22 maggio 2008
Verso un mondo post-statunitense?
Su Il Sole 24Ore di ieri, 18.05.2008, troviamo una interessante recensione di un libro pubblicato negli Stati Uniti e intitolato The Post-American World; l’ autore è un importante giornalista: Fareed Zakaria, l’editor di Newsweek International. Il recensore, Francesco Daveri, scrive che a partire dall’inizio del nuovo millennio:
il mondo sta imparando a fare a meno dell’America, essenzialmente perché i Paesi emergenti stanno davvero emergendo dalla loro povertà. Questo è il grande cambiamento. Ci sono pochi dubbi che gli ultimi anni siano stati ricchi di episodi potenzialmente destabilizzanti. L’11 settembre e l’emergere della jihad islamica prima di tutto; ma anche il ritorno ad atteggiamenti ostili in politica internazionale della Russia, le aspirazioni nucleari dell’Iran e della Corea del Nord e il populismo di Chavez in Venezuela sono tutti elementi di un quadro di instabilità. Eppure l’economia mondiale è cresciuta da allora come mai negli ultimi trenta anni. Come mai in un mondo instabile la crescita va a gonfie vele ?"
In una fase in cui, come La Grassa da tempo ipotizza, il panorama geo-economico e politico internazionale si sta indirizzando - in maniera non lineare e con fasi di arresto e di crisi - verso una configurazione policentrica la lotta per ampliare le aree di influenza si manifesta come sviluppo diseguale che però complessivamente porta ad un ampliamento in “estensione” ed “intensione”
- anche se spesso con arretramenti e stagnazioni proprio nelle zone di più “antico” sviluppo capitalistico – del mercato mondiale (come massa di merci e di titoli e moneta finanziaria).
L’articolo continua, poi, con le seguenti osservazioni:
"Da un lato, i dati sulla frequenza dei conflitti e degli episodi di violenza indicano che in realtà il mondo di oggi non è certo più violento e conflittuale di quello di ieri.[…]anche la minaccia del fondamentalismo islamico alla stabilità mondiale va probabilmente ridimensionata. Il mondo islamico non è certo un tutt’uno, il che rende il potenziale scontro di civiltà una prospettiva più complicata di quanto descritto nei comunicati di al-Qaeda come una guerra tra Crociati e Jihadisti. Insomma, la tesi che l’America è al centro di un attacco da parte di un mondo diventato più anti-americano è difficile da suffragare."
In realtà non si tratta di valutare la quantità dei conflitti violenti e delle crisi politico-militari locali ma di considerare il livello qualitativo degli stessi e la dimensione conflittuale nel suo insieme che si muove su piani diversi, utilizzando strategie che possono manifestarsi attraverso consolidamenti, costruzione di alleanze, accordi sulle fonti energetiche, costituzione di coordinamenti tra forze militari di vari paesi per frenare l’espansionismo Nato, ecc. Ed è probabilmente vero che il mondo islamico è diviso e manca di omogeneità ma d’altra parte i poli che si vanno costituendo si muovono attorno ad esso come “luogo” strategico decisivo ma sono situati all’esterno della sua area geografica principale (la Russia slavo –ortodossa, la Cina confuciana, l’India brahmanica, il Brasile bolivariano-moderato). Ma proseguiamo ora nel riportare le parti più significative della recensione:
