compiuta nel diciassettennio (portasse sfiga?) berlusconiano?
Il problema vero è sempre lo stesso: questa epocale corruzione dell’anima di persone e istituzioni (familiari e no) a cui quotidianamente assistiamo nella politica, nella società, nel costume di questo disgraziato Paese, non è affatto una rivoluzione, una liberazione dei costumi, come pretendono i suoi esegeti, ma un degenerativo recupero di modelli che si volevano superati. E’ il ciclico riproporsi di restaurazioni reazionarie alle spinte prodotte da movimenti autenticamente libertari, come quello femminista per esempio. Una patacca, insomma. Né più né meno delle altre fulgenti innovazioni prodotte dal genio di Arcore.
Per questo, pur apprezzando l’articolo di Francesco Merlo apparso ieri suRepubblica, e che denuncia il malaffare in corso d’opera con un articolo chiaro fin dal titolo: “L’avvento delle mamme-maitresse. Così finisce la sacra famiglia italiana”, ne contestiamo la premessa: «Novità storica sono le mamme istigatrici e complici. Non le lupe di Arcore, ma queste mamme-maitresse che investono e lucrano sul sesso delle figlie, mamme che rompono la gabbia, all’apparenza inespugnabile, dell’identità italiana, della mamma chioccia, del “son tutte belle le mamme del mondo”, della sacra famiglia, vetrina dei valori della tradizione: il matrimonio possibilmente d’amore, la maternità, la dignità. Mi faceva sorridere mia madre quando a mia sorella che si truccava gli occhi diceva: “Che cosa sono tutti questi buttanesimi”?». Infatti, nemmeno un tale malaffare è una “novità storica”, tanto meno una “liberazione dei costumi” come pretenderebbero i rivoluzionari (?) del “meno-male-che-silvio-c’è”. E’, invece, una gravissima ricaduta nel basso impero.
Le mamme-maitresse (ma anche i padri-maitresse) sono sempre esistite. La cessione della figlia al potente di turno per ottenere vantaggi economici e/o politici è fatto che data dalla notte dei tempi. Ma senza spingerci troppo indietro, basta restare a due racconti del Novecento molto realisti.
Il primo ci viene da La pelle di Curzio Malaparte. Il romanzo, come noto, narra le vicende del protagonista che accompagna le truppe alleate nella guerra di “liberazione” (?) dell’Italia nell’epilogo della Seconda guerra mondiale dove, una Napoli sopravvissuta alla «guerra per non morire», degenera nella misera della lotta per sopravvivere. In una Forcella apocalittica: «Donne livide, sfatte, dalle labbra dipinte, dalle smunte gote incrostate di belletto, orribili e pietose, sostavano all’angolo dei vicoli offrendo ai passanti la loro miserabile mercanzia: ragazzi e bambine di otto, di dieci anni, che i soldati marocchini, indiani, algerini, malgasci, palpavano sollevando loro la veste o infilando la mano fra bottoni e calzoncini. Le donne gridavano: “Two dollars the boys, three dollars the girls!».
Era un popolo di vinti, quello, che cercava di sopravvivere prostituendo i suoi figli. Un popolo di vinti cade sempre, in un modo o nell’altro, nella prostituzione. Non va assolto per questo: non va giustificato. Non lo fa Curzio Malaparte nel girone infernale che narra nel romanzo. Semmai ne ha compassione, ma è un’altra cosa. Non lo faremo nemmeno noi. Potremmo semmai disquisire sul grado di miseria diverso fra le due realtà narrate: quella dell’Italia vinta oggi e quella di allora. Ma la sottolineatura forte va messa sotto al fatto che a prostituirsi sono sempre gli sconfitti, ieri come oggi.
Niente di nuovo sotto il sole, quindi? Sembra di no, nemmeno a dar retta alla vulgata che sia il potere mediatico a indurre modelli comportamentali come quelli che stiamo osservando. Nel 1951, con il film Bellissima, Luchino Visconti racconta qualcosa di analogo all’odierno squittire di aspiranti veline. La protagonista, Maddalena Cecconi (Anna Magnani), viene attratta dalle luci della ribalta. Ma non per sé, per la figlia Maria (Tina Apicella) una bambina di otto anni. E’ disposta a tutto. Persino a concedere le sue grazie pur di garantire alla piccola il successo. Lo farà, infatti, immolandosi sessualmente alla causa sotto ricatto del perfido traffichino di illusioni Alberto Annovazzi (Walter Chiari). Ma almeno lei, la mamma, avrà un sussulto di orgoglio quando si renderà conto che la bambina è alla mercé di distruttori di anime. Ci sarebbe piaciuto leggere, fra le tante intercettazioni che inondano le pagine dei giornali di queste nostre cronache odierne, di una Maddalena Cecconi accorsa a riprendersi la figlia. Purtroppo, di una tale impresa contro la morsa pestifera non si rinviene traccia.
