La privatizzazione della politica e il Moloch dello sviluppo
La
tragedia avvenuta in Bangladesh riaccende i riflettori sulla questione
delle esternalizzazioni nella produzione di beni da parte dei grandi
marchi. La produzione materiale di abiti, macchinari e accessori
tecnologici avviene spesso in Paesi del terzo mondo o cosiddetti
emergenti; se da una parte c’è l’ovvia e immediata ragione economica
(produrre in quei Paesi, dove le telecamere non sono mai accese, a
costi ridottissimi e mantenendo in condizioni di semi-schiavitù la
forza lavoro), dall’altra c’è anche la questione del marchio.
Il
vero marchio trascende il prodotto in sé e diventa un’esperienza di
vita, diventa filosofia di vita e parte della vita stessa, trascende il
prodotto fisico anzi, il sogno dei grandi guru dei marchi è proprio
quello di disfarsi del prodotto e di vendere il concetto, l’esperienza,
l’emozione che esso contiene. Diventa difficile parlare di
territorialità e di legame con il territorio quando si tratta di questi
colossi, e internet diventa quindi lo spazio ideale per i marchi,
“liberati dai Paesi del mondo reale dei negozi e della produzione,
questi marchi sono liberi di elevarsi, proponendosi non tanto come
diffusori di merci o servizi quanto come allucinazioni collettive” (1).
La politica non è da meno e le due amministrazioni Bush Jr. hanno attinto a piene mani dal modello delle hollow corporations, consultando esperti di indagini di mercato e di marchi. Difesa dei confini, protezione civile, intelligence
e missioni militari all’estero sono state tutte appaltate a settori
privati; il direttore del fondo di finanziamento, Mitch Daniels, ha
espresso chiaramente il concetto: “il governo non ha il compito di
fornire servizi, ma di accertarsi che siano forniti”. Chealrotte Beers,
che aveva diretto diverse agenzie pubblicitarie, venne assunta come
sottosegretario alla Diplomazia e agli Affari Pubblici e le critiche per
quella nomina furono respinte dal segretario di Stato Colin Powell con
queste parole: “Non c’è niente di male ad assumere una persona che
sappia vendere. Noi vendiamo un prodotto, e ci serve qualcuno che possa
rinnovare il marchio della politica estera e della diplomazia
americana”.
La Lockheed Martin, famosa tra le altre cose per la
paternità dei discussi caccia F-35, è il più grande appaltatore al
mondo della difesa, e un’inchiesta del 2004 del “New York Times”
elencava tutti gli ambiti in cui opera, tra cui l’organizzazione del
censimento nazionale, la gestione dei voli spaziali e l’assistenza
sanitaria. La privatizzazione della politica si estende anche oltre i
patri confini: l’occupazione militare dell’Iraq ha visto un consistente
impegno di compagnie private quali Blackwater e Halliburton. Quando
uomini della Blackwater aprirono il fuoco in piazza Nisour a Baghdad,
uccidendo diciassette civili, l’amministrazione statunitense se ne lavò
le mani scaricando sugli appaltatori tutta la responsabilità, e la
compagnia risorse rinnovando il marchio e assumendo il nuovo nome di Xe Services.
Gli
attentati dell’11 settembre 2001 strinsero la nazione attorno al
presidente Bush, molto contestato e molto poco apprezzato, e raccolsero
molti Paesi europei e non, ostili a quell’amministrazione, attorno agli
USA, cosicché l’intervento militare in Afghanistan venne accettato. La
guerra all’Iraq fece però scendere nuovamente le quotazioni della Casa
Bianca all’estero e a lungo andare anche all’interno della nazione. Il
marchio USA era ai minimi storici, finché non arrivò Obama.
Barack
Obama, durante la sua prima campagna presidenziale, ricevette più
finanziamenti da Wall Street di qualsiasi altro candidato e, una volta
eletto presidente, ha confermato nei gangli delle istituzioni
economiche e finanziarie persone come Ben Barnake, e continua tuttora
sulla strada neoliberista.
Le strategie geopolitiche statunitensi
non cambiano: ostilità aperta nei confronti dell’Iran, un uso
intensificato dei droni nelle zone di guerra, sostegno incondizionato a
Israele (nonostante l’evidente e autentica antipatia di Obama per
Netanyahu), opposizione a un blocco europeo unitario, Guantanamo rimane
tuttora aperta e funzionante e Obama si è opposto ai processi contro i
responsabili di Bush che autorizzarono le torture (2).
Si assiste così a una progressiva privatizzazione dello Stato e della res publica
e delle relazioni internazionali. Il liberalismo economico è diventato
un modello per i governi occidentali, d’altra parte il capitalismo è
anche il portatore di una sua propria antropologia, quella dell’Homo oeconomicus con
la relativa riduzione di qualsiasi cosa a merce, a valore economico
con una conseguente tendenza a ridurre i costi. La penetrazione del
modello occidentale, che ha come modello gli Stati Uniti ma che ormai
li ha superati e inglobati, passa attraverso la proliferazione dei
bisogni di nuovi beni da acquistare.
