09 aprile 2008
La Grande moderazione e la disinflazione
Nell’ultimo quarto di secolo, le autorità finanziarie hanno creduto di aver scoperto il segreto per attenuare i cicli economici: e difatti i periodi di espansione sono diventati più lunghi, quelli di recessione più brevi e meno acuti, e l’inflazione è caduta. Come hanno fatto?
L’economista Thomas Palley dà una risposta rivelatrice: i banchieri centrali si sono accordati nel praticare quella che è stata definita «la Grande Moderazione». Per lo più economisti cattedratici, i banchieri centrali hanno adottato le teorie economiche su cui esiste il massimo «consensus», e le hanno imposte, silenziosamente, ai popoli.
Una di queste teorie ufficiali è quella formulata dal polacco Mihael Kalecki: quando una società ragggiunge il pieno impiego della sua forza-lavoro, l’inflazione aumenta perché i lavoratori diventano una «risorsa scarsa». Sicuri della stabilità dell’impiego, essi reclamano ed ottengono salari più alti. Difatti, secondo il «consensus» degli economisti, proprio questo era avvenuto negli anni 1960-70, in cui l’Occidente aveva conosciuto la «stagflation», ossia stagnazione con inflazione, a causa del pieno impiego.
In realtà, dice Palley, questa era l’interpretazione che faceva comodo ai detentori di capitale finanziario: ma si sa, sono i vincitori che scrivono la storia, e i capitalisti-speculatori sono i vincitori del secolo. Sicchè i banchieri centrali, coi loro testi alla mano, trovarono la soluzione.
Molto semplice: basta evitare di raggiungere il pieno impiego. Anziché cercare di risolvere il problema - che è politico-sociale - dell’occupazione, i banchieri centrali si concentrarono sulla «stabilità della moneta», ossia si diedero come scopo istituzionale unico la riduzione dell’inflazione. Di fatto, guidarono le politiche sociali dei politici con «suggerimenti» antisociali.
Ricordate Ciampi? Ascoltate Draghi (o Trichet) che ancora raccomandano «moderazione salariale»? negli anni della «Grande Moderazione», non a caso, è stata promossa la tacitazione delle rivendicazioni salariali. I sindacati sono stati stroncati, oppure sono stati asserviti (come in Italia) alla politica di «moderazione». Sono emersi leader politici «di sinistra» come Tony Blair, fautori del liberismo senza regole, di fatto reaganiani.
In altri Paesi (indovinate quali) i comunisti andarono al governo dopo aver gettato alle ortiche il marxismo, e adottato la «moderalzione» liberista. Con ciò, l’inflazione è effettivamente cresciuta meno (false statistiche aiutando), ma al prezzo di un quarto di secolo di stagnazione delle paghe e, soprattutto, della rottura del rapporto fra salari e crescita di produttività.
I lavoratori (specie in USA, ma anche in Germania) diventavano sempre più produttivi, ma guadagnando sempre meno in termini reali. La «Grande Moderazione» era intesa come moderazione solo dei salari, non dei profitti. Di fatto, tutto si è tradotto in un esproprio al lavoro per retribuire di più il capitale.
Ecco com’è oggi la situazione, secondo le statistiche ufficiali dell’Ufficio del Bilancio del congresso USA: tra il 1979 e il 2005 il reddito delle famiglie più povere è cresciuto dell’1,3%, quello del ceto medio dell’1% l’anno. Mentre quello dell’1% delle famiglie più ricche, il vertice estremo della scala sociale, è cresciuto nello stesso periodo del 200% l’anno. Anzi, questo è il loro reddito prima delle tasse; «dopo» le tasse, il reddito dell’ultimo vertice dei ricchi è cresciuto del… 228 %. Grazie ai tagli fiscali di Bush, i ricchissimi, dopo la tassazione, sono diventati ancora più ricchi.
Infatti, se nel 1979 gli introiti dell’1% dei più ricchi dopo le tasse era 8 volte superiore a quello dei ceti medi, oggi è 21 volte superiore. Nel 2002-2006 (presidenza Bush) l’1% dei super-ricchi ha intercettato i tre quarti della crescita del reddito nazionale, lasciandone solo un quarto al 99% della popolazione sottostante.
In America, il reddito medio, pagate le tasse, ammonta a 15 mila dollari annui per le famiglie del 20% più povero della popolazione, sale a 50.200 dollari annui per i ceti medi, e ammonta a 1 milione di dollari annui per l’1% che sta al vertice.