"Semplicemente, il mondo sta (forse) diventando post-americano. I sintomi sono tanti. Il grattacielo più alto del mondo è a Taipei. Presto ce ne sarà uno ancora più alto a Dubai. L’azienda con la più alta capitalizzazione di Borsa è a Pechino. La più grande raffineria del mondo è in costruzione in India. Il fondo di investimento con il più grande portafoglio titoli è ad Abu Dhabi. La più grande industria cinematografica è a Bollywood, non Hollywood. Il più grande casinò è a Macao, non a Las Vegas. La Mall of America in Minnesota (1), un tempo la più grande del mondo, ora non entra nella classifica delle prime dieci. E nelle classifiche più recenti, il più ricco uomo del mondo è messicano e solo due su dieci sono americani. E’ l’emergere del “resto del mondo”, un fenomeno che va ben al di là di Cina ed India e potrebbe arrivare a includere gli altri 191 Paesi del mondo. Una lista delle 25 multinazionali “emergenti” che si prevede domineranno i mercati nei prossimi anni ne include solo cinque da Cindia, quattro ciascuna dal Brasile, dal Messico, dalla Corea del Sud e da Taiwan, e una da Argentina, Sud Africa, Cile e Malesia"
Certo, i “sintomi” sopra riportati hanno la loro importanza ma per poter parlare di “declino americano” bisognerebbe anche rilevare se gli Stati Uniti stanno perdendo la supremazia nei settori più radicalmente innovativi (la Microsoft in campo informatico, ad esempio, continua a godere di una condizione di “quasi monopolio”). Prevale poi in questi discorsi una prospettiva fortemente economicistica, che deve essere decisamente superata; il ruolo di Russia, India e Cina nel panorama della conflittualità globale è, e sarà, sempre più determinato da strategie e sviluppi di tipo politico, culturale e “mulitare in senso lato” e la differenza rispetto agli altri numerosi paesi che godono di una condizione di crescita economica deve essere analizzata, secondo noi, proprio in questi termini .
Continuamo:
"Se ora i Paesi emergenti crescono rapidamente , è soprattutto perché hanno imparato bene la lezione sull’importanza di aprirsi al commercio internazionale e di lasciare che il capitale si muova liberamente tra Paesi, di controllare l’inflazione difendendo l’indipendenza delle Banche Centrali e delle altre ricette che fanno parte della scatola degli attrezzi che organizzazioni internazionali quali il Fondo monetario internazionale hanno a lungo pubblicizzato."
Sono costretto a questo punto a citare l’intervento di G. La Grassa, datato 18.05.2008 e inserito ieri nel blog, perché mi sembra rispondere in maniera diretta alle affermazioni che ho appena riportato:
" … in definitiva, la politica di un certo sistema socio-economico (che ancora, piaccia o meno, è un paese con un suo Stato) garantisce allo stesso una certa autonomia qualora coadiuvi e anzi imprima impulso alle potenzialità del suo insieme di grandi imprese in settori di carattere strategico (in genere, quelli delle più recenti ondate innovative). Quando gli economisti cianciano di libero mercato globale, fingendo che la vittoria nel conflitto si conquista tramite l’efficienza economica (il minimax) nel mero confronto tra strutture imprenditoriali, siamo in presenza di ideologi al servizio di gruppi economici che hanno interesse a porsi sotto l’ombrello della politica del sistema-paese preminente. Si tratta spesso di gruppi economici di una passata fase dell’industrializzazione, assistiti da uno Stato (e da apparati finanziari) che si sono ormai accoccolati negli spazi concessi dal suddetto sistema-paese predominante. Il liberismo è la loro ideologia poiché colora di virtù e di presunta efficienza la loro incapacità di svilupparsi nei settori della nuova fase di distruzione creatrice (usando la fraseologia schumpeteriana)."
Penso vi sia ben poco da aggiungere visto che appare evidente come in realtà sia stato proprio disobbedendo - dopo che per un lungo periodo molti paesi erano stati costretti ad accettare l’imposizione dei cosiddetti parametri di aggiustamento strutturale – alle ricette del FMI che alcuni sistemi-paese hanno potuto emergere fino al punto di riuscire ad acquisire delle proprie “aree di influenza”.