La peste è, appunto, la metafora che Curzio Malaparte usa per descrivere l’elemento corruttore delle anime degli sconfitti: «Ed ecco che, per effetto di quella schifosa peste, che per prima cosa corrompeva il senso dell’onore e della dignità femminile, la più spaventosa prostituzione aveva portato la vergogna in ogni tugurio e in ogni palazzo. Ma perché dire vergogna? Tanta era l’iniqua forza del contagio, che prostituirsi era divenuto un atto degno di lode, quasi una prova di amor di patria, e tutti, uomini e donne, lungi dall’arrossirne, parevano gloriarsi della propria e della universale abiezione». La metafora resta valida.
di Miro Renzaglia
12 marzo 2011
Egitto: movimenti, Cia e Mossad
I limiti dei movimenti sociali I movimenti di massa che hanno forzato la rimozione di Mubarak, mostrano sia le forze, sia le debolezze delle ribellioni spontanee. Da una parte il movimento ha dimostrato la sua capacità di mobilitare centinaia di migliaia, se non addirittura milioni, di persone a sostenere una battaglia vincente, culminata con il rovesciamento del dittatore in un modo che la pre-esistente opposizione non era riuscita, o forse non voleva fare. Dall' altra parte, mancando qualsiasi leadership politica nazionale, i movimenti non potevano prendere il potere politico e realizzare le loro richieste, concedendo agli alti comandi militari di Mubarak di prendere il potere e definire il processo "post Mubarak", garantendo il mantenimento della subordinazione Egiziana verso gli Stati Uniti, la protezione dell' illecita ricchezza del clan Mubarak (70 miliardi di dollari), le numerose corporation dell' elite militare e la protezione delle classi sociali alte. I milioni mobilitati dai movimenti sono stati praticamente esclusi dalla nuova giunta militare "rivoluzionaria" al momento di definire le istituzioni e le politiche da affrontare, e dalle riforme socio-economiche necessarie per rispondere ai bisogni primari della popolazione (il 40% degli egiziani vive con meno di 2 dollari al giorno, la disoccupazione giovanile è oltre il 30%). Come nel caso dei movimenti studenteschi e popolari anti regime in Corea del Sud, Taiwan e Filippine, l'Egitto dimostra che la mancanza di una organizzazione politica nazionale permette a partiti e personaggi dell' "opposizione" neo-liberale e conservatrice di rimpiazzare il regime. Procedono alla realizzazione di un regime elettorale che continuerà a servire gli interessi imperialisti, a dipendere e a difendere l' apparato statale esistente. In alcuni casi rimpiazzeranno qualche vecchio amico capitalista con uno nuovo. Non è un caso che i media stiano elogiando la natura 'spontanea' della lotta (non le richieste socio-economiche) e stiano dando una interpretazione favorevole al ruolo dei militari (sminuendo 30 anni come baluardi della dittatura). Una volta caduto il regime, i militari e l' opposizione in cerca di elezioni "celebreranno" il successo della rivoluzione e velocemente si muoveranno a smantellare i movimenti spontanei per far spazio a negoziati tra politici, Washington e la classe dirigente militare per elezioni liberali. Mentre la Casa Bianca può tollerare o addirittura promuovere movimenti sociali per spodestare ("sacrificare") dittature, ha tutte le intenzioni di preservare l' apparato statale. Nel caso dell' Egitto, il principale alleato dell' imperialismo Americano non è stato Mubarak, ma i militari. Loro sono stati in collaborazione con Washington prima, durante e dopo la cacciata di Mubarak, assicurando la "transizione" alla democrazia (sic) e garantendo la continua subordizione dell' Egitto alla politica e agli interessi di Stati Uniti ed Israele in Medio Oriente. La rivolta del popolo: il Fallimento di CIA e Mossad La rivolta araba mostra ancora una volta diversi errori strategici da parte delle tanto vantate polizie segrete, forze speciali, agenzie di intelligence Americane e l' apparato statale di Israele, nessuno dei quali ha previsto e ne è intervenuto per precludere il successo della mobilitazione ed influenzare la loro politica attraverso i loro assistiti che governano ed ora sotto attacco. L' immagine che molti