La stessa ineguaglianza crescente s’è verificata in tutti i Paesi sviluppati, dalla Spagna al Giappone. Ciò vale anche per l’Italia, con la sola differenza che da noi i percettori di redditi altissimi a danno del resto del Paese non sono tanto i capitalisti, ma soprattutto la Casta, ossia le alte burocrazie pubbliche inadempienti e i mestieranti della politica.
Difatti, basta tradurre da dollaro ad euro i dati sopra citati per gli americani, e si vede: lo strato più povero ha un reddito sui 10 mila euro annui, il ceto medio sui 30 mila se va bene, e Ciampi - il banchiere centrale, il capo di governo, il senatore a vita e Venerato Maestro percettore di tre redditi cumulati - 780 mila euro annui.
Pazienza - dicono i privilegiati che non devono campare con 10 mila euro l’anno: se questa crescente disparità ha portato alla riduzione degli alti e bassi del ciclo economico, se è il segreto per ampi periodi di crescita, recessioni brevissime e inflazione quasi a zero, il prezzo vale la pena di essere pagato.
Invece no, replica Palley: proprio la «Grande Moderazione» (dei salari) è la causa della rovina finanziaria attuale. Perché? Perché, come previsto dalla teoria Kaleski, il blocco ventennale dei salari ha prodotto disinflazione. E la disinflazione ha causato l’abbassamento dei tassi d’interesse, specie nei periodi di rallentamento della crescita.
In USA, i bassi tassi hanno incoraggiato chi aveva acceso un mutuo a rifinanziarlo più e più volte, tanto più che il valore della casa ipotecata aumentava: di fatto gli americani compensarono i loro bassi salari estaendo «valore» dalla loro casa, da spendere in consumi. Le «innovazioni» della finanza creativa hanno ulteriormente facilitato laccesso al credito e ne hanno aumentato i volumi. Per questo le recessioni sono state brevi e poco profonde (i salari bassi erano compensati da denaro presto a prestito con ipoteca) e le espansioni più lunghe, perché il rincaro dei beni immobiliari e delle azioni ha consentito un aumento di spesa attraverso l’indebitamento.
L’espansione ultima, causa ed effetto della bolla immobiliare, è durata ben otto anni. Il fatto è che se uno, con magro stipendio, fa la bella vita ipotecando la casa per consumi che non può permettersi, l’economia che ne risulta non può durare all’infinito. Adesso è finita.
Della «Grande Moderazione», dovuta a disinflazione, aumento degli immobili, crescita dell’indebitamento dei consumatori - tutti fattori transitori - è rimasto solo l’elemento scatenato dai banchieri centrali: la «Grande moderazione» salariale e l’abbandono di politiche del pieno impiego.
La disinflazione è bruciata dai rincari di petrolio, cibo e materie prime, che si riflettono sui prezzi al consumo; il rincaro degli immobili si è rovesciato in caduta dei prezzi; l’indebitamento dei consumatori ha raggiunto il limite, dopo il quale nemmeno i più fanatici speculatori concedono più un’altra carta di credito o un altro mutuo a gente poco solvibile. I poveri sono più poveri, i lavoratori si accorgono di essere arretrati in potere d’acquisto, la recessione appena cominciata sarà lunga e molto acuta: fallimento della «Grande Moderazione» e dei banchieri centrali.
Oggi, cresce la rabbia degli sfavoriti dall’espansione. In USA, i banchieri che si sono pagati bonus favolosi negli anni buoni, ed ora negli anni cattivi si stanno facendo salvare dalla Federal Reserve (ossia dalle tasse dei cittadini infinitamente più poveri di loro) stanno attraendo umori vendicativi di massa.
Annusata l’aria che tira e presentito il cambiamento, in Francia Sarkozy minaccia di tassare le stock-option, le opzioni azionarie con cui i grandi manager si fanno pagare in parte dai consigli d’amministrazione, perché in esenzione fiscale. In Germania la Merkel, prima della classe del liberismo selvaggio, ha minacciato di imporre salari minimi in certi settori, se gli industriali di quei settori si chiamano fuori dai contratti collettivi e se ribassano le paghe.
Persino il Financial Times (2) ammette che adesso è ora di «moderare» gli eccessi degli emolumenti dei favoriti, speculatori, banchieri e manager, e parla della necessità di «redistribuzione» più equa delle ricchezze prodotte, per scongiurare la rivolta politico-sociale.
E in Italia? Il discorso vale da noi più che altrove, visto che abbiamo i salari più bassi d’Europa, e la burocrazia strapagata e la classe che vive «di» politica più numerose, corrotte e inefficienti del mondo. Una redistribuzione dovrebbe scremare da quei redditi e da quegli emolumenti, come nelle parti del mondo più serie si pone il problema di succhiare più introito fiscale dai profitti aziendali o bancari.
