01 aprile 2011

Fora de ball

Non ci poteva essere più disgraziata celebrazione del 150 dell'Unità d'Italia della guerra di Libia e del marasma che ci avrebbe investito. E' come se fossimo stati colpiti a tradimento da una grossa randellata sulla testa, tanto grossa che ancora barcolliamo e non sappiamo come tenerci in piedi. Usa, Francia, Inghilterra preparavano da mesi la ribellione armata dei banditi libici tenendo contatti intensi con i rivoltosi sia in Libia come a Parigi o Londra. Non ne abbiamo saputo niente. Di quanto bolliva in pentola siamo stati tenuti all'oscuro dai servizi segreti del nostro Esercito che probabilmente si sente molto "americano" e molto "Nato" ed assai poco patriottico e dai servizi della Farnesina e della Presidenza del Consiglio. Quando l'attacco alla Libia era questione di ore non abbiamo saputo che cosa fare e non abbiamo saputo e potuto fare l'unica cosa giusta : dire no alla guerra, negare le basi militari, impedire l' aggressione alla Libia. Cosa realistica perchè senza l'Italia gli alleati non avrebbero potuto fare molto. Ma la preoccupazione dei nostri governanti e della opposizione non è stata quella di combattere la guerra e tutelare gli interessi della pace in una zona geostrategica per la nostra sic urezza ma di farci perdonare i nostri trascorsi con Gheddafi ed unirci in qualche modo alla spedizione coloniale che si approntava nelle anticamere della Casa Bianca. Un disastro terribile dal momento che abbiamo in Libia interessi colossali essenziali per la tenuta dell'Italia e che avremmo dovuto sopportare l'immigrazione in Italia alimentata da una base di tre milioni di africani fino ad oggi immigrati in Libia. Avendo mostrato viltà e debolezza ora siamo invisi a Dio ed ai nemici suoi. Gheddafi ci considera traditori, gli americani masticano amaro e si vendicano dei nostri rapporti triangolari con la Libia e la Russia, i francesi vogliono accaparrarsi del nostro posto in Libia e gli inglesi sono pronti a ripristinare la base militare che Gheddafi ha smantellato quarantadue anni orsono. Lampedusa viene presa d'assalto da migliaia di tunisini Berlusconi si dedica ad uno dei suoi show preferiti. Si reca a Lampedusa, compra un villone per accattivarsi la concittadinanza, promette che smaltirà al più presto l'enorme ammasso di tunisini che vaga per l'Isola. Intanto alla camera dei deputati si scrivono le pagine più nere però di un altro pianeta che non c'entra niente con quello che accade alle porte dell'Italia: il Ministro La Russa aggredisce il Presidente Fini con linguaggio volgarissimo e scoppiano tumulti per il cosidetto "processo breve" che Berlusconi vuole per farla franca con il processo Mills- Su rainew24 si trasmette la conferenza stampa in diretta di Maroni. Il Viminale ha fatto una ripartizione dei tunisini in

alcune regioni d'Italia tutte centro-meridionali ad eccezione della Liguria. A seguito delle veementi proteste decide di individuare altre sette tendopoli nel Nord finora escluso anche per obbedire all'editto di Bossi: "fora e ball" rivolto ai migranti. I quali migranti scappano da Manduria, attraversano l'Italia, giungono a Ventimiglia ma la Francia blocca il valico. I migranti improvvisano cortei di protesta. Tornano indietro. Non sanno dove stare. Un casino di cui nessuno riesce più a dipanarne la matassa aggrovigliata.

Spettacolo inverecondo offerto dal Governo vile e piagnucoloso, dal Parlamento che infierisce sulle ferite dell'Italia piuttosto che dichiarare l'Italia zona di pace chiudendo le basi militari alla Nato ed anche dalle Regioni che giocano tutte a rimpiattino con il Governo e tra di loro al fine di scaricare al più fesso (nel caso Vendola per Manduria o Lombardo per la Sicilia) l'arrivo e la sistemazione dei migranti. C'è intanto un enorme girotondo di navi, di aerei, di pulman di gente che va e gente che viene.....

Non siamo nè uno Stato nè una Nazione. Il governo non difende gli interessi nazionali

ma si preoccupa di non essere "posato" dalla signora Clinton e dal signor Obama. Cosa che questi signori hanno fatto, tanto fatto da ringraziare l'Italia per l'aiuto offerto agli alleati.

Non credo che USA, Gran Bretagna e Francia si ringraziino tra di loro. Si ringrazia l'Italia come la cameriera che è tanto tanto servizievole e brava e tanto masochista da spararsi sui piedi...

La prosperità della Libia ha impedito finora l'afflusso di migranti in Italia. La Libia ha assorbito inoltre migliaia e migliaia di nostri tecnici, ingegneri, specialisti che sono già tornati in Italia e sarà difficile trovare per loro del lavoro. Ora l'Italia sarà sommersa da una valanga umana. Il Canale di Sicilia sarà traversato da quanti cercheranno di sfuggire al dopo Gheddafi e quanti sono stati truffati dalle rivoluzioni con conclusione controrivoluzionaria della Tunisia e dell'Egitto. L'Italia potrebbe sfasciarsi sulla questione immigrazione assai di più che sul federalismo o altre cose. Intanto sebbene i discorsi di Napolitano all'ONU ed agli italo-americani vorrebbero dimostrare il contrario, l'Italia sta tornando ad essere una mera "espressione geografica".
di Pietro Ancona

31 marzo 2011

Non esistono persone che «amano troppo», ma solo persone che non sanno amare


Da quando, ventisei anni, fa la psicoterapista americana Robin Norwood ha pubblicato il suo libro «Donne che amano troppo», diventato rapidamente un bes-seller internazionale, l’immaginario collettivo delle donne, forse a dispetto delle intenzioni dell’autrice, ha trovato un nuovo strumento di vittimismo e di autocommiserazione.

