Da quando, ventisei anni, fa la psicoterapista americana Robin Norwood ha pubblicato il suo libro «Donne che amano troppo», diventato rapidamente un bes-seller internazionale, l’immaginario collettivo delle donne, forse a dispetto delle intenzioni dell’autrice, ha trovato un nuovo strumento di vittimismo e di autocommiserazione.
L’idea, invero presente già nel titolo originale inglese («Women who love too much»), è che le donne, o almeno un buon numero di esse, sono portate ad amare molto, troppo; mentre gli uomini, si sa, non c’è pericolo che si mettano in un simile rischio: risultato, le donne soffrono per amore molto più degli uomini, e, quel che più conta, soffrono per aver amato troppo, ossia per una virtù che esse spingono fino all’eroismo, venendone mal ripagate.
Naturalmente non è questa la tesi del libro, e chi si prende la fatica di leggerlo, se ne rende conto ben presto; anzi, già da una lettura estremamente frettolosa, appare quanto l’autrice ritenga determinante, e deleterio, il rapporto di molte donne con le loro madri: un rapporto sbagliato, che le porta e replicare con gli uomini, quando passano dall’adolescenza all’età adulta, le stesse dinamiche distruttive che già le madri hanno sperimentato con i loro mariti o compagni e che poi, cariche di frustrazione, hanno riversato sulle figlie, senza tuttavia che queste imparassero minimamente la lezione.
Ma allora, perché quel titolo ambiguo, che suggerisce una chiave di lettura scorretta e fuorviante? Forse per strizzare l’occhio al post-femminismo, per toccare le corde più lacrimose e sdolcinate dell’animo dei lettori, e specialmente delle lettrici?
C’è, in esso, un sottinteso non proprio limpido, non proprio onesto: che, in questa società egoista e crudele, amare sia una cosa meravigliosa, e amare troppo costituisca, sì, un errore, ma uno di quegli errori che non possono non strappare negli altri un moto di ammirazione, o almeno di profonda compassione, se non altro per il coraggio affettivo che esso implica, per la capacità di dedizione, in breve: per la disponibilità a mettersi interamente in gioco, senza paracadute e senza uscite d’emergenza.
Insomma è la solita vecchia storia di Francesca da Rimini: se perfino il gran padre Dante si turba, piange e sviene davanti al suo drammatico racconto (mentre, si badi, Paolo se ne resta in silenzio e fa la figura del perfetto idiota), bisogna proprio avere un cuore di pietra per non sentire che questo tipo di donna, la donna che ama troppo, è forse colpevole agli occhi del mondo, ma di certo è innocente agli occhi di chi sappia veramente cosa sia il cuore umano.
Ma le cose stanno ben altrimenti.
La verità è che non esistono donne, e nemmeno uomini, che amino “troppo”: che cosa vuole mai significare una espressione del genere? Sarebbe come dire che al mondo ci sono troppa bontà, o troppa verità, o troppa giustizia: una autentica sciocchezza. L’amore non è mai troppo, mai, mai; e chi è disposto a bersi una frottola del genere, vuol dire che è capace di digerire qualunque inverosimile stravaganza o deliberata menzogna gli si vogliano propinare.
Il problema non è mai quello di amare troppo, mai: piuttosto, il problema è quello di saper amare o di non saper amare.
E si faccia attenzione che non diciamo nemmeno: «il problema è quello di amare male», perché sarebbe una plateale contraddizione in termini: che cosa significa, infatti, dire di Tizia o di Sempronio che essi sono persone che «amano male»? Nessuno potrebbe amare male: se si ama veramente, si ama e basta; e l’amore è sempre una cosa buona, sempre.
Amare non è una singola azione, come dipingere, fare la spesa, pregare. Certo si può dipingere male, fare male la spesa, perfino pregare male: queste sono tutte azioni, sia pure di segno estremamente diversificato; e un’azione può essere compiuta bene oppure male.
Amare, invece, non è un’azione: è un modo dell’essere. Quando l’essere ama – ma diremmo meglio: se l’essere ama, se è capace di amare -, allora ama e basta: la sua disposizione, la sua apertura esistenziale si possono manifestare anche attraverso azioni, giuste o sbagliate, buone o cattive che siano; tuttavia, a monte di tali azioni, vi è un modo dell’essere, un movimento dell’anima e, al tempo stesso, un suo stato qualitativo.