Il modello dello sviluppo
prevede sempre nuovi consumatori e nicchie di mercato in ogni angolo
del mondo, poiché ha bisogno di una inarrestabile ed esponenziale
crescita. La crisi strutturale che stiamo vivendo e la consapevolezza
che questo modello di crescita infinita non si concilia con un sistema
chiuso e finito, quale è il nostro pianeta, stanno accelerando e
diffondendo ideologie alternative, quali comunitarismo e decrescita.
Inquinamento
e sfruttamento dell’ambiente stanno facendo sensibilizzare l’opinione
pubblica, senza però mettere veramente in discussione il nostro
modello, facendo così parlare di sviluppo sostenibile e di green economy; ma, come scrive Serge Latouche, “per
tentare di scongiurare magicamente gli effetti negativi dell’impresa
sviluppista, siamo entrati nell’era degli sviluppi con l’aggettivo. […]
Affiancando un aggettivo al concetto di sviluppo, non si rimette
veramente in discussione l’accumulazione capitalista. […] Questo lavoro
di ridefinizione dello sviluppo […] si regge sempre su idee di cultura,
natura, giustizia sociale. Si ritiene di poter guarire un Male che
colpirebbe lo sviluppo in modo accidentale e non congenito. […] Lo
sviluppo sostenibile è il più bel risultato di questa arte di
ringiovanimento dei vecchi tempi. Illustra perfettamente il processo di
eufemizzazione attraverso gli aggettivi volti a cambiare le parole ma
non le cose”.
Qual è allora un modello credibile e
alternativo a quello dello sviluppo? Il punto è proprio questo: non
esiste una grande potenza o un continente, una confederazione di stati e
nazioni che possa offrirne uno. Crollato il blocco sovietico, è
crollato anche il contrasto tra due grandi modelli e quello
sopravvissuto ha invaso il mondo, sia pure con adattamenti particolari.
Si tratta quindi di trovare una via che non metta al centro il
profitto e i mercati, ma comunità, identità e non veda il pianeta
contemporaneamente come una miniera da sfruttare indefinitamente e come
discarica.
di Francesco Viaro
* Francesco Viaro è laureato in Lingue e Letterature straniere presso l’Università degli Studi di Padova.
La privatizzazione della politica e il Moloch dello sviluppo
La
tragedia avvenuta in Bangladesh riaccende i riflettori sulla questione
delle esternalizzazioni nella produzione di beni da parte dei grandi
marchi. La produzione materiale di abiti, macchinari e accessori
tecnologici avviene spesso in Paesi del terzo mondo o cosiddetti
emergenti; se da una parte c’è l’ovvia e immediata ragione economica
(produrre in quei Paesi, dove le telecamere non sono mai accese, a
costi ridottissimi e mantenendo in condizioni di semi-schiavitù la
forza lavoro), dall’altra c’è anche la questione del marchio.
Il
vero marchio trascende il prodotto in sé e diventa un’esperienza di
vita, diventa filosofia di vita e parte della vita stessa, trascende il
prodotto fisico anzi, il sogno dei grandi guru dei marchi è proprio
quello di disfarsi del prodotto e di vendere il concetto, l’esperienza,
l’emozione che esso contiene. Diventa difficile parlare di
territorialità e di legame con il territorio quando si tratta di questi
colossi, e internet diventa quindi lo spazio ideale per i marchi,
“liberati dai Paesi del mondo reale dei negozi e della produzione,
questi marchi sono liberi di elevarsi, proponendosi non tanto come
diffusori di merci o servizi quanto come allucinazioni collettive” (1).
La politica non è da meno e le due amministrazioni Bush Jr. hanno attinto a piene mani dal modello delle hollow corporations, consultando esperti di indagini di mercato e di marchi. Difesa dei confini, protezione civile, intelligence
e missioni militari all’estero sono state tutte appaltate a settori
privati; il direttore del fondo di finanziamento, Mitch Daniels, ha
espresso chiaramente il concetto: “il governo non ha il compito di
fornire servizi, ma di accertarsi che siano forniti”. Chealrotte Beers,
che aveva diretto diverse agenzie pubblicitarie, venne assunta come
sottosegretario alla Diplomazia e agli Affari Pubblici e le critiche per
quella nomina furono respinte dal segretario di Stato Colin Powell con
queste parole: “Non c’è niente di male ad assumere una persona che
sappia vendere. Noi vendiamo un prodotto, e ci serve qualcuno che possa
rinnovare il marchio della politica estera e della diplomazia
americana”.