L’idea, invero presente già nel titolo originale inglese («Women who love too much»), è che le donne, o almeno un buon numero di esse, sono portate ad amare molto, troppo; mentre gli uomini, si sa, non c’è pericolo che si mettano in un simile rischio: risultato, le donne soffrono per amore molto più degli uomini, e, quel che più conta, soffrono per aver amato troppo, ossia per una virtù che esse spingono fino all’eroismo, venendone mal ripagate.

Naturalmente non è questa la tesi del libro, e chi si prende la fatica di leggerlo, se ne rende conto ben presto; anzi, già da una lettura estremamente frettolosa, appare quanto l’autrice ritenga determinante, e deleterio, il rapporto di molte donne con le loro madri: un rapporto sbagliato, che le porta e replicare con gli uomini, quando passano dall’adolescenza all’età adulta, le stesse dinamiche distruttive che già le madri hanno sperimentato con i loro mariti o compagni e che poi, cariche di frustrazione, hanno riversato sulle figlie, senza tuttavia che queste imparassero minimamente la lezione.

Ma allora, perché quel titolo ambiguo, che suggerisce una chiave di lettura scorretta e fuorviante? Forse per strizzare l’occhio al post-femminismo, per toccare le corde più lacrimose e sdolcinate dell’animo dei lettori, e specialmente delle lettrici?

C’è, in esso, un sottinteso non proprio limpido, non proprio onesto: che, in questa società egoista e crudele, amare sia una cosa meravigliosa, e amare troppo costituisca, sì, un errore, ma uno di quegli errori che non possono non strappare negli altri un moto di ammirazione, o almeno di profonda compassione, se non altro per il coraggio affettivo che esso implica, per la capacità di dedizione, in breve: per la disponibilità a mettersi interamente in gioco, senza paracadute e senza uscite d’emergenza.

Insomma è la solita vecchia storia di Francesca da Rimini: se perfino il gran padre Dante si turba, piange e sviene davanti al suo drammatico racconto (mentre, si badi, Paolo se ne resta in silenzio e fa la figura del perfetto idiota), bisogna proprio avere un cuore di pietra per non sentire che questo tipo di donna, la donna che ama troppo, è forse colpevole agli occhi del mondo, ma di certo è innocente agli occhi di chi sappia veramente cosa sia il cuore umano.

Ma le cose stanno ben altrimenti.

La verità è che non esistono donne, e nemmeno uomini, che amino “troppo”: che cosa vuole mai significare una espressione del genere? Sarebbe come dire che al mondo ci sono troppa bontà, o troppa verità, o troppa giustizia: una autentica sciocchezza. L’amore non è mai troppo, mai, mai; e chi è disposto a bersi una frottola del genere, vuol dire che è capace di digerire qualunque inverosimile stravaganza o deliberata menzogna gli si vogliano propinare.

Il problema non è mai quello di amare troppo, mai: piuttosto, il problema è quello di saper amare o di non saper amare.

E si faccia attenzione che non diciamo nemmeno: «il problema è quello di amare male», perché sarebbe una plateale contraddizione in termini: che cosa significa, infatti, dire di Tizia o di Sempronio che essi sono persone che «amano male»? Nessuno potrebbe amare male: se si ama veramente, si ama e basta; e l’amore è sempre una cosa buona, sempre.

Amare non è una singola azione, come dipingere, fare la spesa, pregare. Certo si può dipingere male, fare male la spesa, perfino pregare male: queste sono tutte azioni, sia pure di segno estremamente diversificato; e un’azione può essere compiuta bene oppure male.

Amare, invece, non è un’azione: è un modo dell’essere. Quando l’essere ama – ma diremmo meglio: se l’essere ama, se è capace di amare -, allora ama e basta: la sua disposizione, la sua apertura esistenziale si possono manifestare anche attraverso azioni, giuste o sbagliate, buone o cattive che siano; tuttavia, a monte di tali azioni, vi è un modo dell’essere, un movimento dell’anima e, al tempo stesso, un suo stato qualitativo.

Ora, l’essere è, per definizione, amore. Amore incondizionato, amore per la vita: se non altro, amore per la propria vita. Infatti, quando l’essere prende in odio il mondo e perfino se stesso, decide di sopprimersi: vuole togliere di mezzo quell’essere che ama, nonostante tutto, e che si ribella al rifiuto del’amore, proprio o altrui.

Questo significa non solo che siamo fatti per l’amore, ma che siamo amore in noi stessi: il nostro scopo, il nostro significato, la nostra ragione d’essere, sono l’amore: veniamo dall’amore e all’amore aspiriamo a ritornare.

Che le persone amino, dunque, è scontato: certo, da ciò non deriva che esse sappiano amare; al contrario, molte non sanno amare, o hanno paura di amare, o non osano amare, non si ritengono degne di amare e di essere amate.

È un problema dell’essere, non dell’amore.

Se non si sa amare, le cause possono essere molteplici, ma tutte riconducibili, in un modo o nell’altro, a un denominatore comune: l’insufficienza, l’inadeguatezza dell’essere. Essere vuol dire amare; ma, appunto, per amare bisogna che ci sia l’essere.