Ma qui è il difficile, ed anche l’occasione di una furbata in malafede di nuovo tipo: ora le sinistre della Casta (perché la Casta è essenzialmente di sinistra, non foss’altro perché non riceve i suoi grassi redditi nel settore privato, sotto concorrenza) tireranno fuori dalle ortiche il marxismo, ed esigeranno una tassazione più progressiva. Il che non risolve niente, anzi aggrava il problema.
Per il fatto che la tassazione diretta sui redditi è concepita fin dal principio per «alleggerire» il lavoro dipendente, e non i redditi di natura diversa; sicchè l’aumento di progressività colpirà più duramente il ceto medio-superiore, i medi dirigenti, i quadri, ma non i padroni né i banchieri.
Non c’è, o almeno non è stato trovato, un metodo per colpire con progressività i redditi da capitale, i dividendi, e ancor meno i guadagni speculativi, senza con ciò aggravare di costi eccessivi le imprese; in ogni caso, è impossibile tassare redditi di ditte che hanno la finanziaria di famiglia in Lussemburgo.
Quanto alla tassazione della Casta, è un sogno proibito e una terra incognita. Per fare un esempio, l’ex ministro Gasparri, che da ministro ha fatto accordi sulle telecomunicazioni con Israele, risulta direttore «non esecutivo» della Telit, ditta israeliana molto vicina al Mossad: non chiediamoci per quali motivi di gratitudine, basta che ci chiediamo: è tassabile quell’emolumento estero, che si aggiunge agli altri datigli dal «mestiere politico» in Italia?
E’ appunto solo un esempio: quanti ministri risiedono in consigli d’amministrazione per grazia ricevuta e favori fatti? O quante mazzette estero-su-estero finiscono nelle tasse di coloro che chiamiamo «governanti» quando vanno a Mosca a firmare un contrarro Eni-Gazprom, o - nel caso di semplici assessori regionali - come compenso per aver dato l’appalto delle lavanderie ospedaliere ad una certa azienda?
Su quei redditi, il modulo 740 non può nulla. La Casta è, per definizione, esente.
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La Grande moderazione e la disinflazione
Nell’ultimo quarto di secolo, le autorità finanziarie hanno creduto di aver scoperto il segreto per attenuare i cicli economici: e difatti i periodi di espansione sono diventati più lunghi, quelli di recessione più brevi e meno acuti, e l’inflazione è caduta. Come hanno fatto?
L’economista Thomas Palley dà una risposta rivelatrice: i banchieri centrali si sono accordati nel praticare quella che è stata definita «la Grande Moderazione». Per lo più economisti cattedratici, i banchieri centrali hanno adottato le teorie economiche su cui esiste il massimo «consensus», e le hanno imposte, silenziosamente, ai popoli.
Una di queste teorie ufficiali è quella formulata dal polacco Mihael Kalecki: quando una società ragggiunge il pieno impiego della sua forza-lavoro, l’inflazione aumenta perché i lavoratori diventano una «risorsa scarsa». Sicuri della stabilità dell’impiego, essi reclamano ed ottengono salari più alti. Difatti, secondo il «consensus» degli economisti, proprio questo era avvenuto negli anni 1960-70, in cui l’Occidente aveva conosciuto la «stagflation», ossia stagnazione con inflazione, a causa del pieno impiego.
In realtà, dice Palley, questa era l’interpretazione che faceva comodo ai detentori di capitale finanziario: ma si sa, sono i vincitori che scrivono la storia, e i capitalisti-speculatori sono i vincitori del secolo. Sicchè i banchieri centrali, coi loro testi alla mano, trovarono la soluzione.
Molto semplice: basta evitare di raggiungere il pieno impiego. Anziché cercare di risolvere il problema - che è politico-sociale - dell’occupazione, i banchieri centrali si concentrarono sulla «stabilità della moneta», ossia si diedero come scopo istituzionale unico la riduzione dell’inflazione. Di fatto, guidarono le politiche sociali dei politici con «suggerimenti» antisociali.
Ricordate Ciampi? Ascoltate Draghi (o Trichet) che ancora raccomandano «moderazione salariale»? negli anni della «Grande Moderazione», non a caso, è stata promossa la tacitazione delle rivendicazioni salariali. I sindacati sono stati stroncati, oppure sono stati asserviti (come in Italia) alla politica di «moderazione». Sono emersi leader politici «di sinistra» come Tony Blair, fautori del liberismo senza regole, di fatto reaganiani.
