Aveva ragione Francesco Borgonovo quando, qualche settimana fa in un suo articolo su Libero, da noi ripreso e commentato QUI, affermava con inveterata e fervida fede, che la rivoluzione berlusconiana aveva prodotto l’uomo nuovo: quello che pretende di arricchirsi e di giudicare con scrupoloso soggettivismo quali tasse sono giuste da pagare e quali, invece, no. Ma, pur avendo la ragione che gli dà la cronaca, era in difetto di riferimenti. Perché limitarsi all’uomo? Anche la donna berlusconiana brilla di quel radioso avvenire che irraggia all’Olgettina le papi-girls in attesa trepida della chiamata alle armi di Arcore, Palazzo Grazioli, Villa Certosa, Castel di Tor Crescenzo ed eventuali e varie altre zone limitrofe e collegate. E che dire della famiglia? Oh! quel sacro vincolo cementato un tempo dal sangue e dagli affetti, non ha subito forse una radicale trasformazione? La mamma che alla figlia prostrata per una sei giorni festosa con il Priapo di Brianza («non ti puoi immaginare in che condizioni sono guarda (…) sono in condizioni pietose, pietose proprio») chiede, ancor prima di consigliarle di «riposare», quant’è stato il corrispettivo ricevuto per i sudati allori, tirando alla risposta («seimila euro») un sospiro di soddisfazione, non è forse l’indice di una trasmutazione antropologica avvenuta anche nel nido familiare? E il fidanzato di un’altra descamisada (no, dico, il fidanzato: uno che un tempo se solo ti cadevano gli occhi sulla sua donna te li cavava, gli occhi, e te li metteva pure in mano in segno di elemosina), che rimprovera la fidanzata per non essersi fatta dare «i vestiti» (i vestiti?) perché, si giustificava la meschina: «comunque…non faccio niente con lui» subendo il rimbrotto dell’amato: «Eh, ma sei scema? Ma anche se fai o non fai, fatti dare!»; un fidanzato del genere – dicevo – non è forse un’altra spia lampante della rivoluzione compiuta nel diciassettennio (portasse sfiga?) berlusconiano?
Il problema vero è sempre lo stesso: questa epocale corruzione dell’anima di persone e istituzioni (familiari e no) a cui quotidianamente assistiamo nella politica, nella società, nel costume di questo disgraziato Paese, non è affatto una rivoluzione, una liberazione dei costumi, come pretendono i suoi esegeti, ma un degenerativo recupero di modelli che si volevano superati. E’ il ciclico riproporsi di restaurazioni reazionarie alle spinte prodotte da movimenti autenticamente libertari, come quello femminista per esempio. Una patacca, insomma. Né più né meno delle altre fulgenti innovazioni prodotte dal genio di Arcore.
Per questo, pur apprezzando l’articolo di Francesco Merlo apparso ieri suRepubblica, e che denuncia il malaffare in corso d’opera con un articolo chiaro fin dal titolo: “L’avvento delle mamme-maitresse. Così finisce la sacra famiglia italiana”, ne contestiamo la premessa: «Novità storica sono le mamme istigatrici e complici. Non le lupe di Arcore, ma queste mamme-maitresse che investono e lucrano sul sesso delle figlie, mamme che rompono la gabbia, all’apparenza inespugnabile, dell’identità italiana, della mamma chioccia, del “son tutte belle le mamme del mondo”, della sacra famiglia, vetrina dei valori della tradizione: il matrimonio possibilmente d’amore, la maternità, la dignità. Mi faceva sorridere mia madre quando a mia sorella che si truccava gli occhi diceva: “Che cosa sono tutti questi buttanesimi”?». Infatti, nemmeno un tale malaffare è una “novità storica”, tanto meno una “liberazione dei costumi” come pretenderebbero i rivoluzionari (?) del “meno-male-che-silvio-c’è”. E’, invece, una gravissima ricaduta nel basso impero.
Le mamme-maitresse (ma anche i padri-maitresse) sono sempre esistite. La cessione della figlia al potente di turno per ottenere vantaggi economici e/o politici è fatto che data dalla notte dei tempi. Ma senza spingerci troppo indietro, basta restare a due racconti del Novecento molto realisti.
Il primo ci viene da La pelle di Curzio Malaparte. Il romanzo, come noto, narra le vicende del protagonista che accompagna le truppe alleate nella guerra di “liberazione” (?) dell’Italia nell’epilogo della Seconda guerra mondiale dove, una Napoli sopravvissuta alla «guerra per non morire», degenera nella misera della lotta per sopravvivere. In una Forcella apocalittica: «Donne livide, sfatte, dalle labbra dipinte, dalle smunte gote incrostate di belletto, orribili e pietose, sostavano all’angolo dei vicoli offrendo ai passanti la loro miserabile mercanzia: ragazzi e bambine di otto, di dieci anni, che i soldati marocchini, indiani, algerini, malgasci, palpavano sollevando loro la veste o infilando la mano fra bottoni e calzoncini. Le donne gridavano: “Two dollars the boys, three dollars the girls!».
Era un popolo di vinti, quello, che cercava di sopravvivere prostituendo i suoi figli. Un popolo di vinti cade sempre, in un modo o nell’altro, nella prostituzione. Non va assolto per questo: non va giustificato. Non lo fa Curzio Malaparte nel girone infernale che narra nel romanzo. Semmai ne ha compassione, ma è un’altra cosa. Non lo faremo nemmeno noi. Potremmo semmai disquisire sul grado di miseria diverso fra le due realtà narrate: quella dell’Italia vinta oggi e quella di allora. Ma la sottolineatura forte va messa sotto al fatto che a prostituirsi sono sempre gli sconfitti, ieri come oggi.
Niente di nuovo sotto il sole, quindi? Sembra di no, nemmeno a dar retta alla vulgata che sia il potere mediatico a indurre modelli comportamentali come quelli che stiamo osservando. Nel 1951, con il film Bellissima, Luchino Visconti racconta qualcosa di analogo all’odierno squittire di aspiranti veline. La protagonista, Maddalena Cecconi (Anna Magnani), viene attratta dalle luci della ribalta. Ma non per sé, per la figlia Maria (Tina Apicella) una bambina di otto anni. E’ disposta a tutto. Persino a concedere le sue grazie pur di garantire alla piccola il successo. Lo farà, infatti, immolandosi sessualmente alla causa sotto ricatto del perfido traffichino di illusioni Alberto Annovazzi (Walter Chiari). Ma almeno lei, la mamma, avrà un sussulto di orgoglio quando si renderà conto che la bambina è alla mercé di distruttori di anime. Ci sarebbe piaciuto leggere, fra le tante intercettazioni che inondano le pagine dei giornali di queste nostre cronache odierne, di una Maddalena Cecconi accorsa a riprendersi la figlia. Purtroppo, di una tale impresa contro la morsa pestifera non si rinviene traccia.
La peste è, appunto, la metafora che Curzio Malaparte usa per descrivere l’elemento corruttore delle anime degli sconfitti: «Ed ecco che, per effetto di quella schifosa peste, che per prima cosa corrompeva il senso dell’onore e della dignità femminile, la più spaventosa prostituzione aveva portato la vergogna in ogni tugurio e in ogni palazzo. Ma perché dire vergogna? Tanta era l’iniqua forza del contagio, che prostituirsi era divenuto un atto degno di lode, quasi una prova di amor di patria, e tutti, uomini e donne, lungi dall’arrossirne, parevano gloriarsi della propria e della universale abiezione». La metafora resta valida.
di Miro Renzaglia
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