Se l’essere è in difetto, se non si è sviluppato ed evoluto, se non è nemmeno consapevole di se stesso e del mondo, allora non vi può essere amore. Alcuni, dall’esterno, sono portati, in questi casi, a parlare di «troppo amore», di «amore sbagliato»: ma sono tutte sciocchezze. L’amore non è mai troppo e non è mai sbagliato; piuttosto, il fatto è che l’amore non può albergare laddove vi sia carenza di essere.

Gli spiriti superficiali sono portati a dire: «Amo, dunque sono», ma è vero l’esatto contrario: «Sono, dunque amo»; per cui, se non si È, non si può nemmeno amare. Non è che si ami troppo, o in modo sbagliato; è che proprio non si sa amare, non si sa che cosa sia l’amore.

A differenza di quanto comunemente si crede, è possibile, possibilissimo, essere dei perfetti analfabeti dell’amore: non importa quanti anni si ha o quanta esperienza di vita, nel senso quantitativo: saper amare è innanzitutto un dono e solo in seconda battuta una conquista.

Il fatto è che le donne, e anche alcuni uomini, sono portati a caricarsi di amori impossibili, dai quali ricaveranno solo amarezza e dolore, per una serie di ragioni ben precise, che poco o nulla hanno a che fare con l’amare troppo e molto, invece, con la scarsa stima e lo scarso amore di se stessi. In altri termini, se si amano disperatamente delle persone egoiste, imprevedibili, cattive e perfino sadiche o violente, la ragione vera è in relazione con un segreto desiderio di autopunizione e, inoltre, con un doloroso bisogno di essere accettati.

È come se ciascuno di questi innamorati infelici, di questi buoni samaritani a oltranza, di queste crocerossine e di questi missionari dalla infinita capacità di sopportazione, dicessero, più o meno, ai loro amanti-carnefici: «Vedi di quanto amore sono capace, di quanta inesauribile dedizione, di quale spirito di sacrificio: come potresti non ricambiare il mio amore, come potresti non provare per me gratitudine eterna?».

Ma è evidente che le cose stanno altrimenti; che quelle persone non hanno fiducia in se stesse, non si ritengono degne di essere amate semplicemente per quello che sono, così come sono; è evidente che, caricandosi sulle spalle fardelli disumani, inghiottendo maltrattamenti e umiliazioni, sopportando stoicamente continue docce scozzesi di manifestazioni affettive contraddittorie, fino alle botte e alla violenza fisica, altro non stanno facendo che inseguire il miraggio di un impossibile perdono di se stessi, per qualche colpa che ritengono di aver commesso, magari nella lontana infanzia, o per placare il fantasma corrucciato di un genitore che li avrebbe voluti diversi e migliori, ossia, detto in parole semplici, più conformi ai propri desideri.

Questo non significa che amare una persona difficile implichi SEMPRE disistima e disamore di se stessi, né che avere una certa propensione a fare la crocerossina o il missionario scaturisca SEMPRE da un trauma infantile o da un rapporto problematico con il padre o la madre.

Sono equilibri complessi, delicatissimi: stabilire dove finisca un comportamento affettivo “normale”, qualunque cosa ciò significhi, e dove, invece, ne incominci uno di segno patologico, fondato sul masochismo, è cosa tutt’altro che semplice, e lasciamo volentieri alla psicologia il compito di vagliare caso per caso, alla ricerca di questa elusiva linea di frontiera.

A noi preme, piuttosto, indicare l’aspetto generale del problema e ciò da un punto di vista essenzialmente filosofico, tralasciando, cioè, problematiche strettamente individuali e puntando dritti al cuore della questione: ossia alla mancanza di significato di concetti come quello di «amare troppo» o di «amare male»; per ribadire che, in effetti, esistono solo due tipi di persone, beninteso con molte sfumature intermedie: coloro che sanno amare e coloro che non sanno.

Saper amare, significa innanzitutto sapere, potere e volere amare se stessi, comprese le proprie debolezze e insufficienze, senza per questo corteggiarle e farsene scudo allo scopo di evadere dalle proprie responsabilità; in secondo luogo, amare la vita, compresi gli aspetti difficili e, talvolta, dolorosi di essa; in terzo luogo, cercare di rispondere nel modo migliore e più limpido alla chiamata dell’Essere, facendo della propria vita il luogo di una incessante maturazione spirituale.

In ogni caso, come dicevamo prima, essere è già amare: per cui chi non sa amare affatto - e stiamo parlando di moltissime persone, probabilmente di una larga maggioranza di esse - è, in realtà, un individuo povero di essere: un manichino che solo da lontano può venire scambiato per un autentico essere umano.

Certo, questo è un concetto molto forte, molto duro da accettare: ce ne rendiamo perfettamente conto.

Equivale a dire che la maggior parte degli esseri umani non sono veramente tali; che sono soltanto delle misere contraffazioni, talvolta consapevoli, talaltra inconsapevoli, di ciò che un essere umano dovrebbe realmente essere.

È un’idea sgradevole, che fa venire i brividi; eppure, crediamo che in essa non vi sia nulla di esagerato.

Che fare, dunque?

Forse dovremmo ricordarci, ogni tanto, che noi possediamo l’essere, ma non siamo l’essere: per cui ciò che è impossibile a noi come individui finiti e soggetti ad immense limitazioni, diviene possibile allorché ci immergiamo nel fluire dell’Essere, allorché rivolgiamo un pensiero di umiltà e di consapevolezza a quell’Essere da cui proveniamo ed al quale ritorneremo.