Ora, l’essere è, per definizione, amore. Amore incondizionato, amore per la vita: se non altro, amore per la propria vita. Infatti, quando l’essere prende in odio il mondo e perfino se stesso, decide di sopprimersi: vuole togliere di mezzo quell’essere che ama, nonostante tutto, e che si ribella al rifiuto del’amore, proprio o altrui.
Questo significa non solo che siamo fatti per l’amore, ma che siamo amore in noi stessi: il nostro scopo, il nostro significato, la nostra ragione d’essere, sono l’amore: veniamo dall’amore e all’amore aspiriamo a ritornare.
Che le persone amino, dunque, è scontato: certo, da ciò non deriva che esse sappiano amare; al contrario, molte non sanno amare, o hanno paura di amare, o non osano amare, non si ritengono degne di amare e di essere amate.
È un problema dell’essere, non dell’amore.
Se non si sa amare, le cause possono essere molteplici, ma tutte riconducibili, in un modo o nell’altro, a un denominatore comune: l’insufficienza, l’inadeguatezza dell’essere. Essere vuol dire amare; ma, appunto, per amare bisogna che ci sia l’essere.
Se l’essere è in difetto, se non si è sviluppato ed evoluto, se non è nemmeno consapevole di se stesso e del mondo, allora non vi può essere amore. Alcuni, dall’esterno, sono portati, in questi casi, a parlare di «troppo amore», di «amore sbagliato»: ma sono tutte sciocchezze. L’amore non è mai troppo e non è mai sbagliato; piuttosto, il fatto è che l’amore non può albergare laddove vi sia carenza di essere.
Gli spiriti superficiali sono portati a dire: «Amo, dunque sono», ma è vero l’esatto contrario: «Sono, dunque amo»; per cui, se non si È, non si può nemmeno amare. Non è che si ami troppo, o in modo sbagliato; è che proprio non si sa amare, non si sa che cosa sia l’amore.
A differenza di quanto comunemente si crede, è possibile, possibilissimo, essere dei perfetti analfabeti dell’amore: non importa quanti anni si ha o quanta esperienza di vita, nel senso quantitativo: saper amare è innanzitutto un dono e solo in seconda battuta una conquista.
Il fatto è che le donne, e anche alcuni uomini, sono portati a caricarsi di amori impossibili, dai quali ricaveranno solo amarezza e dolore, per una serie di ragioni ben precise, che poco o nulla hanno a che fare con l’amare troppo e molto, invece, con la scarsa stima e lo scarso amore di se stessi. In altri termini, se si amano disperatamente delle persone egoiste, imprevedibili, cattive e perfino sadiche o violente, la ragione vera è in relazione con un segreto desiderio di autopunizione e, inoltre, con un doloroso bisogno di essere accettati.
È come se ciascuno di questi innamorati infelici, di questi buoni samaritani a oltranza, di queste crocerossine e di questi missionari dalla infinita capacità di sopportazione, dicessero, più o meno, ai loro amanti-carnefici: «Vedi di quanto amore sono capace, di quanta inesauribile dedizione, di quale spirito di sacrificio: come potresti non ricambiare il mio amore, come potresti non provare per me gratitudine eterna?».
Ma è evidente che le cose stanno altrimenti; che quelle persone non hanno fiducia in se stesse, non si ritengono degne di essere amate semplicemente per quello che sono, così come sono; è evidente che, caricandosi sulle spalle fardelli disumani, inghiottendo maltrattamenti e umiliazioni, sopportando stoicamente continue docce scozzesi di manifestazioni affettive contraddittorie, fino alle botte e alla violenza fisica, altro non stanno facendo che inseguire il miraggio di un impossibile perdono di se stessi, per qualche colpa che ritengono di aver commesso, magari nella lontana infanzia, o per placare il fantasma corrucciato di un genitore che li avrebbe voluti diversi e migliori, ossia, detto in parole semplici, più conformi ai propri desideri.
