Per la stragrande maggioranza dei cittadini le modifiche nei CdA delle banche e affini sono notizie che appaiono remote e sostanzialmente incomprensibili. Ma è proprio in quegli ambiti riservati ed esclusivi che si gioca la partita più delicata: quella del controllo dei capitali, dalle cui strategie deriva tutto il resto
Ma a te, trentenne precario, casalinga alla terza settimana del mese, piccolo imprenditore strangolato dalle banche, a te cosa importa se Giovanni Galateri di Genola diventerà il nuovo presidente delle Assicurazioni Generali dopo Cesare Geronzi si è dimesso? Niente. Per te che fatichi per sopravvivere non c’è nessuna “svolta epocale”.
Geronzi è la personificazione di un certo modo, paludato e impastoiato con i partiti, di fare finanza e di un certo mondo, a metà fra Chiesa e Berlusconi, tutto romano e di potere. Rappresenta uno dei volti del cosiddetto salotto buono. Ma l’uomo della strada ne era escluso prima e resterà escluso anche dopo la sua uscita di scena. Perciò le paginate dedicate agli intrighi e ai retroscena delle dimissioni di Geronzi (accusato di falso e bancarotta per il crac Cirio) sono esercizio autoreferenziale offensivo per la gente che a che fare con la vita vera.
Le beghe fra banchieri, industriali e manager riguardano una dimensione parallela tutta loro. Il guaio è che le manovre che la agitano e la squassano, nel linguaggio incomprensibile e nell’aura semi-occulta in cui è avvolta, rappresentano i movimenti della classe dominante che giù per li rami investono l’esistenza di tutti noi, ignari e incoscienti sudditi. Il quotidiano spettacolo della politica è la facciata visibile, ma dietro le quinte questi signori grigi e azzimati sconosciuti ai più decidono con le loro lotte gli assetti del potere reale, quello finanziario. Sono i finanzieri ad avere le chiavi della cassa, e in una società totalmente regolata in base alla quantità di denaro chi tiene i cordoni della borsa è il padrone.
Ecco perché, se nulla cambia per il cittadino comune, al cittadino informato serve sapere cosa gli combinano sopra la testa. Semplificando, Geronzi, un passato da banchiere andreottiano, personaggio trasversale perchè “centrista”, già dominus della decisiva Mediobanca, vicino al premier, aveva scontentato un po’ tutti dopo il suo arrivo al vertice delle Generali appena un anno fa. Il suo disegno era fare del Leone di Trieste, prima forza finanziaria del paese, l’indiscussa centrale di comando al fine di gestire il potere secondo metodi tipicamente romani (alla Fazio, per capirci), che non a macinare affari.
Il suo disegno era funzionale alla conquista berlusconiana della stanza dei bottoni: in Mediobanca, prima azionista di Generali, il capo del governo è presente nel board tramite sua figlia Marina, il sodale Tarek Ben Ammar, l’amico Salvatore Ligresti e il fido Ennio Doris. L’influente ministro dell’economia Giulio Tremonti aveva inizialmente appoggiato la presidenza Geronzi. Ora è stato uno dei suoi affossatori in contrasto con Gianni Letta, ombra di Silvio e diretto rivale di Giulio nel conflitto interno al governo (vedi il braccio di ferro sulle nomine nelle società pubbliche, di cui abbiamo scritto mercoledì scorso). Contro Geronzi la guerra è stata scatenata sulla piazza mediatica dal bulldozer Diego Della Valle, alleato di ferro dell’ambizioso Luca Cordero di Montezemolo. Ma anche il costruttore ed editore Caltagirone (vicino a Casini), per non dire di Palenzona (Unicredit, centrosinistra) hanno dato il via libera al siluramento.
Politicamente, a perderci è stato dunque Berlusconi, che oltretutto si vede sempre più insidiato in casa dall’infido Tremonti. Ma a perderci è anche, nient’affatto paradossalmente, Gianni Bazoli (Intesa), l’eminenza della finanza cattolica lombarda legata al centrosinistra, che con Geronzi aveva creato un filo rosso per mantenere l’equilibrio generale. Ciò, ad esempio, ha garantito che non venissero toccati i delicatissimi pesi e contrappesi nel patto che governa il Corriere della Sera, preda ambita da chi coltiva sogni di gloria. E il sospetto è che a coltivarne uno di portata storica è il duo Della Valle-Montezemolo: il famigerato Terzo Polo che pare si stia preparando è un progetta che mira a colpire e in prospettiva sostituire il blocco berlusconiano, d’accordo con la sinistra non casualmente chiamata “bancaria” per la sua contiguità con le maggiori banche (Intesa, Unicredit). La partita avrà il suo vero finale a fine anno, quando si dovrà rinnovare l’accordo di controllo di Mediobanca.