Non siamo noi l’essere, ma soltanto una delle sue infinite manifestazioni; e, se ci rendiamo conto della nostra povertà di essere, faremmo bene, ogni tanto, a rivolgerci non solo a professionisti della psiche, che si fanno ben pagare i loro consigli e le loro terapie, ma anche a quella Sorgente infinita dalla quale scaturisce tutto ciò che esiste, tutto ciò che ha vita e tutto ciò che popola la realtà con le sue innumerevoli manifestazioni.

A quel punto, la nostra debolezza si tramuterebbe in forza; la nostra indigenza, in pienezza; la nostra infelicità e la nostra solitudine, in gioia e calore.

Ci piace pensare che ciò sia pressoché impossibile, per paura di farne l’esperienza; preferiamo rinchiuderci nelle nostre orgogliose certezze razionalistiche.

Certo, è una scelta e fa parte della nostra libertà: noi siamo liberi.

Siamo liberi anche di farci del male; di persistere lungo strade sbagliate, che non portano da nessuna parte; di attardarci nei deserti afosi della disperazione, quando potremmo affrettarci nei giardini fioriti dell’Essere.

Siamo liberi anche di raccontarci delle pietose menzogne, per scusare il poco amore che abbiamo di noi stessi: come quella di essere indispensabili a qualcuno che non ci ama, che non ci stima, che non ci vuole.

di F. Lamendola

30 marzo 2011

Euro 2: la vendetta

http://www.euro.lt/documents/Euro%20brezinys_EC1.JPG

Ritorno ancora su un argomento che mi sta particolarmente a cuore visto che sono stato uno dei primi a parlarne in anticipo in tempi non sospetti, era infatti il 2008 quando spiegavo il Club Med e a che cosa ci avrebbe portato. La scorsa estate ho scritto il saggio economico intitolato “L’Europa sé rotta” ma pare che ancora adesso la maggior parte dei piccoli risparmiatori ed investitori italiani non si renda conto di che rischi gravino sui loro portafogli e sullo scenario macroeconomico europeo. Nello specifico il cosiddetto rischio di spaccatura monetaria all’interno dell’area valutaria dell’Unione Europea. Sostanzialmente tutto questo è rappresentato dalla Teoria di Euro 2 ovvero l’emersione o la creazione di una seconda divisa in Europa che venga adottata dai paesi periferici.


La crisi dei PIGS (ho scoperto che ci sono persone che ancora non sanno che cosa sono) è in realtà la crisi dell’euro ovvero di una moneta imposta dall’alto a 17 economie che tra di loro hanno ben poco in comune. La moneta per ogni paese è una potente arma di difesa in momenti di turbolenza o difficoltà finanziaria, rappresenta una sorta di valvola a pressione per raffreddare l’economia o per rilanciarla in momenti di profonda contrazione. Nello specifico aver obbligato paesi come il nostro ad usare una divisa troppo forte per un economia troppo debole è stato una follia. Se ne stanno rendendo conto troppo tardi adesso le autorità istituzionali, nonostante i recenti moniti di prestigiose personalità dello stesso mondo accademico, vedi Roubini, Stiglitz, Fitoussi, Attali e Zingales.


Per chi non lo sapesse vi sono centinaia di operatori istituzionali che stanno covando in silenzio operazioni di speculazione finanziaria sul default dell’euro o sulla sua dipartita: persino Warren Buffet ha sentenziato la fine prossima della moneta unica a fronte delle continue e ripetute difficoltà di Spagna e Portogallo. La crisi dei PIGS ha fatto emergere una insostenibile architettura finanziaria tra i paesi virtuosi dell’Europa del Nord e quelli in quarantena finanziaria dell’Europa Periferica: in poche parole il debito dei paesi deboli è in mano per la maggior parte ai paesi sani e forti (si fa per dire, infatti anche la Germania molto presto si troverà a dover aiutare altri partner europei per evitare di perdere la leadership politica in Europa).Il Giappone, con quello che ha recentemente subito, non preoccupa nessuno (almeno dal punto di vista economico) in quanto il 95% del suo debito pubblico è in mano agli stessi giapponesi, mentre Francia, Germania ed Inghilterra detengono percentuali rilevanti del debito pubblico spagnolo, greco, irlandese, italiano e cosi via. Pertanto le sorti del debitore sono nelle mani del creditore: il peggior scenario ! Ponete pertanto la massima attenzione: quello che un tempo poteva essere un investimentio risk free come un titolo di stato europeo oggi potrebbe essere uno dei primi investimenti a prendere un bagno di sangue. Lo stesso Cameron, incalzato successivamente dalla Merkel, ha più volte ribadito che non è possibile continuare a far pagare ai soli contribuenti questa bomba con la miccia accesa, in più occasioni qualcuno ha paventato l’idea del default parziale.

Con questo termine si intende il rimborso non integrale dei titoli di stato alla loro naturale scadenza. Recentemente la Banca J.P. Morgan ha ipotizzato per il breve periodo la possibilità di default parziale dal 5% al 25%, a seconda dello scenario, per i paesi PIGS (mettendoci dentro anche l’Irlanda e l’Inghilterra). Evitate pertanto di massificare il vostro portafoglio con solo titoli di stato aerea euro, specie se a tasso fisso e con scadenze molto lunghe, preferite piuttosto le emissioni con tasso ancorato all’inflazione. Se poi si volesse scegliere il titolo di stato più sicuro al mondo in questo momento allora si dovrebbe puntare su quelli norvegesi: strana fatalità, infatti la Norvegia è un paese che di entrare in Europa proprio non ne vuol sentire.
di Eugenio Benetazzo

