Dopo l’efferato carnaio estivo che ha scosso la Norvegia, anche il palcoscenico belga ed italiano si è tinto di sangue in seguito ai due attentati di Liegi e Firenze.
Naturalmente, le autorità pubbliche di entrambi i paesi hanno escluso a priori qualsiasi connessione tra i due eventi, che malgrado siano avvenuti quasi in contemporanea e affondino entrambi le radici nel degradato tessuto sociale europeo, andrebbero tuttavia iscritti nel novero delle azioni dettate dalla paranoia individuale che affliggeva i loro diretti responsabili.
La teoria del pazzo che scatena la carneficina per assecondare i demoni che si annidano nel proprio subconscio rappresenta infatti una risorsa di cui la politica si avvale regolarmente allo scopo di difendere l’ordine costituito ed evitare che la base sociale colga l’occasione per sollevare problemi che non trovino la loro spiegazione nell’oscuro ed inestricabile ambito della follia, ma siano invece riconducibili al più logico campo della razionalità.
Appare quindi quantomeno discutibile l’approccio semplicistico e autoconsolatorio, imperniato sulla tesi del “pazzo solitario”, mantenuto dalla maggior parte degli inquirenti e dei principali organi di informazione in relazione agli attentati di Oslo, Utoya, Liegi e Firenze, le cui rispettive ricostruzioni presentano un consistente numero di zone d’ombra e poggiano su fondamenta logiche azzardate e contraddittorie.
Negli istanti immediatamente successivi alla strage di Utoya la autorità norvegesi operarono un conto dei morti incredibilmente superiore alla realtà (almeno 100 morti dichiarati, a fronte dei 69 definitivi) mentre non è ancora chiara la dinamica dei fatti di Firenze e Liegi.
In questo campo minato di indizi ed ipotesi destinate con ogni probabilità a rimanere tali esiste tuttavia un minmo comun denominatore che la politica cerca faticosamente di minimizzare, ovvero il razzismo.
Anders Breivik era un sionista xenofobo animato da un sacro ardore anti – islamico che ha riversato il proprio algido disprezzo omicida contro i giovani simpatizzanti di un partito considerato incoscentemente lassista nei riguardi dell’immigrazione.
Gianluca Casseri era un razzista dichiarato ed ha manifestato il proprio odio nei confronti degli immigrati fiorentini aprendo il fuoco contro alcuni venditori ambulanti senegalesi, uccidendone due.
Il fatto che frequentasse Casa Pound ha suscitato il consueto e sempreverde orgoglio “democratico” in seno a una società afflitta da un grado di timore irrazionale nei confronti del fascismo che supera la paranoia, poiché il fascismo rappresenta un fenomeno ormai concluso, da iscrivere nel campo della Storia e non dell’attualità.
In compenso, l’attentato ha innescato la solita catena di sillogismi che ha portato i più ortodossi esponenti di questo nuovo anti-fascismo del nuovo millennio a criminalizzare Casa Pound come entità, mentre l’ala più “moderata” si è limitata a pretendere la pubblica disapprovazione dell’accaduto da parte di ciascun adepto dell’organizzazione che si richiama al pensiero politico del grande poeta statunitense (come ha fatto Lucia Annunziata con Gianluca Iannone).
Nordine Amrani aveva invece attirato le attenzioni della polizia belga già negli scorsi mesi, quando nella sua abitazione vennero reperite qualcosa come 30.000 (circa) piantine di marijuana oltre a un considerevole arsenale bellico che fu immediatamente posto sotto sequestro.
Appare quindi quantomeno strano che egli abbia potuto tranquillamente riacquistare pistole, fucili, bombe a mano e Kalashnikov per rimettere insieme un arsenale nuovo di zecca che gli ha permesso, tra le altre cose, di uccidere una donna e occultarne il cadavere prima di compiere la strage.
Una “disattenzione” delle forze dell’ordine belghe che ricorda, fatte le debite proporzioni, quella dei loro colleghi italiani che “dimenticarono” di perquisire il covo in cui si nascondeva Salvatore Riina, offendo agli ex sottoposti del corleonese l’immancabile occasione di ripulire tutte le stanze e di riverniciarne addrittura le pareti.
Ad ogni modo Amrani è – al contrario di Breivik e Casseri – un immigrato che ha compiuto una strage di nativi belgi, il che rovescia il rapporto carnefici-vittime ma conferisce al nodo gordiano del razzismo il definitivo ruolo di trait d’union tra le stragi in questione.
Va chiarito, beninteso, che è perfettamente plausibile che non esista alcuna connessione tra le stragi e che la crisi economica e sociale che sta devastando l’Europa abbia esasperato i sentimenti di questi squilibrati armando le loro pericolose mani, ma questa è una lettura assai accomodante che, soprattutto, non costituisce un argomento valido per scartare tesi alternative.
Non è la prima volta, infatti, che l’Europa, e l’Italia in particolare, sono teatro di stragi ed eccidi di massa, che a loro volta non rispondevano ad alcun delirio individuale del pazzo di turno, ma rientravano in una specifica e ben definita strategia politica volta a consolidare i rapporti di forza internazionali.