scrittori, accademici e giornalisti danno dell' invincibilità del Mossad Israeliano e dell' Onnipresenza della CIA, è duramente provata dalla loro stessa ammissione di fallimento nel non riconoscere la profondità, la portata e l' intensità del movimento di milioni di persone che ha cacciato via Mubarak. Il Mossad, orgoglio e gioia dei produttori di Hollywood, presentato come un 'modello di efficenza' dai colleghi sionisti, non è stato in grado di rilevare la crescita di un movimento di massa nel paese di fianco a loro. Il Primo Ministro Israeliano Netanyahu è rimasto shockato (e costernato) dalla precaria situazione di Mubarak e dal collasso del suo maggior assistito arabo - per colpa delle errate informazioni del Mossad. Allo stesso modo, Washington è stata colta totalmente impreparata dall' insurrezione di massa che stava montando e dall' emergere di movimenti popolari, nonostante le 27 agenzie di intelligence ed il Pentagono, con i centinaia di migliaia di dipendenti ed un budget multi-miliardario. Alcune osservazioni teoriche sono d' obbligo. L'idea che governanti altamente repressivi, che ricevono miliardi di dollari di aiuti militari da Stati Uniti, e che contano circa un milione di militari fra polizia, esercito e forze speciali, siano i migliori garanti dell' egemonia imperialista è stato dimostrata essere falsa. L' ipotesi che rapporti a lungo termine e su larga scala con questi dittatori salvaguardino gli interessi imperiali degli Stati Uniti è stata smentita. L' arroganza Israliana e la sua presunzione di superiorità organizzativa, strategica e politica della parte ebraica rispetto agli "arabi" si è fortemente sgonfiata. Lo stato di Israele, i suoi esperti, i suoi agenti sotto copertura e gli accademici dell' Ivy League sono stati ciechi di fronte allo svolgersi della realtà, ignorando la profonda disaffezione e dimostrandosi impotenti nel prevenire una opposizione di massa nel loro miglior assistito. Gli addetti stampa Israeliani negli Stati Uniti, che difficilmente resistono all' opportunità di promuovere la "brillantezza" delle forze di sicurezza di Israele, che uccidano un leader arabo in Libano o a Dubai, o che bombardino una struttura militare in Siria, per ora sono rimasti senza parole. La caduta di Mubarak e la possibile comparsa di un governo indipendente e democratico potrebbe significare per Israele la perdita del suo miglior 'poliziotto'. Un pubblico democratico non coopererà con Israele nel mantenimento del blocco di Gaza - affamando i Palestinesi per stroncare la loro resistenza. Israele non potrà contare su un governo democratico che sostenga l' espropriazione violenta delle terre nella West Bank ed il suo regime fantoccio Palestinese. E neanche gli Stati Uniti possono contare su un Egitto democratico che appoggi i loro intrighi in Libano, le loro guerre in Iraq e Afghanistan, e le loro sanzioni all' Iran. Inoltre, la rivolta Egiziana è servita come esempio per movimenti popolari contro altre dittature amiche degli Stati Uniti in Giordania, Yemen e Arabia Saudita. Per questi motivi, Washington ha sostenuto il golpe militare per poter guidare una transizione politica che aggradi gli interessi imperiali. L' indebolimento del principale pilastro del potere imperialista degli Stati Uniti e del colonialismo Israeliano in nord Africa e nel Medio Oriente rivela il ruolo fondamentale dei regimi collaborazionisti. Il carattere dittatoriale di questi regimi è una diretta conseguenza del ruolo che svolgono nel sostenere gli interessi imperialisti. I principali pacchetti di aiuti militari che corrompono ed arricchiscono l' elite governante sono la ricompensa per essere stati dei volenterosi collaboratori. Data l' importanza strategica della dittatura Egiziana, come spieghiamo il fa llimento delle intelligenceAmericane e Israeliane nell' anticipare le rivolte? CIA e Mossad hanno lavorato con agenti dell' intelligence Egiziana, si basavano sulle loro informazioni, sui loro report dove dicevano che "tutto era sotto controllo": i partiti d' opposizione erano deboli, decimati dalle repressioni e dagli infiltrati, i militanti stanno in prigione o soffrono di