01 aprile 2011

Fora de ball

Non ci poteva essere più disgraziata celebrazione del 150 dell'Unità d'Italia della guerra di Libia e del marasma che ci avrebbe investito. E' come se fossimo stati colpiti a tradimento da una grossa randellata sulla testa, tanto grossa che ancora barcolliamo e non sappiamo come tenerci in piedi. Usa, Francia, Inghilterra preparavano da mesi la ribellione armata dei banditi libici tenendo contatti intensi con i rivoltosi sia in Libia come a Parigi o Londra. Non ne abbiamo saputo niente. Di quanto bolliva in pentola siamo stati tenuti all'oscuro dai servizi segreti del nostro Esercito che probabilmente si sente molto "americano" e molto "Nato" ed assai poco patriottico e dai servizi della Farnesina e della Presidenza del Consiglio. Quando l'attacco alla Libia era questione di ore non abbiamo saputo che cosa fare e non abbiamo saputo e potuto fare l'unica cosa giusta : dire no alla guerra, negare le basi militari, impedire l' aggressione alla Libia. Cosa realistica perchè senza l'Italia gli alleati non avrebbero potuto fare molto. Ma la preoccupazione dei nostri governanti e della opposizione non è stata quella di combattere la guerra e tutelare gli interessi della pace in una zona geostrategica per la nostra sic urezza ma di farci perdonare i nostri trascorsi con Gheddafi ed unirci in qualche modo alla spedizione coloniale che si approntava nelle anticamere della Casa Bianca. Un disastro terribile dal momento che abbiamo in Libia interessi colossali essenziali per la tenuta dell'Italia e che avremmo dovuto sopportare l'immigrazione in Italia alimentata da una base di tre milioni di africani fino ad oggi immigrati in Libia. Avendo mostrato viltà e debolezza ora siamo invisi a Dio ed ai nemici suoi. Gheddafi ci considera traditori, gli americani masticano amaro e si vendicano dei nostri rapporti triangolari con la Libia e la Russia, i francesi vogliono accaparrarsi del nostro posto in Libia e gli inglesi sono pronti a ripristinare la base militare che Gheddafi ha smantellato quarantadue anni orsono. Lampedusa viene presa d'assalto da migliaia di tunisini Berlusconi si dedica ad uno dei suoi show preferiti. Si reca a Lampedusa, compra un villone per accattivarsi la concittadinanza, promette che smaltirà al più presto l'enorme ammasso di tunisini che vaga per l'Isola. Intanto alla camera dei deputati si scrivono le pagine più nere però di un altro pianeta che non c'entra niente con quello che accade alle porte dell'Italia: il Ministro La Russa aggredisce il Presidente Fini con linguaggio volgarissimo e scoppiano tumulti per il cosidetto "processo breve" che Berlusconi vuole per farla franca con il processo Mills- Su rainew24 si trasmette la conferenza stampa in diretta di Maroni. Il Viminale ha fatto una ripartizione dei tunisini in

alcune regioni d'Italia tutte centro-meridionali ad eccezione della Liguria. A seguito delle veementi proteste decide di individuare altre sette tendopoli nel Nord finora escluso anche per obbedire all'editto di Bossi: "fora e ball" rivolto ai migranti. I quali migranti scappano da Manduria, attraversano l'Italia, giungono a Ventimiglia ma la Francia blocca il valico. I migranti improvvisano cortei di protesta. Tornano indietro. Non sanno dove stare. Un casino di cui nessuno riesce più a dipanarne la matassa aggrovigliata.

Spettacolo inverecondo offerto dal Governo vile e piagnucoloso, dal Parlamento che infierisce sulle ferite dell'Italia piuttosto che dichiarare l'Italia zona di pace chiudendo le basi militari alla Nato ed anche dalle Regioni che giocano tutte a rimpiattino con il Governo e tra di loro al fine di scaricare al più fesso (nel caso Vendola per Manduria o Lombardo per la Sicilia) l'arrivo e la sistemazione dei migranti. C'è intanto un enorme girotondo di navi, di aerei, di pulman di gente che va e gente che viene.....

Non siamo nè uno Stato nè una Nazione. Il governo non difende gli interessi nazionali

ma si preoccupa di non essere "posato" dalla signora Clinton e dal signor Obama. Cosa che questi signori hanno fatto, tanto fatto da ringraziare l'Italia per l'aiuto offerto agli alleati.

Non credo che USA, Gran Bretagna e Francia si ringraziino tra di loro. Si ringrazia l'Italia come la cameriera che è tanto tanto servizievole e brava e tanto masochista da spararsi sui piedi...

La prosperità della Libia ha impedito finora l'afflusso di migranti in Italia. La Libia ha assorbito inoltre migliaia e migliaia di nostri tecnici, ingegneri, specialisti che sono già tornati in Italia e sarà difficile trovare per loro del lavoro. Ora l'Italia sarà sommersa da una valanga umana. Il Canale di Sicilia sarà traversato da quanti cercheranno di sfuggire al dopo Gheddafi e quanti sono stati truffati dalle rivoluzioni con conclusione controrivoluzionaria della Tunisia e dell'Egitto. L'Italia potrebbe sfasciarsi sulla questione immigrazione assai di più che sul federalismo o altre cose. Intanto sebbene i discorsi di Napolitano all'ONU ed agli italo-americani vorrebbero dimostrare il contrario, l'Italia sta tornando ad essere una mera "espressione geografica".
di Pietro Ancona

31 marzo 2011

Non esistono persone che «amano troppo», ma solo persone che non sanno amare


Da quando, ventisei anni, fa la psicoterapista americana Robin Norwood ha pubblicato il suo libro «Donne che amano troppo», diventato rapidamente un bes-seller internazionale, l’immaginario collettivo delle donne, forse a dispetto delle intenzioni dell’autrice, ha trovato un nuovo strumento di vittimismo e di autocommiserazione.