Come si vede, una normale storia dell’inaccessibile empireo dei potenti. Una storia di potere che non è in nostro potere. Come non lo è niente, nella pseudo-democrazia dove una ventina di persone a capo di tre o quattro consigli di amministrazione decretano la sorte di un intero paese senza che noi, quaggiù in basso, possiamo dire o fare alcunché.
di Alessio Mannino
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13 aprile 2011
Il “dopo Geronzi”. La finanza sulle nostre teste
Per la stragrande maggioranza dei cittadini le modifiche nei CdA delle banche e affini sono notizie che appaiono remote e sostanzialmente incomprensibili. Ma è proprio in quegli ambiti riservati ed esclusivi che si gioca la partita più delicata: quella del controllo dei capitali, dalle cui strategie deriva tutto il resto
Ma a te, trentenne precario, casalinga alla terza settimana del mese, piccolo imprenditore strangolato dalle banche, a te cosa importa se Giovanni Galateri di Genola diventerà il nuovo presidente delle Assicurazioni Generali dopo Cesare Geronzi si è dimesso? Niente. Per te che fatichi per sopravvivere non c’è nessuna “svolta epocale”.
Geronzi è la personificazione di un certo modo, paludato e impastoiato con i partiti, di fare finanza e di un certo mondo, a metà fra Chiesa e Berlusconi, tutto romano e di potere. Rappresenta uno dei volti del cosiddetto salotto buono. Ma l’uomo della strada ne era escluso prima e resterà escluso anche dopo la sua uscita di scena. Perciò le paginate dedicate agli intrighi e ai retroscena delle dimissioni di Geronzi (accusato di falso e bancarotta per il crac Cirio) sono esercizio autoreferenziale offensivo per la gente che a che fare con la vita vera.
Le beghe fra banchieri, industriali e manager riguardano una dimensione parallela tutta loro. Il guaio è che le manovre che la agitano e la squassano, nel linguaggio incomprensibile e nell’aura semi-occulta in cui è avvolta, rappresentano i movimenti della classe dominante che giù per li rami investono l’esistenza di tutti noi, ignari e incoscienti sudditi. Il quotidiano spettacolo della politica è la facciata visibile, ma dietro le quinte questi signori grigi e azzimati sconosciuti ai più decidono con le loro lotte gli assetti del potere reale, quello finanziario. Sono i finanzieri ad avere le chiavi della cassa, e in una società totalmente regolata in base alla quantità di denaro chi tiene i cordoni della borsa è il padrone.
Ecco perché, se nulla cambia per il cittadino comune, al cittadino informato serve sapere cosa gli combinano sopra la testa. Semplificando, Geronzi, un passato da banchiere andreottiano, personaggio trasversale perchè “centrista”, già dominus della decisiva Mediobanca, vicino al premier, aveva scontentato un po’ tutti dopo il suo arrivo al vertice delle Generali appena un anno fa. Il suo disegno era fare del Leone di Trieste, prima forza finanziaria del paese, l’indiscussa centrale di comando al fine di gestire il potere secondo metodi tipicamente romani (alla Fazio, per capirci), che non a macinare affari.
Il suo disegno era funzionale alla conquista berlusconiana della stanza dei bottoni: in Mediobanca, prima azionista di Generali, il capo del governo è presente nel board tramite sua figlia Marina, il sodale Tarek Ben Ammar, l’amico Salvatore Ligresti e il fido Ennio Doris. L’influente ministro dell’economia Giulio Tremonti aveva inizialmente appoggiato la presidenza Geronzi. Ora è stato uno dei suoi affossatori in contrasto con Gianni Letta, ombra di Silvio e diretto rivale di Giulio nel conflitto interno al governo (vedi il braccio di ferro sulle nomine nelle società pubbliche, di cui abbiamo scritto mercoledì scorso). Contro Geronzi la guerra è stata scatenata sulla piazza mediatica dal bulldozer Diego Della Valle, alleato di ferro dell’ambizioso Luca Cordero di Montezemolo. Ma anche il costruttore ed editore Caltagirone (vicino a Casini), per non dire di Palenzona (Unicredit, centrosinistra) hanno dato il via libera al siluramento.
Politicamente, a perderci è stato dunque Berlusconi, che oltretutto si vede sempre più insidiato in casa dall’infido Tremonti. Ma a perderci è anche, nient’affatto paradossalmente, Gianni Bazoli (Intesa), l’eminenza della finanza cattolica lombarda legata al centrosinistra, che con Geronzi aveva creato un filo rosso per mantenere l’equilibrio generale. Ciò, ad esempio, ha garantito che non venissero toccati i delicatissimi pesi e contrappesi nel patto che governa il Corriere della Sera, preda ambita da chi coltiva sogni di gloria. E il sospetto è che a coltivarne uno di portata storica è il duo Della Valle-Montezemolo: il famigerato Terzo Polo che pare si stia preparando è un progetta che mira a colpire e in prospettiva sostituire il blocco berlusconiano, d’accordo con la sinistra non casualmente chiamata “bancaria” per la sua contiguità con le maggiori banche (Intesa, Unicredit). La partita avrà il suo vero finale a fine anno, quando si dovrà rinnovare l’accordo di controllo di Mediobanca.