In altri Paesi (indovinate quali) i comunisti andarono al governo dopo aver gettato alle ortiche il marxismo, e adottato la «moderalzione» liberista. Con ciò, l’inflazione è effettivamente cresciuta meno (false statistiche aiutando), ma al prezzo di un quarto di secolo di stagnazione delle paghe e, soprattutto, della rottura del rapporto fra salari e crescita di produttività.
I lavoratori (specie in USA, ma anche in Germania) diventavano sempre più produttivi, ma guadagnando sempre meno in termini reali. La «Grande Moderazione» era intesa come moderazione solo dei salari, non dei profitti. Di fatto, tutto si è tradotto in un esproprio al lavoro per retribuire di più il capitale.
Ecco com’è oggi la situazione, secondo le statistiche ufficiali dell’Ufficio del Bilancio del congresso USA: tra il 1979 e il 2005 il reddito delle famiglie più povere è cresciuto dell’1,3%, quello del ceto medio dell’1% l’anno. Mentre quello dell’1% delle famiglie più ricche, il vertice estremo della scala sociale, è cresciuto nello stesso periodo del 200% l’anno. Anzi, questo è il loro reddito prima delle tasse; «dopo» le tasse, il reddito dell’ultimo vertice dei ricchi è cresciuto del… 228 %. Grazie ai tagli fiscali di Bush, i ricchissimi, dopo la tassazione, sono diventati ancora più ricchi.
Infatti, se nel 1979 gli introiti dell’1% dei più ricchi dopo le tasse era 8 volte superiore a quello dei ceti medi, oggi è 21 volte superiore. Nel 2002-2006 (presidenza Bush) l’1% dei super-ricchi ha intercettato i tre quarti della crescita del reddito nazionale, lasciandone solo un quarto al 99% della popolazione sottostante.
In America, il reddito medio, pagate le tasse, ammonta a 15 mila dollari annui per le famiglie del 20% più povero della popolazione, sale a 50.200 dollari annui per i ceti medi, e ammonta a 1 milione di dollari annui per l’1% che sta al vertice.
La stessa ineguaglianza crescente s’è verificata in tutti i Paesi sviluppati, dalla Spagna al Giappone. Ciò vale anche per l’Italia, con la sola differenza che da noi i percettori di redditi altissimi a danno del resto del Paese non sono tanto i capitalisti, ma soprattutto la Casta, ossia le alte burocrazie pubbliche inadempienti e i mestieranti della politica.
Difatti, basta tradurre da dollaro ad euro i dati sopra citati per gli americani, e si vede: lo strato più povero ha un reddito sui 10 mila euro annui, il ceto medio sui 30 mila se va bene, e Ciampi - il banchiere centrale, il capo di governo, il senatore a vita e Venerato Maestro percettore di tre redditi cumulati - 780 mila euro annui.
Pazienza - dicono i privilegiati che non devono campare con 10 mila euro l’anno: se questa crescente disparità ha portato alla riduzione degli alti e bassi del ciclo economico, se è il segreto per ampi periodi di crescita, recessioni brevissime e inflazione quasi a zero, il prezzo vale la pena di essere pagato.
Invece no, replica Palley: proprio la «Grande Moderazione» (dei salari) è la causa della rovina finanziaria attuale. Perché? Perché, come previsto dalla teoria Kaleski, il blocco ventennale dei salari ha prodotto disinflazione. E la disinflazione ha causato l’abbassamento dei tassi d’interesse, specie nei periodi di rallentamento della crescita.
In USA, i bassi tassi hanno incoraggiato chi aveva acceso un mutuo a rifinanziarlo più e più volte, tanto più che il valore della casa ipotecata aumentava: di fatto gli americani compensarono i loro bassi salari estaendo «valore» dalla loro casa, da spendere in consumi. Le «innovazioni» della finanza creativa hanno ulteriormente facilitato laccesso al credito e ne hanno aumentato i volumi. Per questo le recessioni sono state brevi e poco profonde (i salari bassi erano compensati da denaro presto a prestito con ipoteca) e le espansioni più lunghe, perché il rincaro dei beni immobiliari e delle azioni ha consentito un aumento di spesa attraverso l’indebitamento.
L’espansione ultima, causa ed effetto della bolla immobiliare, è durata ben otto anni. Il fatto è che se uno, con magro stipendio, fa la bella vita ipotecando la casa per consumi che non può permettersi, l’economia che ne risulta non può durare all’infinito. Adesso è finita.