L’idea, invero presente già nel titolo originale inglese («Women who love too much»), è che le donne, o almeno un buon numero di esse, sono portate ad amare molto, troppo; mentre gli uomini, si sa, non c’è pericolo che si mettano in un simile rischio: risultato, le donne soffrono per amore molto più degli uomini, e, quel che più conta, soffrono per aver amato troppo, ossia per una virtù che esse spingono fino all’eroismo, venendone mal ripagate.

Naturalmente non è questa la tesi del libro, e chi si prende la fatica di leggerlo, se ne rende conto ben presto; anzi, già da una lettura estremamente frettolosa, appare quanto l’autrice ritenga determinante, e deleterio, il rapporto di molte donne con le loro madri: un rapporto sbagliato, che le porta e replicare con gli uomini, quando passano dall’adolescenza all’età adulta, le stesse dinamiche distruttive che già le madri hanno sperimentato con i loro mariti o compagni e che poi, cariche di frustrazione, hanno riversato sulle figlie, senza tuttavia che queste imparassero minimamente la lezione.

Ma allora, perché quel titolo ambiguo, che suggerisce una chiave di lettura scorretta e fuorviante? Forse per strizzare l’occhio al post-femminismo, per toccare le corde più lacrimose e sdolcinate dell’animo dei lettori, e specialmente delle lettrici?

C’è, in esso, un sottinteso non proprio limpido, non proprio onesto: che, in questa società egoista e crudele, amare sia una cosa meravigliosa, e amare troppo costituisca, sì, un errore, ma uno di quegli errori che non possono non strappare negli altri un moto di ammirazione, o almeno di profonda compassione, se non altro per il coraggio affettivo che esso implica, per la capacità di dedizione, in breve: per la disponibilità a mettersi interamente in gioco, senza paracadute e senza uscite d’emergenza.

Insomma è la solita vecchia storia di Francesca da Rimini: se perfino il gran padre Dante si turba, piange e sviene davanti al suo drammatico racconto (mentre, si badi, Paolo se ne resta in silenzio e fa la figura del perfetto idiota), bisogna proprio avere un cuore di pietra per non sentire che questo tipo di donna, la donna che ama troppo, è forse colpevole agli occhi del mondo, ma di certo è innocente agli occhi di chi sappia veramente cosa sia il cuore umano.

Ma le cose stanno ben altrimenti.

La verità è che non esistono donne, e nemmeno uomini, che amino “troppo”: che cosa vuole mai significare una espressione del genere? Sarebbe come dire che al mondo ci sono troppa bontà, o troppa verità, o troppa giustizia: una autentica sciocchezza. L’amore non è mai troppo, mai, mai; e chi è disposto a bersi una frottola del genere, vuol dire che è capace di digerire qualunque inverosimile stravaganza o deliberata menzogna gli si vogliano propinare.

Il problema non è mai quello di amare troppo, mai: piuttosto, il problema è quello di saper amare o di non saper amare.

E si faccia attenzione che non diciamo nemmeno: «il problema è quello di amare male», perché sarebbe una plateale contraddizione in termini: che cosa significa, infatti, dire di Tizia o di Sempronio che essi sono persone che «amano male»? Nessuno potrebbe amare male: se si ama veramente, si ama e basta; e l’amore è sempre una cosa buona, sempre.

Amare non è una singola azione, come dipingere, fare la spesa, pregare. Certo si può dipingere male, fare male la spesa, perfino pregare male: queste sono tutte azioni, sia pure di segno estremamente diversificato; e un’azione può essere compiuta bene oppure male.

Amare, invece, non è un’azione: è un modo dell’essere. Quando l’essere ama – ma diremmo meglio: se l’essere ama, se è capace di amare -, allora ama e basta: la sua disposizione, la sua apertura esistenziale si possono manifestare anche attraverso azioni, giuste o sbagliate, buone o cattive che siano; tuttavia, a monte di tali azioni, vi è un modo dell’essere, un movimento dell’anima e, al tempo stesso, un suo stato qualitativo.

Ora, l’essere è, per definizione, amore. Amore incondizionato, amore per la vita: se non altro, amore per la propria vita. Infatti, quando l’essere prende in odio il mondo e perfino se stesso, decide di sopprimersi: vuole togliere di mezzo quell’essere che ama, nonostante tutto, e che si ribella al rifiuto del’amore, proprio o altrui.

Questo significa non solo che siamo fatti per l’amore, ma che siamo amore in noi stessi: il nostro scopo, il nostro significato, la nostra ragione d’essere, sono l’amore: veniamo dall’amore e all’amore aspiriamo a ritornare.

Che le persone amino, dunque, è scontato: certo, da ciò non deriva che esse sappiano amare; al contrario, molte non sanno amare, o hanno paura di amare, o non osano amare, non si ritengono degne di amare e di essere amate.

È un problema dell’essere, non dell’amore.

Se non si sa amare, le cause possono essere molteplici, ma tutte riconducibili, in un modo o nell’altro, a un denominatore comune: l’insufficienza, l’inadeguatezza dell’essere. Essere vuol dire amare; ma, appunto, per amare bisogna che ci sia l’essere.

