Negli scorsi anni, i governi di Corea del Sud, Malaysia, Indonesia, Bielorussia, Argentina e Brasile hanno stipulato accordi bilaterali con Pechino in cui si stabiliva la possibilità di utilizzare lo yuan come moneta di riferimento alternativa al dollaro. Nonostante il più che cospicui vantaggi garantiti da questi accordi, gli alti rappresentanti cinesi, non paghi dei risultati ottenuti, hanno perseguito con ostinazione i loro sempre più ambiziosi obiettivi riuscendo infine a compiere il vero salto di qualità.
Il scorso 26 dicembre 2011, infatti, si è tenuto il vertice di Pechino, al termine del quale l’allora capo del governo cinese Wen Jibao e l’allora primo ministro giapponese Yoshihiko Noda hanno sottoscritto un accordo dall’enorme coefficiente strategico, che prevede l’abbandono del dollaro come valuta di riferimento nell’ambito degli interscambi tra le due potenze asiatiche. Yuan e yen saranno chiamate a sostituire la moneta statunitense, che fino a quella fatidica data costituiva l’indice di riferimento di oltre la metà delle transazioni commerciali tra Pechino e Tokio. In primo luogo, questa mossa non può che rappresentare un indice estremamente affidabile della sfiducia che le due potenze asiatiche nutrono nei riguardi delle classi dirigenti degli Stati Uniti e dei Paesi europei, giudicate incapaci di escogitare soluzioni valide per migliorare o quantomeno attenuare le drammatiche condizioni in cui versano le loro rispettive economie.
Il scorso 26 dicembre 2011, infatti, si è tenuto il vertice di Pechino, al termine del quale l’allora capo del governo cinese Wen Jibao e l’allora primo ministro giapponese Yoshihiko Noda hanno sottoscritto un accordo dall’enorme coefficiente strategico, che prevede l’abbandono del dollaro come valuta di riferimento nell’ambito degli interscambi tra le due potenze asiatiche. Yuan e yen saranno chiamate a sostituire la moneta statunitense, che fino a quella fatidica data costituiva l’indice di riferimento di oltre la metà delle transazioni commerciali tra Pechino e Tokio. In primo luogo, questa mossa non può che rappresentare un indice estremamente affidabile della sfiducia che le due potenze asiatiche nutrono nei riguardi delle classi dirigenti degli Stati Uniti e dei Paesi europei, giudicate incapaci di escogitare soluzioni valide per migliorare o quantomeno attenuare le drammatiche condizioni in cui versano le loro rispettive economie.
Ma ponendo la questione su di un livello di indagine più elevato, appare con chiarezza il fatto che anche il Giappone, che in passato ha sempre sostenuto gli Stati Uniti, sta rivedendo le proprie posizioni internazionali avvicinandosi al novero delle nazioni che intendono superare il sistema economico mondiale incardinato sul dollaro. Nel corso delle ultime riunioni del G20, si è infatti manifestata una profonda spaccatura in seno al fronte delle potenze che vi prendono parte, in cui gli Stati Unti si sono posti alla testa del gruppo dei “conservatori”, che mira da sempre a mantenere il dollaro come moneta di riferimento internazionale, mentre la Cina si è presentata in rappresentanza dei “rivoluzionari”, che ambiscono ad adottare un differente modello che rispecchi i rapporti di forza internazionali nel futuro mondo multipolare che è attualmente in fase di strutturazione (nonostante i rapporti demografici ed economici, gli Stati Uniti detengono infatti oltre il 17% dei diritti di voto in seno al Fondo Monetario Internazionale, mentre quelli spettanti alla Cina non arrivano al 5%).
Gli Stati Uniti possono ancora contare sull’appoggio della Gran Bretagna ma stanno perdendo il Giappone, che cambiando campo ed aderendo quindi alla compagine formata da Cina, Russia, India, Brasile e Argentina, andrebbe a rafforzare in misura piuttosto consistente il fronte “rivoluzionario”.