In maniera indiretta l’autore della recensione è costretto, comunque, ad ammettere che non è stato l’avvento e l’affermarsi della “globalizzazione” che ha prodotto questa nuova crescita in aree del pianeta prima situate nella cosiddetta “periferia”:
"…l’emergere del resto del mondo porta con sé anche alcuni problemi, il più rilevante dei quali è probabilmente l’affermarsi di sempre nuovi nazionalismi. Il successo economico di Paesi abituati per decenni alla stagnazione, se trasformato in nuove strategie politiche sull’arena internazionale, ne cambierà radicalmente le pretese. Come riportato da un giovane diplomatico cinese a Zakaria, “Quando ci rimproverate che, in Sudan, per avere accesso al petrolio, aiutiamo una dittatura, noi pensiamo che questo non sia molto differente dal vostro supporto alla monarchia medievale dell’Arabia Saudita. Vediamo l’ipocrisia delle vostre frasi, ma non diciamo niente. Per ora.” Fino a quando?
Al termine della recensione, l’autore della stessa ricorda come Zakaria, all’inizio del 2003, scommetteva ancora sulla persistenza per un lungo periodo storico del predominio, non solo militare ma anche economico, della superpotenza statunitense. Tirando le conclusioni egli ammette che questo libro si inserisce in un filone interpretativo che pure non dando per certo l’avvento di un “mondo post-americano” ha ormai compreso come la tendenza prevalente nella nostra epoca, in una prospettiva di fase medio-lunga è quella di una configurazione policentrica del panorama geopolitico ed economico mondiale.
(1) Il Mall of America (anche MOA, MoA, o MegaMall) è un centro commerciale che si trova nelle Twin Cities, in Minnesota. Il centro commerciale divenne il secondo centro commerciale più grande negli Stati Uniti quando aprì nel 1992; anche se non è mai stato il più grande del mondo (quando fu aperto era il secondo più grande a livello mondiale). Centri commerciale più grandi si possono trovare in Turchia (Cevahir Mall), Cina, India, Giappone, Canada (West Edmont Mall), Filippine (Mall of Asia, SM North EDSA, SM Megamall), e Malesia (Berjaya Times Square, Mid Valley Megamall). Comunque il Mall of America è il centro commerciale più visitato nel mondo con oltre 40 millioni di visitatori all'anno (circa 8 volte la popolazione del Minnesota).
by Mauro Tozzato
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22 maggio 2008
Verso un mondo post-statunitense?
Su Il Sole 24Ore di ieri, 18.05.2008, troviamo una interessante recensione di un libro pubblicato negli Stati Uniti e intitolato The Post-American World; l’ autore è un importante giornalista: Fareed Zakaria, l’editor di Newsweek International. Il recensore, Francesco Daveri, scrive che a partire dall’inizio del nuovo millennio:
il mondo sta imparando a fare a meno dell’America, essenzialmente perché i Paesi emergenti stanno davvero emergendo dalla loro povertà. Questo è il grande cambiamento. Ci sono pochi dubbi che gli ultimi anni siano stati ricchi di episodi potenzialmente destabilizzanti. L’11 settembre e l’emergere della jihad islamica prima di tutto; ma anche il ritorno ad atteggiamenti ostili in politica internazionale della Russia, le aspirazioni nucleari dell’Iran e della Corea del Nord e il populismo di Chavez in Venezuela sono tutti elementi di un quadro di instabilità. Eppure l’economia mondiale è cresciuta da allora come mai negli ultimi trenta anni. Come mai in un mondo instabile la crescita va a gonfie vele ?"
In una fase in cui, come La Grassa da tempo ipotizza, il panorama geo-economico e politico internazionale si sta indirizzando - in maniera non lineare e con fasi di arresto e di crisi - verso una configurazione policentrica la lotta per ampliare le aree di influenza si manifesta come sviluppo diseguale che però complessivamente porta ad un ampliamento in “estensione” ed “intensione”
- anche se spesso con arretramenti e stagnazioni proprio nelle zone di più “antico” sviluppo capitalistico – del mercato mondiale (come massa di merci e di titoli e moneta finanziaria).