Se l’essere è in difetto, se non si è sviluppato ed evoluto, se non è nemmeno consapevole di se stesso e del mondo, allora non vi può essere amore. Alcuni, dall’esterno, sono portati, in questi casi, a parlare di «troppo amore», di «amore sbagliato»: ma sono tutte sciocchezze. L’amore non è mai troppo e non è mai sbagliato; piuttosto, il fatto è che l’amore non può albergare laddove vi sia carenza di essere.

Gli spiriti superficiali sono portati a dire: «Amo, dunque sono», ma è vero l’esatto contrario: «Sono, dunque amo»; per cui, se non si È, non si può nemmeno amare. Non è che si ami troppo, o in modo sbagliato; è che proprio non si sa amare, non si sa che cosa sia l’amore.

A differenza di quanto comunemente si crede, è possibile, possibilissimo, essere dei perfetti analfabeti dell’amore: non importa quanti anni si ha o quanta esperienza di vita, nel senso quantitativo: saper amare è innanzitutto un dono e solo in seconda battuta una conquista.

Il fatto è che le donne, e anche alcuni uomini, sono portati a caricarsi di amori impossibili, dai quali ricaveranno solo amarezza e dolore, per una serie di ragioni ben precise, che poco o nulla hanno a che fare con l’amare troppo e molto, invece, con la scarsa stima e lo scarso amore di se stessi. In altri termini, se si amano disperatamente delle persone egoiste, imprevedibili, cattive e perfino sadiche o violente, la ragione vera è in relazione con un segreto desiderio di autopunizione e, inoltre, con un doloroso bisogno di essere accettati.

È come se ciascuno di questi innamorati infelici, di questi buoni samaritani a oltranza, di queste crocerossine e di questi missionari dalla infinita capacità di sopportazione, dicessero, più o meno, ai loro amanti-carnefici: «Vedi di quanto amore sono capace, di quanta inesauribile dedizione, di quale spirito di sacrificio: come potresti non ricambiare il mio amore, come potresti non provare per me gratitudine eterna?».

Ma è evidente che le cose stanno altrimenti; che quelle persone non hanno fiducia in se stesse, non si ritengono degne di essere amate semplicemente per quello che sono, così come sono; è evidente che, caricandosi sulle spalle fardelli disumani, inghiottendo maltrattamenti e umiliazioni, sopportando stoicamente continue docce scozzesi di manifestazioni affettive contraddittorie, fino alle botte e alla violenza fisica, altro non stanno facendo che inseguire il miraggio di un impossibile perdono di se stessi, per qualche colpa che ritengono di aver commesso, magari nella lontana infanzia, o per placare il fantasma corrucciato di un genitore che li avrebbe voluti diversi e migliori, ossia, detto in parole semplici, più conformi ai propri desideri.

Questo non significa che amare una persona difficile implichi SEMPRE disistima e disamore di se stessi, né che avere una certa propensione a fare la crocerossina o il missionario scaturisca SEMPRE da un trauma infantile o da un rapporto problematico con il padre o la madre.

Sono equilibri complessi, delicatissimi: stabilire dove finisca un comportamento affettivo “normale”, qualunque cosa ciò significhi, e dove, invece, ne incominci uno di segno patologico, fondato sul masochismo, è cosa tutt’altro che semplice, e lasciamo volentieri alla psicologia il compito di vagliare caso per caso, alla ricerca di questa elusiva linea di frontiera.

A noi preme, piuttosto, indicare l’aspetto generale del problema e ciò da un punto di vista essenzialmente filosofico, tralasciando, cioè, problematiche strettamente individuali e puntando dritti al cuore della questione: ossia alla mancanza di significato di concetti come quello di «amare troppo» o di «amare male»; per ribadire che, in effetti, esistono solo due tipi di persone, beninteso con molte sfumature intermedie: coloro che sanno amare e coloro che non sanno.

Saper amare, significa innanzitutto sapere, potere e volere amare se stessi, comprese le proprie debolezze e insufficienze, senza per questo corteggiarle e farsene scudo allo scopo di evadere dalle proprie responsabilità; in secondo luogo, amare la vita, compresi gli aspetti difficili e, talvolta, dolorosi di essa; in terzo luogo, cercare di rispondere nel modo migliore e più limpido alla chiamata dell’Essere, facendo della propria vita il luogo di una incessante maturazione spirituale.

In ogni caso, come dicevamo prima, essere è già amare: per cui chi non sa amare affatto - e stiamo parlando di moltissime persone, probabilmente di una larga maggioranza di esse - è, in realtà, un individuo povero di essere: un manichino che solo da lontano può venire scambiato per un autentico essere umano.

Certo, questo è un concetto molto forte, molto duro da accettare: ce ne rendiamo perfettamente conto.

Equivale a dire che la maggior parte degli esseri umani non sono veramente tali; che sono soltanto delle misere contraffazioni, talvolta consapevoli, talaltra inconsapevoli, di ciò che un essere umano dovrebbe realmente essere.

È un’idea sgradevole, che fa venire i brividi; eppure, crediamo che in essa non vi sia nulla di esagerato.

Che fare, dunque?

Forse dovremmo ricordarci, ogni tanto, che noi possediamo l’essere, ma non siamo l’essere: per cui ciò che è impossibile a noi come individui finiti e soggetti ad immense limitazioni, diviene possibile allorché ci immergiamo nel fluire dell’Essere, allorché rivolgiamo un pensiero di umiltà e di consapevolezza a quell’Essere da cui proveniamo ed al quale ritorneremo.