fatali "attacchi di cuore" per le "dure tecniche di interrogatorio". Le elezioni sono state truccate per eleggere uomini degli Stati Uniti e Israele - nessuna sorpresa democratica a medio o breve termine. Gli agenti dell' intelligence Egiziana sono stati addestrati e finanziati da agenti Israeliani e Statunitensi e sono propensi ad eseguire le volontà dei loro padroni. Sono stati così compiacenti nel fornire report che accomodassero i loro mentori, che hanno ignorato tutti i segnali di una protesta popolare crescente o di agitazione su internet. CIA e Mossad erano così embedded nel vasto apparato di sicurezza di Mubarak che non erano capaci di ottenere qualsiasi informazione dalla fonte principale, decentrata, dai fiorenti movimenti indipendenti dalla tradizionale opposizione elettorale "controllata". Quando i movimenti di massa extra-parlamentari sono scoppiati, il Mossad e la CIA hanno contato sull' apparato di Mubarak per riprendere il controllo, con il tipico sistema del bastone e della carota: concessioni transitorie simboliche e chiamare le l' esercito, la polizia e gli squadroni della morte. Mentre il movimento cresceva, da migliaia a milioni di persone, il Mossad e alcuni deputati Statunitensi, sostenitori di Israele, hanno esortato Mubarak a "tenere duro". La CIA è stato stata ridotta a rappresentare la Casa Bianca con ufficiali militari affidabili e malleabili personaggi politici "di transizione" disposti a seguire le orme di Mubarak. Ancora una volta CIA e Mossad hanno dimostrato la loro dipendenza dell' apparato di Mubarak per informarsi su chi potrebbe essere una "fattibile" (pro-Stati Uniti/Israle) alternativa, ignorando le principali esigenze delle masse. Il tentativo di cooptare la vecchia guardia elettoralistica dei Fratelli Musulmani con negoziati con il vicepresidente Suleiman è fallito; in parte perchè la Fratellanza non aveva il controllo del movimento, e perchè Israele e i suoi sostenitori Statunitensi hanno obiettato. Inoltre, l' ala giovanile della Fratellanza Mussulmana ha fatto pressioni per la ritirata dai negoziati. Il fallimento dell' intelligence ha complicato gli sforzi di Washington e Tel Aviv di sacrificare il dittatore per salvare lo stato: CIA e Mossad non hanno sviluppato legami con nessuno dei leader emergenti. Gli Israeliani non hanno trovato nessun "volto nuovo" con un seguito popolare disposto a servire come uno stupido collaboratore dell' oppressione coloniale. La CIA era stata totalmente impegnata nell' uso della polizia segreta Egiziana per torturare i sospetti terroristi ("exceptional rendition") e in attività di polizia nei paesi Arabi vicini. Come risultato sia Washington che Israele hanno promosso il golpe militare per prevenire ulteriori radicalizzazioni. Alla fine, il fallimento di CIA e Mossad nell' individuare e prevenire il sorgere di un movimento popolare e democratico, ha rivelato le basi precarie del potere imperiale e coloniale. Nel lungo periodo non sono le armi, i miliardi di dollari, la polizia segreta e le camere di tortura a decidere la storia. Rivoluzioni democratiche occorrono quando la vasta maggioranza del popolo insorge e dice "basta", prende le strade, paralizza l' economia, smantella lo stato autoritario e chiede libertà e istituzioni democratiche senza la tutela imperiale e l' asservimento coloniale. di James Petras Titolo originale: "Egypt: Social Movements, the CIA, and Mossad" |
11 marzo 2011
Il lavoro nobilita l’uomo…(e lo rende simile alle bestie?!!)
E’ con puro spirito catartico che mi appresto a vergare - seppur virtualmente - queste bianche pagine di Word; al solo scopo di consentire - così come si fa con la pentola sul fuoco, quando si favorisce la fuoriuscita di quel poco di pressione che sarebbe pericoloso e incontrollabile lasciar affiorare in un sol colpo all’apertura del coperchio – una riduzione significativa del mio stato di agitazione e talvolta di rabbia. Per evitare “l’esplosione” o più facilmente “l’implosione”…
Non so se qualcuno avrà accesso a queste mie righe; mi auto assolvo sin d’ora pertanto, se la prosa non sarà particolarmente curata come magari sarei in grado di fare.