Della «Grande Moderazione», dovuta a disinflazione, aumento degli immobili, crescita dell’indebitamento dei consumatori - tutti fattori transitori - è rimasto solo l’elemento scatenato dai banchieri centrali: la «Grande moderazione» salariale e l’abbandono di politiche del pieno impiego.
La disinflazione è bruciata dai rincari di petrolio, cibo e materie prime, che si riflettono sui prezzi al consumo; il rincaro degli immobili si è rovesciato in caduta dei prezzi; l’indebitamento dei consumatori ha raggiunto il limite, dopo il quale nemmeno i più fanatici speculatori concedono più un’altra carta di credito o un altro mutuo a gente poco solvibile. I poveri sono più poveri, i lavoratori si accorgono di essere arretrati in potere d’acquisto, la recessione appena cominciata sarà lunga e molto acuta: fallimento della «Grande Moderazione» e dei banchieri centrali.
Oggi, cresce la rabbia degli sfavoriti dall’espansione. In USA, i banchieri che si sono pagati bonus favolosi negli anni buoni, ed ora negli anni cattivi si stanno facendo salvare dalla Federal Reserve (ossia dalle tasse dei cittadini infinitamente più poveri di loro) stanno attraendo umori vendicativi di massa.
Annusata l’aria che tira e presentito il cambiamento, in Francia Sarkozy minaccia di tassare le stock-option, le opzioni azionarie con cui i grandi manager si fanno pagare in parte dai consigli d’amministrazione, perché in esenzione fiscale. In Germania la Merkel, prima della classe del liberismo selvaggio, ha minacciato di imporre salari minimi in certi settori, se gli industriali di quei settori si chiamano fuori dai contratti collettivi e se ribassano le paghe.
Persino il Financial Times (2) ammette che adesso è ora di «moderare» gli eccessi degli emolumenti dei favoriti, speculatori, banchieri e manager, e parla della necessità di «redistribuzione» più equa delle ricchezze prodotte, per scongiurare la rivolta politico-sociale.
E in Italia? Il discorso vale da noi più che altrove, visto che abbiamo i salari più bassi d’Europa, e la burocrazia strapagata e la classe che vive «di» politica più numerose, corrotte e inefficienti del mondo. Una redistribuzione dovrebbe scremare da quei redditi e da quegli emolumenti, come nelle parti del mondo più serie si pone il problema di succhiare più introito fiscale dai profitti aziendali o bancari.
Ma qui è il difficile, ed anche l’occasione di una furbata in malafede di nuovo tipo: ora le sinistre della Casta (perché la Casta è essenzialmente di sinistra, non foss’altro perché non riceve i suoi grassi redditi nel settore privato, sotto concorrenza) tireranno fuori dalle ortiche il marxismo, ed esigeranno una tassazione più progressiva. Il che non risolve niente, anzi aggrava il problema.
Per il fatto che la tassazione diretta sui redditi è concepita fin dal principio per «alleggerire» il lavoro dipendente, e non i redditi di natura diversa; sicchè l’aumento di progressività colpirà più duramente il ceto medio-superiore, i medi dirigenti, i quadri, ma non i padroni né i banchieri.
Non c’è, o almeno non è stato trovato, un metodo per colpire con progressività i redditi da capitale, i dividendi, e ancor meno i guadagni speculativi, senza con ciò aggravare di costi eccessivi le imprese; in ogni caso, è impossibile tassare redditi di ditte che hanno la finanziaria di famiglia in Lussemburgo.
Quanto alla tassazione della Casta, è un sogno proibito e una terra incognita. Per fare un esempio, l’ex ministro Gasparri, che da ministro ha fatto accordi sulle telecomunicazioni con Israele, risulta direttore «non esecutivo» della Telit, ditta israeliana molto vicina al Mossad: non chiediamoci per quali motivi di gratitudine, basta che ci chiediamo: è tassabile quell’emolumento estero, che si aggiunge agli altri datigli dal «mestiere politico» in Italia?
E’ appunto solo un esempio: quanti ministri risiedono in consigli d’amministrazione per grazia ricevuta e favori fatti? O quante mazzette estero-su-estero finiscono nelle tasse di coloro che chiamiamo «governanti» quando vanno a Mosca a firmare un contrarro Eni-Gazprom, o - nel caso di semplici assessori regionali - come compenso per aver dato l’appalto delle lavanderie ospedaliere ad una certa azienda?
Su quei redditi, il modulo 740 non può nulla. La Casta è, per definizione, esente.
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