Il che rimanda ad un problema non certo secondario, in quanto Cina e Giappone sono le principali nazioni ad acquistare i Buoni del Tesoro emessi da Washington e che detengono da sole qualcosa come 2.073,6 miliardi di dollari di debito statunitense (1.137 la Cina e 936,6 il Giappone) che attualmente supera quota 4.500 miliardi. La Cina, in altre parole, ha incamerato riserve di dollari talmente immani da investire Pechino del ruolo di arbitro dell’economia statunitense, che a questo punto riesce a sopravvivere solo ed esclusivamente attraverso la vendita dei Buoni del Tesoro.
Azioni eccessivamente spregiudicate si rivelerebbero però tremendamente controproducenti per Pechino, poiché finirebbero per provocare la drastica reazione di Washington, che chiuderebbe il mercato statunitense alle merci cinesi e congelerebbe il patrimonio cinese espresso in dollari.
Alla consapevolezza di ciò da parte dei dirigenti di Pechino si devono queste mosse tattiche di basso profilo, attraverso cui la Cina cerca di intaccare il sistema economico vigente e di sbarazzarsi lentamente delle proprie abnormi riserve di valuta statunitense. Promuovendo l’adozione dello yuan nell’ambito degli innumerevoli accordi bilaterali siglati con altri Paesi, Pechino mira inoltre a contrarre la domanda internazionale di dollari provocando un progressivo disinteresse dei mercati internazionali nei riguardi dei Buoni erogati dal Tesoro statunitense.
Gli Stati Uniti possono ancora contare sull’appoggio della Gran Bretagna ma stanno perdendo il Giappone, che cambiando campo ed aderendo quindi alla compagine formata da Cina, Russia, India, Brasile e Argentina, andrebbe a rafforzare in misura piuttosto consistente il fronte “rivoluzionario”.
Il che rimanda ad un problema non certo secondario, in quanto Cina e Giappone sono le principali nazioni ad acquistare i Buoni del Tesoro emessi da Washington e che detengono da sole qualcosa come 2.073,6 miliardi di dollari di debito statunitense (1.137 la Cina e 936,6 il Giappone) che attualmente supera quota 4.500 miliardi. La Cina, in altre parole, ha incamerato riserve di dollari talmente immani da investire Pechino del ruolo di arbitro dell’economia statunitense, che a questo punto riesce a sopravvivere solo ed esclusivamente attraverso la vendita dei Buoni del Tesoro.
Azioni eccessivamente spregiudicate si rivelerebbero però tremendamente controproducenti per Pechino, poiché finirebbero per provocare la drastica reazione di Washington, che chiuderebbe il mercato statunitense alle merci cinesi e congelerebbe il patrimonio cinese espresso in dollari.
Alla consapevolezza di ciò da parte dei dirigenti di Pechino si devono queste mosse tattiche di basso profilo, attraverso cui la Cina cerca di intaccare il sistema economico vigente e di sbarazzarsi lentamente delle proprie abnormi riserve di valuta statunitense. Promuovendo l’adozione dello yuan nell’ambito degli innumerevoli accordi bilaterali siglati con altri Paesi, Pechino mira inoltre a contrarre la domanda internazionale di dollari provocando un progressivo disinteresse dei mercati internazionali nei riguardi dei Buoni erogati dal Tesoro statunitense.
Tale disinteresse renderebbe vano ogni tentativo del Tesoro statunitense di piazzare le proprie emissioni e nel giro di pochi mesi Washington potrebbe accorgersi di aver stampato una quantità di cartamoneta sproporzionata alle richieste dei mercati internazionali, cosa che attiverebbe la micidiale morsa inflazionistica. In questo contesto il dollaro potrebbe svalutarsi eccezionalmente, costringendo le banche centrali a liberarsi il più in fretta possibile della valuta statunitense. Qualcosa di simile, mutatis mutandis, accadde verso la fine degli anni Sessanta, quando gli Stati Uniti stamparono una quantità talmente esorbitante di cartamoneta – nel tentativo di stabilizzare la preoccupante situazione economica venutasi a creare in seguito alla crescita dei cosiddetti “debiti gemelli” (disavanzo pubblico e disavanzo delle partite correnti) causata dalle spese connesse alla disastrosa guerra del Vietnam – da indurre i mercati internazionali a dubitare della reale capacità di Washington di convertire in oro la marea di banconote stampate.
Allora il Generale Charles De Gaulle annunciò pubblicamente l’avvio della conversione in oro di tutte riserve francesi di dollari e Giappone e Paesi arabi, più in sordina, fecero lo stesso.