L’obiettivo vuole essere chiaro e dichiarato sin dal principio: quali sono le ragioni vere, profonde e ultime del disagio, che - palesato talvolta da evidenze di carattere psicofisico (insonnia, mal di stomaco, ansia, tristezza immotivata, paura del futuro…) - si manifesta oggi in un numero sempre maggiore di persone, a proposito della propria condizione lavorativa?
E’ giusto di questa mattina l’importante presa di posizione di Papa Bendetto XVI, Che, nel corso dell’Angelus di domenica 27 febbraio 2011, così si è espresso:
“La fede nella Provvidenza non dispensa dalla faticosa lotta per una vita dignitosa, ma libera dall’affanno per le cose e dalla paura del domani”
E’ a partire da una lettura seria e approfonite di questa affermazione che provo ad argomentare il mio pensiero.
Il lavoro nobilita l’uomo.
Questa frase, attribuita normalmente a Charles Darwin (1809-1882), segna probabilmente l’inizio di un’era, tutt’ora in corso, che ha mutato concezioni e modi di pensare e di agire che erano stati invece connaturati negli uomini per secoli.
Beh, probabilmente non ci si poteva aspettare molto di più da chi ha provato per tutta la vita (tutt’ora senza validazione scientifica…), a dimostrarci che discendiamo dagli scimmioni, mancando di spiegarci dove sta questo benedetto (o maledetto), anello di congiunzione (che a scadenze prefissate torna sulle cronache e le prime pagine dei TG, salvo poi scomparire mestamente come l’ennesima bufala); e senza chiarirci peraltro come mai, i suddetti scimmioni continuino a esistere oggi, a fianco dell’homo sapiens sapiens.
Nei secoli passati, dire che il lavoro nobilita l’uomo, sarebbe stato certamente inteso come segnale di pazzia o di possessione diabolica…
Me lo immagino il contadino, ricurvo su se stesso dopo 12 ore di lavoro nei campi, recarsi dal latifondista di turno e ricordargli che “il lavoro nobilita l’uomo”… Senz’altro sarebbe stato chiamato il prete per abbozzare un esorcismo.
Già, i preti, i monaci meglio. Proviamo a sfatare un’altra leggenda. Tutti conoscono la Regola benedettina dell’Ora et labora. Prega e lavora, appunto.
E’ evidente che, in un’ottica religiosa ed escatologica, questo aveva un senso profondo. La giornata era tutta dedicata a Dio, verso il quale si rivolgevano preghiere – sin dalla mattina presto - , e per il quale si lavorava assiduamente. Il lavoro era una specie di prolungamento della preghiera, in linea con i Padri del deserto che esortavano i monaci a pregare anche durante il lavoro. Rispondeva inoltre al non secondario bisogno di procurarsi il necessario alla sopravvivenza. E’ stato infine grazie al lavoro dei monaci che ci sono pervenute le più importanti opere storiche e letterarie, oltre che artistiche, del passato.
Lo stesso noto e più volte citato passaggio di San Paolo (Tessalonicesi 2 – 3,10), “chi non vuol lavorare neppure mangi”, se rappresenta senz’altro una conferma della “responsabilità individuale” di ciascuno a provvedere al proprio sostentamento, non costituisce certo, a mio avviso, una apologia acritica e indiscriminata del “lavoro” come strumento “salvifico”.
Intendo dire: è doveroso lavorare e procurarsi con il sudore della fronte ciò di cui ha bisogno, per l’uomo macchiato dal peccato originale. Ma questo non significa, in virtù di qualche erroneo sillogismo, derivarne una esaltazione del lavoro…
Più esplicitamente ancora: ci tocca lavorare per vivere, e questo siamo tenuti a fare.
E comunque, il nobile, per definizione, NON ha mai lavorato.
Il lavoro è indispensabile per la realizzazione dell’uomo?
Così si sente dire spesso, soprattutto da parte di chi, dal lavoro… degli altri… trae vantaggi economici, sociali, di prestigio, quando non addirittura giustificazioni mistico religiose che lo convincono che sta operando per un Bene più grande.
Cosa si intende per realizzazione dell’uomo?