La Lockheed Martin, famosa tra le altre cose per la
paternità dei discussi caccia F-35, è il più grande appaltatore al
mondo della difesa, e un’inchiesta del 2004 del “New York Times”
elencava tutti gli ambiti in cui opera, tra cui l’organizzazione del
censimento nazionale, la gestione dei voli spaziali e l’assistenza
sanitaria. La privatizzazione della politica si estende anche oltre i
patri confini: l’occupazione militare dell’Iraq ha visto un consistente
impegno di compagnie private quali Blackwater e Halliburton. Quando
uomini della Blackwater aprirono il fuoco in piazza Nisour a Baghdad,
uccidendo diciassette civili, l’amministrazione statunitense se ne lavò
le mani scaricando sugli appaltatori tutta la responsabilità, e la
compagnia risorse rinnovando il marchio e assumendo il nuovo nome di Xe Services.
Gli
attentati dell’11 settembre 2001 strinsero la nazione attorno al
presidente Bush, molto contestato e molto poco apprezzato, e raccolsero
molti Paesi europei e non, ostili a quell’amministrazione, attorno agli
USA, cosicché l’intervento militare in Afghanistan venne accettato. La
guerra all’Iraq fece però scendere nuovamente le quotazioni della Casa
Bianca all’estero e a lungo andare anche all’interno della nazione. Il
marchio USA era ai minimi storici, finché non arrivò Obama.
Barack
Obama, durante la sua prima campagna presidenziale, ricevette più
finanziamenti da Wall Street di qualsiasi altro candidato e, una volta
eletto presidente, ha confermato nei gangli delle istituzioni
economiche e finanziarie persone come Ben Barnake, e continua tuttora
sulla strada neoliberista.
Le strategie geopolitiche statunitensi
non cambiano: ostilità aperta nei confronti dell’Iran, un uso
intensificato dei droni nelle zone di guerra, sostegno incondizionato a
Israele (nonostante l’evidente e autentica antipatia di Obama per
Netanyahu), opposizione a un blocco europeo unitario, Guantanamo rimane
tuttora aperta e funzionante e Obama si è opposto ai processi contro i
responsabili di Bush che autorizzarono le torture (2).
Si assiste così a una progressiva privatizzazione dello Stato e della res publica
e delle relazioni internazionali. Il liberalismo economico è diventato
un modello per i governi occidentali, d’altra parte il capitalismo è
anche il portatore di una sua propria antropologia, quella dell’Homo oeconomicus con
la relativa riduzione di qualsiasi cosa a merce, a valore economico
con una conseguente tendenza a ridurre i costi. La penetrazione del
modello occidentale, che ha come modello gli Stati Uniti ma che ormai
li ha superati e inglobati, passa attraverso la proliferazione dei
bisogni di nuovi beni da acquistare.
Il modello dello sviluppo
prevede sempre nuovi consumatori e nicchie di mercato in ogni angolo
del mondo, poiché ha bisogno di una inarrestabile ed esponenziale
crescita. La crisi strutturale che stiamo vivendo e la consapevolezza
che questo modello di crescita infinita non si concilia con un sistema
chiuso e finito, quale è il nostro pianeta, stanno accelerando e
diffondendo ideologie alternative, quali comunitarismo e decrescita.
Inquinamento
e sfruttamento dell’ambiente stanno facendo sensibilizzare l’opinione
pubblica, senza però mettere veramente in discussione il nostro
modello, facendo così parlare di sviluppo sostenibile e di green economy; ma, come scrive Serge Latouche, “per
tentare di scongiurare magicamente gli effetti negativi dell’impresa
sviluppista, siamo entrati nell’era degli sviluppi con l’aggettivo. […]
Affiancando un aggettivo al concetto di sviluppo, non si rimette
veramente in discussione l’accumulazione capitalista. […] Questo lavoro
di ridefinizione dello sviluppo […] si regge sempre su idee di cultura,
natura, giustizia sociale. Si ritiene di poter guarire un Male che
colpirebbe lo sviluppo in modo accidentale e non congenito. […] Lo
sviluppo sostenibile è il più bel risultato di questa arte di
ringiovanimento dei vecchi tempi. Illustra perfettamente il processo di
eufemizzazione attraverso gli aggettivi volti a cambiare le parole ma
non le cose”.
Qual è allora un modello credibile e
alternativo a quello dello sviluppo? Il punto è proprio questo: non
esiste una grande potenza o un continente, una confederazione di stati e
nazioni che possa offrirne uno. Crollato il blocco sovietico, è
crollato anche il contrasto tra due grandi modelli e quello
sopravvissuto ha invaso il mondo, sia pure con adattamenti particolari.
Si tratta quindi di trovare una via che non metta al centro il
profitto e i mercati, ma comunità, identità e non veda il pianeta
contemporaneamente come una miniera da sfruttare indefinitamente e come
discarica.
di Francesco Viaro
* Francesco Viaro è laureato in Lingue e Letterature straniere presso l’Università degli Studi di Padova.
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