L’obiettivo finale della cosiddetta “strategia della tensione” – che in Italia si dispiegò attraverso gli attentati di Piazza Fontana del 1969, di Peteano nel 1972, della questura di Milano nel 1973, di Piazza della Loggia e del treno Italicus nel 1974, della stazione di Bologna nel 1980, oltre a quello di Portella della Ginestra nel 1947 che tuttavia viene generalmente (ma non correttamente) considerato come un caso a sé stante – fu correttamente indicato da un terrorista di primo piano come Vincenzo Vinciguerra, il quale affermò che: “Si dovevano uccidere civili, donne, bambini, innocenti, gente sconosciuta, lontana da ogni gioco politico. Il motivo era molto semplice. Si supponeva che questo avrebbe costretto il popolo, l’opinione pubblica italiana, a rivolgersi allo Stato chiedendo più sicurezza. Questa è la logica politica che sta dietro tutte le stragi e le bombe impunite, dato che lo Stato non può dichiararsi colpevole o responsabile di quanto accaduto”.
E se un’autorità del calibro del Generale Gianadelio Maletti giunse al punto di arricchire il quadro dipinto da Vinciguerra sottolineando che “La CIA, seguendo le direttive del suo governo, intendeva suscitare un nazionalismo italiano in grado di fermare quello che veniva visto come un progressivo slittamento del paese a sinistra e a questo scopo può aver fatto uso del terrorismo di destra”, invitando a non sottovalutare il fatto che “Il Presidente [degli Stati Uniti] era Nixon e che Nixon era un uomo molto strano, un politico molto intelligente ma anche un uomo dalle iniziative poco ortodosse”, emerge con sufficiente chiarezza quali interessi si celassero dietro la spinta destabilizzante che non coinvolse soltanto l’Italia, ma anche paesi come la Germania (strage dell’Oktoberfest del 1980) e il Belgio (serie di misteriosi assalti di natura militare operati da sconosciuti esecutori – che produssero efferate stragi nel Brabante entro l’arco temporale che si estende tra il 1982 e il 1985 – condotti attraverso tattiche che somigliano al modus operandi impiegato da Breivik, Casseri e Amrani).
Non fu soltanto il terrorismo di destra, tuttavia, a fungere da braccio armato dei progetti eversivi orchestrati in ambiti ben differenti e assai più influenti rispetto a quello eminentemente italiano, poiché dall’analisi dell’evoluzione della strategia criminale impiegata dalle Brigate Rosse emergono una serie piuttosto eloquente di connessioni con apparati clandestini annidati nella famigerata scuola di lingue Hyperion di Parigi, che si occupava di infiltrare e cooptare i gruppi terroristici europei schierati a sinistra – come appunto le Brigate Rosse o la Rote Armee Fraktion – per conto, molto probabilmente, dei servizi segreti statunitensi ed israeliani.
Il sequestro e il successivo assassinio del democristiano Aldo Moro, che si accingeva ad assegnare incarichi di governo ai più autorevoli esponenti del Partito Comunista, da parte di Mario Moretti, che manteneva stretti legami con il centro Hyperion assume quindi contorni ben precisi alla luce di questi fattori.
Per le Brigate Rosse e per i loro esponenti di punta vale dunque il medesimo concetto indicato da Franco Freda, il quale affermò che “La vita di ognuno risulta manipolata risulta manipolata da coloro che hanno più potere. Per quanto mi riguarda accetto di essere stato un pupazzo nelle mani delle idee, non degli uomini dei servizi segreti italiani o stranieri. Intendo dire di aver combattuto volontariamente la mia guerra, inseguendo un progetto strategico che nasceva dalle mie idee”.
La pur edulcorata ed eufemistica versione resa dal più eminente rappresentante di Ordine Nuovo contiene comunque al proprio interno tutte le coordinate necessarie a spiegare il fenomeno del terrorismo, in cui alcuni gruppi volontari fungono da manovalanza per conto, direttamente o meno, dei grandi organi internazionali i cui interessi coincidevano, nel caso specifico, con la destabilizzazione sociale dell’Europa finalizzata alla sua stabilizzazione politica sotto l’ombrello dell’atlantismo.
L’emersione di un apparato come Gladio costituisce la dimostrazione più evidente di questa equazione, la cui validità era ben nota ad un esponente politico assai navigato come Benazir Bhutto, che nel corso di un’intervista televisiva per la BBC concessa nel 2007 a David Frost non solo aveva candidamente ammesso che Osama Bin Laden era stato ucciso da Omar Sheikh – un personaggio piuttosto oscuro che manteneva alcune connessioni con i fatti dell’11 settembre 2001 – ma aveva pronunciato un discorso che lasciava trapelare una non comune conoscenza dei legami che intercorrono tra i committenti del terrorismo e gli esecutori materiali.
Dinnanzi a simili attentati terroristici è quindi doveroso esaminare il cui prodest, e non è certo un segreto che esistano apparati specifici interessati, come nel corso dei cosiddetti “anni di piombo”, a destabilizzare l’Europa.
Va pertanto annoverata la possibilità che esista una regia, ovvero che la drammatica catena di attentati in Norvegia, Italia e Belgio rientri in un disegno strategico funzionale al conseguimento di obiettivi precisi, che nel caso specifico riguarderebbe l’innalzamento della tensione tra immigrati e popolazione autoctona.
di Giacomo Gabellini
di Giacomo Gabellini
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