Una crisi economica, soprattutto come quella che negli ultimi tre anni ha investito l’intero pianeta, non è mai solo una crisi monetaria. Nel migliore dei casi, vanno in crisi i governi politici degli stati, nel peggiore si scatenano le guerre mondiali, nella media tragicità, a crollare sono le strutture inter e sovra-nazionali. È quello che sta accedendo in Europa. Investita dal crack del sistema finanziario americano del 2008, sono cominciati a saltare i governi delle nazioni più esposte (Spagna, Grecia, Italia in primis). Se per le guerre mondiali forse ci vorrà del tempo (ma gli spifferi iraniani stanno già soffiando forte) quello scaduto sembra essere il tempo dell’euro-moneta come collante e propulsione degli assetti politici del Vecchio Continente. Già la settimana scorsa la Gran Bretagna, che pure all’euro aveva rinunciato in partenza, tenendosi la sterlina, ha rifiutato di entrare nella Ue dei cosiddetti 27 (ora, 26) e adesso non appare del tutto campata in aria l’ipotesi che la stessa Germania possa tornare al marco. Accadesse questo, tutta l’architettura europea fin qui concepita, e più o meno bene (anzi: male) realizzata, crollerebbe lasciando spazio a scenari ben poco prevedibili.
In questo contesto di assoluta incertezza, tutto ciò che rimane fermo e indiscutibile sono le misure che si ritengono imprescindibili per far fronte ai debiti degli stati in crisi (economica ma non solo) e che vanno sotto il nome generico di quei cosiddetti “sacrifici” che sono la ricerca di nuove entrate fiscali e di tagli alla spesa pubblica. Ora, perfino se il quadro europeo, compreso quello che riguarda strettamente la sorte della moneta unica, fosse chiaro e solido sarebbe da dubitare dell’efficacia della formula dei “sacrifici”, ma siccome così non è, il sospetto che il “taglia e prendi” proposto e imposto per l’ennesima volta come soluzione unica per evitare il default, sia un viatico alla salvezza dal fallimento è doveroso. Soprattutto, quando il sistema che regge in piedi lo stato liberista è fondato sul principio del produrre consumo per aumentare la produzione e incrementare nuovamente il consumo. Non ci vuole un genio per capire che congelando i contratti salariali e le pensioni, introducendo nuove tasse, aumentando l’Iva e le accise su generi di prima necessità come la benzina, la liquidità da destinare al consumo non può che flettere in basso (deflazione) con conseguente recessione della produzione.
È un percorso talmente noto e matematico che a stupire è solo il fatto che venga puntualmente riproposto. O meglio: stupirebbe se ci attardassimo ancora a considerare chi adotta e impone queste misure interessato alla sorte degli stati sociali e non, come ormai dovrebbe essere palese, a mantenerne in vita un altro: quello del sistema finanziario che impera. Perché, se si leggono in questa ottica, le misure di “austerità” (il “taglia e prendi” di cui si dice sopra) hanno un senso logico e coerente: quello di cristallizzare stato ed individui nella condizione di debitori. Lo ha spiegato benissimo il prof. Christian Marrazzi, in un’intervista del 3 dicembre a Ida Dominijanni del Manifesto: «Il neo-liberalismo si invera nella sua essenza di fabbrica dell’uomo indebitato. L’imprenditore di se stesso produce il suo debito che ora lo disciplina attraverso un dispositivo di colpevolizzazione. Del resto, qui c’è anche un inveramento, o uno svelamento, dell’essenza del denaro: il denaro è debito, la finanziarizzazione del capitale ci ha trasformati tutti in soggetti debitori, e il valore viene prodotto in negativo, da una macchina depressiva».
La “macchina depressiva” della finanziarizzazione del debito è potente e i segnali di un suo possibile arresto tardano ad arrivare. A meno che non si vogliano leggere come segni di sua debolezza la discesa in campo in prima persona dei banchieri alla guida degli stati e la sospensione della politica, se non proprio della democrazia, come avvenuto in Grecia e Italia negli ultimi mesi. Ovvero: vi è da chiedersi se la esposizione politica di uomini già legati alla Goldman Sachs (Mario Monti) e alla Bce (Lucas Papademos), istituti con grossissime responsabilità nella crisi in corso, non sia il tentativo di mettere pezze a un tessuto che tende a lacerarsi. Lo stesso Marrazzi sostiene che «La de-finanziarizzazione la sta approntando il capitalismo stesso nella forma recessiva della riduzione del debito» a causa della riduzione forzosa della liquidità del consumatore. È, in fondo, ancora un atto di fede nell’antica profezia marxiana del capitalismo che perirà per via delle sue contraddizioni.
Nel frattempo, però, persino alcune correzioni come la socializzazione dei debiti pubblici degli stati, l’introduzione della tobin-tax planetaria, l’istituzione del reddito minimo garantito di cittadinanza sembrano più un’aspirazione utopica che la ragionevole proposta di mediazione fra agenti della crisi e vittime della stessa. Se è così, figuriamoci quale accoglienza potrebbe avere una proposta che sostenesse di uscire da questo sistema dichiarando la moratoria del debito, pubblico e privato, la nazionalizzazione delle banche e l’integrazione del lavoratore nella gestione delle imprese produttive, in un quadro politico generale di democrazia diretta e partecipata.
di Miro Renzaglia
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