Neurolandia
Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna ormai stanno diventando il leitmotiv delle riflessioni delle comunità finanziarie internazionali, come se l'unica preoccupazione su cui ci dovremmo soffermare fosse la tenuta nel breve dei conti pubblici di questi paesi. Il cosa scegliere ed il dove posizionarsi a livello di investimento è stato da me ampiamente trattato in svariate occasioni e contesti mediatici, tuttavia l'interrogativo principe cui ci dovremmo porre in questo momento non è se il tal titolo di stato è a rischio default, ma piuttosto quale non lo sarà. Cercherò di trasmettervi questo mio pensiero nel modo più comprensibile possibile.
La crisi del debito sovrano in Europa è una crisi di natura strutturale (e non congiunturale) dovuta a fenomeni macroeconomici che hanno espresso tutto il loro potenziale detonante attraverso un modello di sviluppo economico turboalimentato da bassi tassi di interesse e costi irrisori di manodopera che porta il nome di globalizzazione. Quest’ultima non nasce dalla naturale evoluzione del capitalismo classico, quanto piuttosto è una soluzione studiata a tavolino da potenti lobby di interesse sovranazionale per risolvere l'angosciante diminuzione dei profitti e degli utili aziendali in USA ed in Europa, causa un progressivo ed inarrestabile processo di invecchiamento della popolazione unito ad una decadente natalità dei nuclei familiari.
Le grandi multinazionali vedranno infatti costantemente contrarsi sia i fatturati che i livelli di profitto in quanto ormai quasi tutti i mercati occidentali sono maturi, saturi o addirittura in declino (pensate al mercato automobilistico, non sono casuali le recenti esternazioni di Sergio Marchionne). Tra quindici anni le persone anziane, gli over sessanta, rappresenteranno una quota sempre più consistente delle popolazioni occidentali (in Italia saranno stimati quasi al 40%). Una persona anziana purtroppo non rappresenta il clichè del consumatore ideale, infatti contribuisce marginalmente poco al livello dei consumi rispetto ad un trentenne (quest’ultimo infatti si trova appena all’inizio del suo progetto di vita: si deve sposare, deve comprare un’abitazione, fare figli, acquistare un’autovettura, divertisi nel tempo libero, andare in vacanza, vestirsi alla moda e così via).
Se da una parte infatti diminuirà il livello dei consumi, dall’altra aumenterà invece il peso angosciante del welfare sociale (ricoveri, degenze, assistenza medica e pensioni di anzianità) andando a pesare sempre di più in percentuale ogni anno sul totale della ricchezza prodotta. In buona sostanza stiamo parlando di paesi (USA, Germania, Regno Unito, Francia, Italia, Spagna & Company) il cui destino è piuttosto ben delineato: inesorabile invecchiamento della popolazione, costante aumento dell’indebitamento pubblico, lenta deindustrializzazione e brutale impoverimento. Non so quanto potranno effettivamente servire i cosidetti programmi di austerity sociale, a meno di drastici e drammatici tagli alla spesa sociale ed alla pubblica amministrazione. Chi ha concepito la globalizzazione ha pensato proprio a questo ovvero come salvaguardare i livelli di profitto aziendali (e magari anche come farli aumentare) a fronte di un mutamento epocale della geografia dei consumi mondiali.
In Asia, con in testa Cina ed India, il 75% della popolazione ha un’età inferiore ai trentanni ed un reddito procapite in costante ascesa: si trattava pertanto di creare le premesse e le modalità per far aumentare il numero di persone che in queste regioni potessero iniziare a consumare a livelli similari a quelli occidentali. Grazie ad il WTO si è riusciti ad implementare un fenomenale trasferimento di posti di lavoro attraverso le “opportunità” delle delocalizzazioni produttive, spostando letteralmente fabbriche e stabilimenti, che avrebbero consentito di far nascere con il tempo una nuova classe media borghese disposta a spendere per le mode e le tendenze di consumo del nuovo millennio. Non bisogna essere economisti per rendersi conto di quanto esposto sopra: nel 2000 l’Asia contribuiva ad appena il 10% dei consumi mondiali, nel 2030 salirà a quasi il 40%. Come potenziale di crescita, ai mercati orientali si stanno affiancando anche i mercati dell’America Latina con la locomotiva Brasile in testa.
Stiamo pertanto assistendo ad un mutamento epocale: il baricentro economico e geopolitico del mondo si sta spostando verso Oriente ed anche verso il Sud del Pianeta. La crisi del debito sovrano in Europa è tutto sommato di portata inconsistente rispetto ai problemi che emergeranno nei prossimi cinque anni a fronte di oggettive difficoltà di approvvigionamento alimentare, soprattutto in Oriente che detiene superfici arabili decisamente incapaci a far fronte alla crescente domanda sia di cereali che (purtroppo) di carni da allevamento. Tra ventanni l’attuale modello economico dovrà essere in grado di fornire abitazioni, automobili, carburanti, acqua e cibo ad almeno 600 milioni di nuove persone: pertanto cominciate a chiedervi chi potrà ancora permettersi di avere il frigorifero pieno o i banchi del supermercati colmi e riforniti per accontentare lo scellerato e sfrenato consumismo del nuovo millennio. Destino manifesto per dirla alla Stewie Griffin.
di Eugenio Benetazzo
Neurolandia
Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna ormai stanno diventando il leitmotiv delle riflessioni delle comunità finanziarie internazionali, come se l'unica preoccupazione su cui ci dovremmo soffermare fosse la tenuta nel breve dei conti pubblici di questi paesi. Il cosa scegliere ed il dove posizionarsi a livello di investimento è stato da me ampiamente trattato in svariate occasioni e contesti mediatici, tuttavia l'interrogativo principe cui ci dovremmo porre in questo momento non è se il tal titolo di stato è a rischio default, ma piuttosto quale non lo sarà. Cercherò di trasmettervi questo mio pensiero nel modo più comprensibile possibile.