Mi piace citare un bellissimo passaggio di Peguy (L’argent, 1914) a proposito del lavoro:
“Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura. Una tradizione venuta, risalita da profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali. E sono solo io — io ormai così imbastardito — a farla adesso tanto lunga. Per loro, in loro non c’era neppure l’ombra di una riflessione. Il lavoro stava là. Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o di non essere visti.
Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto”.
Ebbene rifletto da tempo su queste righe, condividendole in pieno, chiedendomi però come sia possibile applicarle oggi, 2011, nella Società odierna.
Come può un addetto al call center “coltivare un onore assoluto” mentre risponde a utenti imbizzarriti perché il decoder è fuori uso e non consente di vedere l’ avvincente puntata de “Il Grande fratello”; oppure come può riuscire un addetto alle vendite di qualche fumosa azienda di servizi, misurato esclusivamente sui ricavi portati o sulle quote di mercato rubate alla concorrenza, riuscire a convincersi che “(la gamba della sedia)…non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario (…) doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura”.
Sempre più facilmente, oggi, si lavora perché costretti a farlo. Per mangiare, per avere un tetto sotto cui dormire… Si è vero, ma sempre più spesso ci troviamo a “fare un lavoro che non ci piace per comprarci cose che non ci servono” come dice Tyler, il protagonista di Fight Club (il cult movie anni’90 con Brad Pitt e Edward Norton).
“La fede nella Provvidenza non dispensa dalla faticosa lotta per una vita dignitosa, ma libera dall’affanno per le cose e dalla paura del domani” ha detto Papa Benedetto XVI questa mattina. Non credo si possa interpretare questa affermazione come una esaltazione del “lavoro” come fine a se stesso. Ma semmai come una esortazione a non farsi sopraffare (e mai come in questo periodo il rischio è concreto), da un’idea di predestinazione, assunta la quale diventa inutile “lottare” e darsi da fare. Superfluo credo sottolineare l’idea di libero arbitrio, distintiva e differenziale per noi cattolici, che non permette a nessuno di trincerarsi dietro uno sconfortante “eh…colpa del destino!”
Intendo piuttosto dire che è privilegio di pochi poter fare un lavoro in grado di suscitare pensieri come quelli magistralmente narrati da Peguy nella citazione sopra riportata. E non mi riferisco, come si potrebbe immaginare, ad attori o cantanti strapagati, spesso con problematiche ben superiori a quelle del comune uomo della strada. Penso invece a chi, come per l’appunto nella pagina di Peguy in oggetto, grazie a una occupazione di tipo artigianale, davvero può percepire queste finezze. Il falegname che “crea” una libreria “fuori standard”, tale da inserirsi al millimetro nel piccolo appartamento del Cliente che ancora (…antico lui…!), vuole conservare qualche decina di libri. Oppure al chirurgo che con l’opera della sua mente e delle sue mani salva quotidianamente la vita alle persone.
Ipotesi future
Quali prospettive allora per il futuro?
Rassegnarsi a una esistenza triste, senza soddisfazioni, come gli schiavi appunto?
Oppure cercare altrove una realizzazione che solo pochi riescono a trarre dal proprio lavoro?
E’ inevitabile che alla lunga, anche questo, come ogni ragionamento che sia degno di questo nome, se esasperato dal punto di vista logico, non possa che portare a pensare in termini “ultimi”, escatologici per i più dotti.
Per quale ragione ci troviamo su questa Terra? Qual è il nostro Progetto? E dove finiremo una volta trapassati?
Non credo di fare azzardi logici se affermo che, in un’ultima analisi, ragionare sul “lavoro” comporti anche ragionare su questo tipo di tematiche.
Invece sempre più spesso sento (s)parlare - a proposito del “lavoro” - di nuove vision, di individuazione del proprio ruolo nel mondo, di rispetto per le generazioni future.
Il “lavoro” inteso appunto come strumento di realizzazione per l’Uomo.
Rimango turbato quando sento fare certi accostamenti.
E, attraverso la tastiera del mio PC, li contesto. Si perché non posso permettermi di farlo coram populo, ne andrebbe – appunto – del mio mezzo di sostentamento!
Cosa faresti se potessi vivere di rendita e scegliere davvero, in base alle tue inclinazioni, cosa fare del tempo che il Signore ti vorrà concedere? Sarà capitato a molti di fare questi pensieri…a me capita spesso! Ebbene, personalmente leggerei, studierei, approfondirei tematiche storiche e letterarie che negli anni del liceo ho solo sfiorato (e, diciamola tutta, nemmeno tanto apprezzato…erano un obbligo!). Scriverei senz’altro, per me sia inteso, nessuna velleità giornalistico/letteraria (pubblicista lo sono già stato anni fa…senza particolare soddisfazione nel raccontare, annoiato, di patetici consigli comunali del mio comune, piuttosto che di improbabili corsi di campana tibetana organizzati dal circolo culturale di turno…).