Come si vede, una normale storia dell’inaccessibile empireo dei potenti. Una storia di potere che non è in nostro potere. Come non lo è niente, nella pseudo-democrazia dove una ventina di persone a capo di tre o quattro consigli di amministrazione decretano la sorte di un intero paese senza che noi, quaggiù in basso, possiamo dire o fare alcunché.
di Alessio Mannino
Ma a te, trentenne precario, casalinga alla terza settimana del mese, piccolo imprenditore strangolato dalle banche, a te cosa importa se Giovanni Galateri di Genola diventerà il nuovo presidente delle Assicurazioni Generali dopo Cesare Geronzi si è dimesso? Niente. Per te che fatichi per sopravvivere non c’è nessuna “svolta epocale”.
Geronzi è la personificazione di un certo modo, paludato e impastoiato con i partiti, di fare finanza e di un certo mondo, a metà fra Chiesa e Berlusconi, tutto romano e di potere. Rappresenta uno dei volti del cosiddetto salotto buono. Ma l’uomo della strada ne era escluso prima e resterà escluso anche dopo la sua uscita di scena. Perciò le paginate dedicate agli intrighi e ai retroscena delle dimissioni di Geronzi (accusato di falso e bancarotta per il crac Cirio) sono esercizio autoreferenziale offensivo per la gente che a che fare con la vita vera.
Le beghe fra banchieri, industriali e manager riguardano una dimensione parallela tutta loro. Il guaio è che le manovre che la agitano e la squassano, nel linguaggio incomprensibile e nell’aura semi-occulta in cui è avvolta, rappresentano i movimenti della classe dominante che giù per li rami investono l’esistenza di tutti noi, ignari e incoscienti sudditi. Il quotidiano spettacolo della politica è la facciata visibile, ma dietro le quinte questi signori grigi e azzimati sconosciuti ai più decidono con le loro lotte gli assetti del potere reale, quello finanziario. Sono i finanzieri ad avere le chiavi della cassa, e in una società totalmente regolata in base alla quantità di denaro chi tiene i cordoni della borsa è il padrone.
Ecco perché, se nulla cambia per il cittadino comune, al cittadino informato serve sapere cosa gli combinano sopra la testa. Semplificando, Geronzi, un passato da banchiere andreottiano, personaggio trasversale perchè “centrista”, già dominus della decisiva Mediobanca, vicino al premier, aveva scontentato un po’ tutti dopo il suo arrivo al vertice delle Generali appena un anno fa. Il suo disegno era fare del Leone di Trieste, prima forza finanziaria del paese, l’indiscussa centrale di comando al fine di gestire il potere secondo metodi tipicamente romani (alla Fazio, per capirci), che non a macinare affari.
Il suo disegno era funzionale alla conquista berlusconiana della stanza dei bottoni: in Mediobanca, prima azionista di Generali, il capo del governo è presente nel board tramite sua figlia Marina, il sodale Tarek Ben Ammar, l’amico Salvatore Ligresti e il fido Ennio Doris. L’influente ministro dell’economia Giulio Tremonti aveva inizialmente appoggiato la presidenza Geronzi. Ora è stato uno dei suoi affossatori in contrasto con Gianni Letta, ombra di Silvio e diretto rivale di Giulio nel conflitto interno al governo (vedi il braccio di ferro sulle nomine nelle società pubbliche, di cui abbiamo scritto mercoledì scorso). Contro Geronzi la guerra è stata scatenata sulla piazza mediatica dal bulldozer Diego Della Valle, alleato di ferro dell’ambizioso Luca Cordero di Montezemolo. Ma anche il costruttore ed editore Caltagirone (vicino a Casini), per non dire di Palenzona (Unicredit, centrosinistra) hanno dato il via libera al siluramento.
Politicamente, a perderci è stato dunque Berlusconi, che oltretutto si vede sempre più insidiato in casa dall’infido Tremonti. Ma a perderci è anche, nient’affatto paradossalmente, Gianni Bazoli (Intesa), l’eminenza della finanza cattolica lombarda legata al centrosinistra, che con Geronzi aveva creato un filo rosso per mantenere l’equilibrio generale. Ciò, ad esempio, ha garantito che non venissero toccati i delicatissimi pesi e contrappesi nel patto che governa il Corriere della Sera, preda ambita da chi coltiva sogni di gloria. E il sospetto è che a coltivarne uno di portata storica è il duo Della Valle-Montezemolo: il famigerato Terzo Polo che pare si stia preparando è un progetta che mira a colpire e in prospettiva sostituire il blocco berlusconiano, d’accordo con la sinistra non casualmente chiamata “bancaria” per la sua contiguità con le maggiori banche (Intesa, Unicredit). La partita avrà il suo vero finale a fine anno, quando si dovrà rinnovare l’accordo di controllo di Mediobanca.
Come si vede, una normale storia dell’inaccessibile empireo dei potenti. Una storia di potere che non è in nostro potere. Come non lo è niente, nella pseudo-democrazia dove una ventina di persone a capo di tre o quattro consigli di amministrazione decretano la sorte di un intero paese senza che noi, quaggiù in basso, possiamo dire o fare alcunché.
di Alessio Mannino
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