La crisi del debito sovrano in Europa è una crisi di natura strutturale (e non congiunturale) dovuta a fenomeni macroeconomici che hanno espresso tutto il loro potenziale detonante attraverso un modello di sviluppo economico turboalimentato da bassi tassi di interesse e costi irrisori di manodopera che porta il nome di globalizzazione. Quest’ultima non nasce dalla naturale evoluzione del capitalismo classico, quanto piuttosto è una soluzione studiata a tavolino da potenti lobby di interesse sovranazionale per risolvere l'angosciante diminuzione dei profitti e degli utili aziendali in USA ed in Europa, causa un progressivo ed inarrestabile processo di invecchiamento della popolazione unito ad una decadente natalità dei nuclei familiari.
Le grandi multinazionali vedranno infatti costantemente contrarsi sia i fatturati che i livelli di profitto in quanto ormai quasi tutti i mercati occidentali sono maturi, saturi o addirittura in declino (pensate al mercato automobilistico, non sono casuali le recenti esternazioni di Sergio Marchionne). Tra quindici anni le persone anziane, gli over sessanta, rappresenteranno una quota sempre più consistente delle popolazioni occidentali (in Italia saranno stimati quasi al 40%). Una persona anziana purtroppo non rappresenta il clichè del consumatore ideale, infatti contribuisce marginalmente poco al livello dei consumi rispetto ad un trentenne (quest’ultimo infatti si trova appena all’inizio del suo progetto di vita: si deve sposare, deve comprare un’abitazione, fare figli, acquistare un’autovettura, divertisi nel tempo libero, andare in vacanza, vestirsi alla moda e così via).
Se da una parte infatti diminuirà il livello dei consumi, dall’altra aumenterà invece il peso angosciante del welfare sociale (ricoveri, degenze, assistenza medica e pensioni di anzianità) andando a pesare sempre di più in percentuale ogni anno sul totale della ricchezza prodotta. In buona sostanza stiamo parlando di paesi (USA, Germania, Regno Unito, Francia, Italia, Spagna & Company) il cui destino è piuttosto ben delineato: inesorabile invecchiamento della popolazione, costante aumento dell’indebitamento pubblico, lenta deindustrializzazione e brutale impoverimento. Non so quanto potranno effettivamente servire i cosidetti programmi di austerity sociale, a meno di drastici e drammatici tagli alla spesa sociale ed alla pubblica amministrazione. Chi ha concepito la globalizzazione ha pensato proprio a questo ovvero come salvaguardare i livelli di profitto aziendali (e magari anche come farli aumentare) a fronte di un mutamento epocale della geografia dei consumi mondiali.
In Asia, con in testa Cina ed India, il 75% della popolazione ha un’età inferiore ai trentanni ed un reddito procapite in costante ascesa: si trattava pertanto di creare le premesse e le modalità per far aumentare il numero di persone che in queste regioni potessero iniziare a consumare a livelli similari a quelli occidentali. Grazie ad il WTO si è riusciti ad implementare un fenomenale trasferimento di posti di lavoro attraverso le “opportunità” delle delocalizzazioni produttive, spostando letteralmente fabbriche e stabilimenti, che avrebbero consentito di far nascere con il tempo una nuova classe media borghese disposta a spendere per le mode e le tendenze di consumo del nuovo millennio. Non bisogna essere economisti per rendersi conto di quanto esposto sopra: nel 2000 l’Asia contribuiva ad appena il 10% dei consumi mondiali, nel 2030 salirà a quasi il 40%. Come potenziale di crescita, ai mercati orientali si stanno affiancando anche i mercati dell’America Latina con la locomotiva Brasile in testa.
Stiamo pertanto assistendo ad un mutamento epocale: il baricentro economico e geopolitico del mondo si sta spostando verso Oriente ed anche verso il Sud del Pianeta. La crisi del debito sovrano in Europa è tutto sommato di portata inconsistente rispetto ai problemi che emergeranno nei prossimi cinque anni a fronte di oggettive difficoltà di approvvigionamento alimentare, soprattutto in Oriente che detiene superfici arabili decisamente incapaci a far fronte alla crescente domanda sia di cereali che (purtroppo) di carni da allevamento. Tra ventanni l’attuale modello economico dovrà essere in grado di fornire abitazioni, automobili, carburanti, acqua e cibo ad almeno 600 milioni di nuove persone: pertanto cominciate a chiedervi chi potrà ancora permettersi di avere il frigorifero pieno o i banchi del supermercati colmi e riforniti per accontentare lo scellerato e sfrenato consumismo del nuovo millennio. Destino manifesto per dirla alla Stewie Griffin.
di Eugenio Benetazzo
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