Non siamo noi l’essere, ma soltanto una delle sue infinite manifestazioni; e, se ci rendiamo conto della nostra povertà di essere, faremmo bene, ogni tanto, a rivolgerci non solo a professionisti della psiche, che si fanno ben pagare i loro consigli e le loro terapie, ma anche a quella Sorgente infinita dalla quale scaturisce tutto ciò che esiste, tutto ciò che ha vita e tutto ciò che popola la realtà con le sue innumerevoli manifestazioni.

A quel punto, la nostra debolezza si tramuterebbe in forza; la nostra indigenza, in pienezza; la nostra infelicità e la nostra solitudine, in gioia e calore.

Ci piace pensare che ciò sia pressoché impossibile, per paura di farne l’esperienza; preferiamo rinchiuderci nelle nostre orgogliose certezze razionalistiche.

Certo, è una scelta e fa parte della nostra libertà: noi siamo liberi.

Siamo liberi anche di farci del male; di persistere lungo strade sbagliate, che non portano da nessuna parte; di attardarci nei deserti afosi della disperazione, quando potremmo affrettarci nei giardini fioriti dell’Essere.

Siamo liberi anche di raccontarci delle pietose menzogne, per scusare il poco amore che abbiamo di noi stessi: come quella di essere indispensabili a qualcuno che non ci ama, che non ci stima, che non ci vuole.

di F. Lamendola

30 marzo 2011

Euro 2: la vendetta

http://www.euro.lt/documents/Euro%20brezinys_EC1.JPG

Ritorno ancora su un argomento che mi sta particolarmente a cuore visto che sono stato uno dei primi a parlarne in anticipo in tempi non sospetti, era infatti il 2008 quando spiegavo il Club Med e a che cosa ci avrebbe portato. La scorsa estate ho scritto il saggio economico intitolato “L’Europa sé rotta” ma pare che ancora adesso la maggior parte dei piccoli risparmiatori ed investitori italiani non si renda conto di che rischi gravino sui loro portafogli e sullo scenario macroeconomico europeo. Nello specifico il cosiddetto rischio di spaccatura monetaria all’interno dell’area valutaria dell’Unione Europea. Sostanzialmente tutto questo è rappresentato dalla Teoria di Euro 2 ovvero l’emersione o la creazione di una seconda divisa in Europa che venga adottata dai paesi periferici.


La crisi dei PIGS (ho scoperto che ci sono persone che ancora non sanno che cosa sono) è in realtà la crisi dell’euro ovvero di una moneta imposta dall’alto a 17 economie che tra di loro hanno ben poco in comune. La moneta per ogni paese è una potente arma di difesa in momenti di turbolenza o difficoltà finanziaria, rappresenta una sorta di valvola a pressione per raffreddare l’economia o per rilanciarla in momenti di profonda contrazione. Nello specifico aver obbligato paesi come il nostro ad usare una divisa troppo forte per un economia troppo debole è stato una follia. Se ne stanno rendendo conto troppo tardi adesso le autorità istituzionali, nonostante i recenti moniti di prestigiose personalità dello stesso mondo accademico, vedi Roubini, Stiglitz, Fitoussi, Attali e Zingales.


Per chi non lo sapesse vi sono centinaia di operatori istituzionali che stanno covando in silenzio operazioni di speculazione finanziaria sul default dell’euro o sulla sua dipartita: persino Warren Buffet ha sentenziato la fine prossima della moneta unica a fronte delle continue e ripetute difficoltà di Spagna e Portogallo. La crisi dei PIGS ha fatto emergere una insostenibile architettura finanziaria tra i paesi virtuosi dell’Europa del Nord e quelli in quarantena finanziaria dell’Europa Periferica: in poche parole il debito dei paesi deboli è in mano per la maggior parte ai paesi sani e forti (si fa per dire, infatti anche la Germania molto presto si troverà a dover aiutare altri partner europei per evitare di perdere la leadership politica in Europa).Il Giappone, con quello che ha recentemente subito, non preoccupa nessuno (almeno dal punto di vista economico) in quanto il 95% del suo debito pubblico è in mano agli stessi giapponesi, mentre Francia, Germania ed Inghilterra detengono percentuali rilevanti del debito pubblico spagnolo, greco, irlandese, italiano e cosi via. Pertanto le sorti del debitore sono nelle mani del creditore: il peggior scenario ! Ponete pertanto la massima attenzione: quello che un tempo poteva essere un investimentio risk free come un titolo di stato europeo oggi potrebbe essere uno dei primi investimenti a prendere un bagno di sangue. Lo stesso Cameron, incalzato successivamente dalla Merkel, ha più volte ribadito che non è possibile continuare a far pagare ai soli contribuenti questa bomba con la miccia accesa, in più occasioni qualcuno ha paventato l’idea del default parziale.

Con questo termine si intende il rimborso non integrale dei titoli di stato alla loro naturale scadenza. Recentemente la Banca J.P. Morgan ha ipotizzato per il breve periodo la possibilità di default parziale dal 5% al 25%, a seconda dello scenario, per i paesi PIGS (mettendoci dentro anche l’Irlanda e l’Inghilterra). Evitate pertanto di massificare il vostro portafoglio con solo titoli di stato aerea euro, specie se a tasso fisso e con scadenze molto lunghe, preferite piuttosto le emissioni con tasso ancorato all’inflazione. Se poi si volesse scegliere il titolo di stato più sicuro al mondo in questo momento allora si dovrebbe puntare su quelli norvegesi: strana fatalità, infatti la Norvegia è un paese che di entrare in Europa proprio non ne vuol sentire.
di Eugenio Benetazzo