E allora qual è, oggi, la conclusione? Lavoro per vivere, e leggo, studio, approfondisco, scrivo…per diletto, o meglio per “sopravvivere”...
Nella speranza, un giorno, di poter raggiungere un bilanciamento così perfetto, da poter invertire sia i fattori che il risultato finale…
Vana illusione la mia, dettata da un momento di sconforto, che presto sarà sostituita da più terrene aspirazioni?
Non ne ho idea…so solo che in questa ora abbondante trascorsa davanti al PC mi sono sentito davvero bene, e per un momento il mal di stomaco è scomparso!
Devo prenderla come un “segno divino”?
di Roberto Solcia
09 marzo 2011
Papi-girl? Ci vorrebbero madri vere
Aveva ragione Francesco Borgonovo quando, qualche settimana fa in un suo articolo su Libero, da noi ripreso e commentato QUI, affermava con inveterata e fervida fede, che la rivoluzione berlusconiana aveva prodotto l’uomo nuovo: quello che pretende di arricchirsi e di giudicare con scrupoloso soggettivismo quali tasse sono giuste da pagare e quali, invece, no. Ma, pur avendo la ragione che gli dà la cronaca, era in difetto di riferimenti. Perché limitarsi all’uomo? Anche la donna berlusconiana brilla di quel radioso avvenire che irraggia all’Olgettina le papi-girls in attesa trepida della chiamata alle armi di Arcore, Palazzo Grazioli, Villa Certosa, Castel di Tor Crescenzo ed eventuali e varie altre zone limitrofe e collegate. E che dire della famiglia? Oh! quel sacro vincolo cementato un tempo dal sangue e dagli affetti, non ha subito forse una radicale trasformazione? La mamma che alla figlia prostrata per una sei giorni festosa con il Priapo di Brianza («non ti puoi immaginare in che condizioni sono guarda (…) sono in condizioni pietose, pietose proprio») chiede, ancor prima di consigliarle di «riposare», quant’è stato il corrispettivo ricevuto per i sudati allori, tirando alla risposta («seimila euro») un sospiro di soddisfazione, non è forse l’indice di una trasmutazione antropologica avvenuta anche nel nido familiare? E il fidanzato di un’altra descamisada (no, dico, il fidanzato: uno che un tempo se solo ti cadevano gli occhi sulla sua donna te li cavava, gli occhi, e te li metteva pure in mano in segno di elemosina), che rimprovera la fidanzata per non essersi fatta dare «i vestiti» (i vestiti?) perché, si giustificava la meschina: «comunque…non faccio niente con lui» subendo il rimbrotto dell’amato: «Eh, ma sei scema? Ma anche se fai o non fai, fatti dare!»; un fidanzato del genere – dicevo – non è forse un’altra spia lampante della rivoluzione compiuta nel diciassettennio (portasse sfiga?) berlusconiano?
Il problema vero è sempre lo stesso: questa epocale corruzione dell’anima di persone e istituzioni (familiari e no) a cui quotidianamente assistiamo nella politica, nella società, nel costume di questo disgraziato Paese, non è affatto una rivoluzione, una liberazione dei costumi, come pretendono i suoi esegeti, ma un degenerativo recupero di modelli che si volevano superati. E’ il ciclico riproporsi di restaurazioni reazionarie alle spinte prodotte da movimenti autenticamente libertari, come quello femminista per esempio. Una patacca, insomma. Né più né meno delle altre fulgenti innovazioni prodotte dal genio di Arcore.