Questo non significa che amare una persona difficile implichi SEMPRE disistima e disamore di se stessi, né che avere una certa propensione a fare la crocerossina o il missionario scaturisca SEMPRE da un trauma infantile o da un rapporto problematico con il padre o la madre.
Sono equilibri complessi, delicatissimi: stabilire dove finisca un comportamento affettivo “normale”, qualunque cosa ciò significhi, e dove, invece, ne incominci uno di segno patologico, fondato sul masochismo, è cosa tutt’altro che semplice, e lasciamo volentieri alla psicologia il compito di vagliare caso per caso, alla ricerca di questa elusiva linea di frontiera.
A noi preme, piuttosto, indicare l’aspetto generale del problema e ciò da un punto di vista essenzialmente filosofico, tralasciando, cioè, problematiche strettamente individuali e puntando dritti al cuore della questione: ossia alla mancanza di significato di concetti come quello di «amare troppo» o di «amare male»; per ribadire che, in effetti, esistono solo due tipi di persone, beninteso con molte sfumature intermedie: coloro che sanno amare e coloro che non sanno.
Saper amare, significa innanzitutto sapere, potere e volere amare se stessi, comprese le proprie debolezze e insufficienze, senza per questo corteggiarle e farsene scudo allo scopo di evadere dalle proprie responsabilità; in secondo luogo, amare la vita, compresi gli aspetti difficili e, talvolta, dolorosi di essa; in terzo luogo, cercare di rispondere nel modo migliore e più limpido alla chiamata dell’Essere, facendo della propria vita il luogo di una incessante maturazione spirituale.
In ogni caso, come dicevamo prima, essere è già amare: per cui chi non sa amare affatto - e stiamo parlando di moltissime persone, probabilmente di una larga maggioranza di esse - è, in realtà, un individuo povero di essere: un manichino che solo da lontano può venire scambiato per un autentico essere umano.
Certo, questo è un concetto molto forte, molto duro da accettare: ce ne rendiamo perfettamente conto.
Equivale a dire che la maggior parte degli esseri umani non sono veramente tali; che sono soltanto delle misere contraffazioni, talvolta consapevoli, talaltra inconsapevoli, di ciò che un essere umano dovrebbe realmente essere.
È un’idea sgradevole, che fa venire i brividi; eppure, crediamo che in essa non vi sia nulla di esagerato.
Che fare, dunque?
Forse dovremmo ricordarci, ogni tanto, che noi possediamo l’essere, ma non siamo l’essere: per cui ciò che è impossibile a noi come individui finiti e soggetti ad immense limitazioni, diviene possibile allorché ci immergiamo nel fluire dell’Essere, allorché rivolgiamo un pensiero di umiltà e di consapevolezza a quell’Essere da cui proveniamo ed al quale ritorneremo.
Non siamo noi l’essere, ma soltanto una delle sue infinite manifestazioni; e, se ci rendiamo conto della nostra povertà di essere, faremmo bene, ogni tanto, a rivolgerci non solo a professionisti della psiche, che si fanno ben pagare i loro consigli e le loro terapie, ma anche a quella Sorgente infinita dalla quale scaturisce tutto ciò che esiste, tutto ciò che ha vita e tutto ciò che popola la realtà con le sue innumerevoli manifestazioni.
A quel punto, la nostra debolezza si tramuterebbe in forza; la nostra indigenza, in pienezza; la nostra infelicità e la nostra solitudine, in gioia e calore.
Ci piace pensare che ciò sia pressoché impossibile, per paura di farne l’esperienza; preferiamo rinchiuderci nelle nostre orgogliose certezze razionalistiche.
Certo, è una scelta e fa parte della nostra libertà: noi siamo liberi.
Siamo liberi anche di farci del male; di persistere lungo strade sbagliate, che non portano da nessuna parte; di attardarci nei deserti afosi della disperazione, quando potremmo affrettarci nei giardini fioriti dell’Essere.
Siamo liberi anche di raccontarci delle pietose menzogne, per scusare il poco amore che abbiamo di noi stessi: come quella di essere indispensabili a qualcuno che non ci ama, che non ci stima, che non ci vuole.
di F. Lamendola
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