Ciò produsse il classico effetto domino, che spinse numerosi Paesi ad arricchire le proprie riserve auree intensificando, di conseguenza, la domanda internazionale d’oro. Sempre a causa dei timori suscitati dai disastrati conti statunitensi, si verificò una brusca impennata degli investimenti internazionali nella moneta allora ritenuta più solida, ovvero il marco tedesco.
Conformemente alla visione tedesca dell’economia (che resiste ancora oggi), il governo di Bonn e i dirigenti della Bundesbank introdussero numerose misure volte a limitare la possibilità del sistema bancario tedesco di contrarre debiti con l’estero, ma ciò non placò le sollecitazioni al rialzo del marco, dovute al massiccio afflusso di dollari (circa 4 miliardi di dollari nel solo primo trimestre del 1971) detenuti al di fuori degli Stati Uniti dalle grandi banche internazionali. Questi esorbitanti afflussi di dollari funsero da preludio all’attesa rivalutazione del marco, che minacciava a quel punto di acquisire credenziali sufficienti per sostituire egregiamente il dollaro quale valuta di riferimento internazionale.
Negli Stati Uniti, intanto, il governo decise di adottare un calmiere dei prezzi e di bloccare i salari (un’eresia nella patria del liberismo) per frenare l’inarrestabile crescita inflazionistica ma le reiterate pressioni esercitate dai grandi gruppi industriali e dai sindacati non produssero altro che l’istituzione di norme protezionistiche ultramoderate dall’impatto pressoché nullo sul sistema produttivo statunitense. L’obiettivo primario di Richard Nixon era infatti quello di salvaguardare il ruolo di moneta internazionale di riferimento di cui era titolare il dollaro, e tale obiettivo non poteva essere conseguito attraverso politiche che avrebbero prodotto risultati utili solo nel medio e lungo periodo.
Il 15 agosto nel 1971, Nixon rese nota la soluzione escogitata per far fronte al problema, ovvero la decisione di ripudiare unilateralmente, con un colpo di spugna, gli accordi di Bretton Woods sottoscritti nel 1944, che prevedevano la convertibilità della valuta statunitense in oro alla quota fissa di 35 dollari all’oncia. Nel dicembre dello stesso anno vennero stabilite alcune parità centrali e i margini massimi (2,25%) di fluttuazione tra le valute, ma due anni dopo Stati Uniti, Canada, Giappone, Svezia e i Paesi della CEE decisero di abbandonare il vincolo fisso del tasso di cambio, inaugurando l’epoca dei “cambi fluttuanti”. Il dollaro si svalutò del 40% ma lo shock petrolifero del 1973 “suggerito” dalla Chase Manhattan Bank del gruppo Rockefeller, orchestrato nel corso della riunione del Club Bilderberg del maggio dello stesso anno a Saltsjoebaden in Svezia e messo in atto da Richard Nixon, Henry Kissinger e lo Shah di Persia Reza Pahlevi, produsse un apprezzamento del greggio pari al 400%, puntellando la posizione dominante della valuta statunitense e consolidando il meccanismo dei “petro-dollari” attraverso cui gli Stati Uniti hanno potuto alimentare la loro economia fino ad oggi.
A fare le spese di questa scelta fu l’intero apparato industriale statunitense – che subì direttamente l’incremento sensazionale del prezzo del petrolio – con particolare riferimento al settore automobilistico, in cui la General Motors si vide costretta a licenziare circa 8 milioni di dipendenti che ancora oggi non sono stati riassorbiti.
Richard Nixon era un politico abile e spregiudicato, e seppe operare una scelta incomprensibile a molti suoi contemporanei (come quasi tutte le sue scelte) per permettere alla popolazione statunitense di vivere al di sopra dei propri mezzi a spese del resto del mondo, composto da Paesi che per interi decenni hanno esportato manufatti negli Stati Uniti in cambio di cartamoneta stampata ex nihilo dalla Federal Reserve e che attualmente non sembrano più disposti ad alimentare questo sistema parassitario.
Basterà dunque un ulteriore shock a salvare l’economia americana e, quindi, a procrastinare la fine del declinante assetto unipolare a guida statunitense?
di Giacomo Gabellini
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