L’articolo continua, poi, con le seguenti osservazioni:
"Da un lato, i dati sulla frequenza dei conflitti e degli episodi di violenza indicano che in realtà il mondo di oggi non è certo più violento e conflittuale di quello di ieri.[…]anche la minaccia del fondamentalismo islamico alla stabilità mondiale va probabilmente ridimensionata. Il mondo islamico non è certo un tutt’uno, il che rende il potenziale scontro di civiltà una prospettiva più complicata di quanto descritto nei comunicati di al-Qaeda come una guerra tra Crociati e Jihadisti. Insomma, la tesi che l’America è al centro di un attacco da parte di un mondo diventato più anti-americano è difficile da suffragare."
In realtà non si tratta di valutare la quantità dei conflitti violenti e delle crisi politico-militari locali ma di considerare il livello qualitativo degli stessi e la dimensione conflittuale nel suo insieme che si muove su piani diversi, utilizzando strategie che possono manifestarsi attraverso consolidamenti, costruzione di alleanze, accordi sulle fonti energetiche, costituzione di coordinamenti tra forze militari di vari paesi per frenare l’espansionismo Nato, ecc. Ed è probabilmente vero che il mondo islamico è diviso e manca di omogeneità ma d’altra parte i poli che si vanno costituendo si muovono attorno ad esso come “luogo” strategico decisivo ma sono situati all’esterno della sua area geografica principale (la Russia slavo –ortodossa, la Cina confuciana, l’India brahmanica, il Brasile bolivariano-moderato). Ma proseguiamo ora nel riportare le parti più significative della recensione:
"Semplicemente, il mondo sta (forse) diventando post-americano. I sintomi sono tanti. Il grattacielo più alto del mondo è a Taipei. Presto ce ne sarà uno ancora più alto a Dubai. L’azienda con la più alta capitalizzazione di Borsa è a Pechino. La più grande raffineria del mondo è in costruzione in India. Il fondo di investimento con il più grande portafoglio titoli è ad Abu Dhabi. La più grande industria cinematografica è a Bollywood, non Hollywood. Il più grande casinò è a Macao, non a Las Vegas. La Mall of America in Minnesota (1), un tempo la più grande del mondo, ora non entra nella classifica delle prime dieci. E nelle classifiche più recenti, il più ricco uomo del mondo è messicano e solo due su dieci sono americani. E’ l’emergere del “resto del mondo”, un fenomeno che va ben al di là di Cina ed India e potrebbe arrivare a includere gli altri 191 Paesi del mondo. Una lista delle 25 multinazionali “emergenti” che si prevede domineranno i mercati nei prossimi anni ne include solo cinque da Cindia, quattro ciascuna dal Brasile, dal Messico, dalla Corea del Sud e da Taiwan, e una da Argentina, Sud Africa, Cile e Malesia"
Certo, i “sintomi” sopra riportati hanno la loro importanza ma per poter parlare di “declino americano” bisognerebbe anche rilevare se gli Stati Uniti stanno perdendo la supremazia nei settori più radicalmente innovativi (la Microsoft in campo informatico, ad esempio, continua a godere di una condizione di “quasi monopolio”). Prevale poi in questi discorsi una prospettiva fortemente economicistica, che deve essere decisamente superata; il ruolo di Russia, India e Cina nel panorama della conflittualità globale è, e sarà, sempre più determinato da strategie e sviluppi di tipo politico, culturale e “mulitare in senso lato” e la differenza rispetto agli altri numerosi paesi che godono di una condizione di crescita economica deve essere analizzata, secondo noi, proprio in questi termini .
Continuamo:
"Se ora i Paesi emergenti crescono rapidamente , è soprattutto perché hanno imparato bene la lezione sull’importanza di aprirsi al commercio internazionale e di lasciare che il capitale si muova liberamente tra Paesi, di controllare l’inflazione difendendo l’indipendenza delle Banche Centrali e delle altre ricette che fanno parte della scatola degli attrezzi che organizzazioni internazionali quali il Fondo monetario internazionale hanno a lungo pubblicizzato."