Per questo, pur apprezzando l’articolo di Francesco Merlo apparso ieri suRepubblica, e che denuncia il malaffare in corso d’opera con un articolo chiaro fin dal titolo: “L’avvento delle mamme-maitresse. Così finisce la sacra famiglia italiana”, ne contestiamo la premessa: «Novità storica sono le mamme istigatrici e complici. Non le lupe di Arcore, ma queste mamme-maitresse che investono e lucrano sul sesso delle figlie, mamme che rompono la gabbia, all’apparenza inespugnabile, dell’identità italiana, della mamma chioccia, del “son tutte belle le mamme del mondo”, della sacra famiglia, vetrina dei valori della tradizione: il matrimonio possibilmente d’amore, la maternità, la dignità. Mi faceva sorridere mia madre quando a mia sorella che si truccava gli occhi diceva: “Che cosa sono tutti questi buttanesimi”?». Infatti, nemmeno un tale malaffare è una “novità storica”, tanto meno una “liberazione dei costumi” come pretenderebbero i rivoluzionari (?) del “meno-male-che-silvio-c’è”. E’, invece, una gravissima ricaduta nel basso impero.
Le mamme-maitresse (ma anche i padri-maitresse) sono sempre esistite. La cessione della figlia al potente di turno per ottenere vantaggi economici e/o politici è fatto che data dalla notte dei tempi. Ma senza spingerci troppo indietro, basta restare a due racconti del Novecento molto realisti.
Il primo ci viene da La pelle di Curzio Malaparte. Il romanzo, come noto, narra le vicende del protagonista che accompagna le truppe alleate nella guerra di “liberazione” (?) dell’Italia nell’epilogo della Seconda guerra mondiale dove, una Napoli sopravvissuta alla «guerra per non morire», degenera nella misera della lotta per sopravvivere. In una Forcella apocalittica: «Donne livide, sfatte, dalle labbra dipinte, dalle smunte gote incrostate di belletto, orribili e pietose, sostavano all’angolo dei vicoli offrendo ai passanti la loro miserabile mercanzia: ragazzi e bambine di otto, di dieci anni, che i soldati marocchini, indiani, algerini, malgasci, palpavano sollevando loro la veste o infilando la mano fra bottoni e calzoncini. Le donne gridavano: “Two dollars the boys, three dollars the girls!».
Era un popolo di vinti, quello, che cercava di sopravvivere prostituendo i suoi figli. Un popolo di vinti cade sempre, in un modo o nell’altro, nella prostituzione. Non va assolto per questo: non va giustificato. Non lo fa Curzio Malaparte nel girone infernale che narra nel romanzo. Semmai ne ha compassione, ma è un’altra cosa. Non lo faremo nemmeno noi. Potremmo semmai disquisire sul grado di miseria diverso fra le due realtà narrate: quella dell’Italia vinta oggi e quella di allora. Ma la sottolineatura forte va messa sotto al fatto che a prostituirsi sono sempre gli sconfitti, ieri come oggi.
Niente di nuovo sotto il sole, quindi? Sembra di no, nemmeno a dar retta alla vulgata che sia il potere mediatico a indurre modelli comportamentali come quelli che stiamo osservando. Nel 1951, con il film Bellissima, Luchino Visconti racconta qualcosa di analogo all’odierno squittire di aspiranti veline. La protagonista, Maddalena Cecconi (Anna Magnani), viene attratta dalle luci della ribalta. Ma non per sé, per la figlia Maria (Tina Apicella) una bambina di otto anni. E’ disposta a tutto. Persino a concedere le sue grazie pur di garantire alla piccola il successo. Lo farà, infatti, immolandosi sessualmente alla causa sotto ricatto del perfido traffichino di illusioni Alberto Annovazzi (Walter Chiari). Ma almeno lei, la mamma, avrà un sussulto di orgoglio quando si renderà conto che la bambina è alla mercé di distruttori di anime. Ci sarebbe piaciuto leggere, fra le tante intercettazioni che inondano le pagine dei giornali di queste nostre cronache odierne, di una Maddalena Cecconi accorsa a riprendersi la figlia. Purtroppo, di una tale impresa contro la morsa pestifera non si rinviene traccia.
La peste è, appunto, la metafora che Curzio Malaparte usa per descrivere l’elemento corruttore delle anime degli sconfitti: «Ed ecco che, per effetto di quella schifosa peste, che per prima cosa corrompeva il senso dell’onore e della dignità femminile, la più spaventosa prostituzione aveva portato la vergogna in ogni tugurio e in ogni palazzo. Ma perché dire vergogna? Tanta era l’iniqua forza del contagio, che prostituirsi era divenuto un atto degno di lode, quasi una prova di amor di patria, e tutti, uomini e donne, lungi dall’arrossirne, parevano gloriarsi della propria e della universale abiezione». La metafora resta valida.
di Miro Renzaglia