Sono costretto a questo punto a citare l’intervento di G. La Grassa, datato 18.05.2008 e inserito ieri nel blog, perché mi sembra rispondere in maniera diretta alle affermazioni che ho appena riportato:
" … in definitiva, la politica di un certo sistema socio-economico (che ancora, piaccia o meno, è un paese con un suo Stato) garantisce allo stesso una certa autonomia qualora coadiuvi e anzi imprima impulso alle potenzialità del suo insieme di grandi imprese in settori di carattere strategico (in genere, quelli delle più recenti ondate innovative). Quando gli economisti cianciano di libero mercato globale, fingendo che la vittoria nel conflitto si conquista tramite l’efficienza economica (il minimax) nel mero confronto tra strutture imprenditoriali, siamo in presenza di ideologi al servizio di gruppi economici che hanno interesse a porsi sotto l’ombrello della politica del sistema-paese preminente. Si tratta spesso di gruppi economici di una passata fase dell’industrializzazione, assistiti da uno Stato (e da apparati finanziari) che si sono ormai accoccolati negli spazi concessi dal suddetto sistema-paese predominante. Il liberismo è la loro ideologia poiché colora di virtù e di presunta efficienza la loro incapacità di svilupparsi nei settori della nuova fase di distruzione creatrice (usando la fraseologia schumpeteriana)."
Penso vi sia ben poco da aggiungere visto che appare evidente come in realtà sia stato proprio disobbedendo - dopo che per un lungo periodo molti paesi erano stati costretti ad accettare l’imposizione dei cosiddetti parametri di aggiustamento strutturale – alle ricette del FMI che alcuni sistemi-paese hanno potuto emergere fino al punto di riuscire ad acquisire delle proprie “aree di influenza”.
In maniera indiretta l’autore della recensione è costretto, comunque, ad ammettere che non è stato l’avvento e l’affermarsi della “globalizzazione” che ha prodotto questa nuova crescita in aree del pianeta prima situate nella cosiddetta “periferia”:
"…l’emergere del resto del mondo porta con sé anche alcuni problemi, il più rilevante dei quali è probabilmente l’affermarsi di sempre nuovi nazionalismi. Il successo economico di Paesi abituati per decenni alla stagnazione, se trasformato in nuove strategie politiche sull’arena internazionale, ne cambierà radicalmente le pretese. Come riportato da un giovane diplomatico cinese a Zakaria, “Quando ci rimproverate che, in Sudan, per avere accesso al petrolio, aiutiamo una dittatura, noi pensiamo che questo non sia molto differente dal vostro supporto alla monarchia medievale dell’Arabia Saudita. Vediamo l’ipocrisia delle vostre frasi, ma non diciamo niente. Per ora.” Fino a quando?
Al termine della recensione, l’autore della stessa ricorda come Zakaria, all’inizio del 2003, scommetteva ancora sulla persistenza per un lungo periodo storico del predominio, non solo militare ma anche economico, della superpotenza statunitense. Tirando le conclusioni egli ammette che questo libro si inserisce in un filone interpretativo che pure non dando per certo l’avvento di un “mondo post-americano” ha ormai compreso come la tendenza prevalente nella nostra epoca, in una prospettiva di fase medio-lunga è quella di una configurazione policentrica del panorama geopolitico ed economico mondiale.
(1) Il Mall of America (anche MOA, MoA, o MegaMall) è un centro commerciale che si trova nelle Twin Cities, in Minnesota. Il centro commerciale divenne il secondo centro commerciale più grande negli Stati Uniti quando aprì nel 1992; anche se non è mai stato il più grande del mondo (quando fu aperto era il secondo più grande a livello mondiale). Centri commerciale più grandi si possono trovare in Turchia (Cevahir Mall), Cina, India, Giappone, Canada (West Edmont Mall), Filippine (Mall of Asia, SM North EDSA, SM Megamall), e Malesia (Berjaya Times Square, Mid Valley Megamall). Comunque il Mall of America è il centro commerciale più visitato nel mondo con oltre 40 millioni di visitatori all'anno (circa 8 volte la popolazione del Minnesota).
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