04 giugno 2008
Il Pil è un'ideologia per ricchi
Il Pil è fermo. L'Italia non cresce. E' un disastro. Oppure no. Per tutti quelli che credono nella decrescita, misurare la ricchezza di un paese in base al Pil è pura ideologia. La teoria del filosofo francese Serge Latouche è innanzitutto una pratica che in Italia ha prodotto diverse esperienze concrete e che si è tradotta nel Movimento per la decrescita felice e nella Rete per la decrescita, oltre che in mille esperienze, basta pensare ai i gruppi di acquisto e a qualche battuta di Grillo. Ma che significa decrescita, quali pratiche vengono attuate in Italia e in Europa? Non è un'utopia non compatibile con la macroeconmia mondiale? Socialismo e liberismo hanno creduto entrambi nel progresso del mercato, scontrandosi sulla diversa distribuzione della ricchezza ma avendo come comune denominatore la merce, ovvero oggetti e servizi monetizzabili. Adesso che la contraddizione del capitalismo si misura anche con la questione ambientale il mito della crescita infinita in un mondo finito presenta tutti i suoi limiti, e colpisce al cuore non solo il capitalismo ma il centro delle teorie anticapitaliste dividendole tra sviluppiste e anti-sviluppiste, queste ultime spesso accusate di essere velleitarie o territoriali (quelle dei «no», dalla Tav agli inceneritori, quelle che operano nel micro ma non riescono ad avere un respiro globale, o addirittura conservatrici, autarchiche, per un ritorno quasi mistico alla natura). La realtà è più complessa. I teorici della decrescita distinguono merci da beni. Un bene è, per esempio, lo yogurt fatto in casa, ma anche l'abbattimento di spreco energetico. La decrescita non è una teoria anti-mercantile, piuttosto è una critica all'invasività del mercato, tende a ridurre la sfera di influenza delle merci. Produrre e consumare meno significa sfruttare meno materie prime, lavorare meno, produrre meno rifiuti, abbattere i consumi per il trasporto delle merci. I rifiuti, a Napoli e non solo, sono prima di tutto il risultato della crescita. Meno lavoro vuol dire meno incidenti sul lavoro (per i credenti del Pil, anche il lavoro è solo merce). Meno trasporti vuol dire meno smog e meno morti sulle strade. Senza citare le guerre per le materie prime. Anche le armi sono merci e contribuiscono al Pil. Il Pil misura la quantità di ricchezza totale senza calcolare la sua distribuzione, ma soprattutto non calcola ciò che non si vende. Per questo sono stati studiati altri indici, il Bil (Benessere interno lordo), oppurre il Quars (Qualità regionale di sviluppo) persino il fantasioso Fil (indice di Felicità interna lorda). «Il difetto di questi indici - è dubbioso Maurizio Pallante, presidente del Movimento della decrescita felice - è che affiancano il Pil ma non lo superano e che i parametri qualitativi che tentano di misurare restano soggettivi». La bestemmia della decrescita pretende di partire dal basso e di agire per gradi senza contrapposizione frontale con il sistema capitalista. «Bisogna agire su tre livelli - spiega Pallante - gli stili di vita, la tecnologica non per aumentare la produttività ma per ridurre rifiuti e energia, e la politica. Per esempio, se un comune delibera che le case devono essere coibentate, si spreca meno per il riscaldamento; in Alto Adige bastano 7 litri di gas per metro quadro all'anno contro i 20 litri della media nazionale. In Francia la decrescita ha prodotto un ricco dibattito teorico, in Italia tendiamo a metterla in pratica e sono in atto molti progetti». Ma è praticabile anche al di là di microesperienze? Problema: meno produzione e consumo significa meno posti di lavoro. «Non sempre, per coibentare le case si lavora». Ma si può sperare nella decrescita senza fare la rivoluzione? «E' chiaro che un petroliere sarà contro, ma un imprenditore che opera con energie alternative a favore». Eppure se il mercato si riduce qualcuno dovrà pur pagarne le conseguenze. Le rendite, i ricchi. Mica semplice.
Giorgio Salvetti
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04 giugno 2008
Il Pil è un'ideologia per ricchi
Il Pil è fermo. L'Italia non cresce. E' un disastro. Oppure no. Per tutti quelli che credono nella decrescita, misurare la ricchezza di un paese in base al Pil è pura ideologia. La teoria del filosofo francese Serge Latouche è innanzitutto una pratica che in Italia ha prodotto diverse esperienze concrete e che si è tradotta nel Movimento per la decrescita felice e nella Rete per la decrescita, oltre che in mille esperienze, basta pensare ai i gruppi di acquisto e a qualche battuta di Grillo. Ma che significa decrescita, quali pratiche vengono attuate in Italia e in Europa? Non è un'utopia non compatibile con la macroeconmia mondiale? Socialismo e liberismo hanno creduto entrambi nel progresso del mercato, scontrandosi sulla diversa distribuzione della ricchezza ma avendo come comune denominatore la merce, ovvero oggetti e servizi monetizzabili. Adesso che la contraddizione del capitalismo si misura anche con la questione ambientale il mito della crescita infinita in un mondo finito presenta tutti i suoi limiti, e colpisce al cuore non solo il capitalismo ma il centro delle teorie anticapitaliste dividendole tra sviluppiste e anti-sviluppiste, queste ultime spesso accusate di essere velleitarie o territoriali (quelle dei «no», dalla Tav agli inceneritori, quelle che operano nel micro ma non riescono ad avere un respiro globale, o addirittura conservatrici, autarchiche, per un ritorno quasi mistico alla natura). La realtà è più complessa. I teorici della decrescita distinguono merci da beni. Un bene è, per esempio, lo yogurt fatto in casa, ma anche l'abbattimento di spreco energetico. La decrescita non è una teoria anti-mercantile, piuttosto è una critica all'invasività del mercato, tende a ridurre la sfera di influenza delle merci. Produrre e consumare meno significa sfruttare meno materie prime, lavorare meno, produrre meno rifiuti, abbattere i consumi per il trasporto delle merci. I rifiuti, a Napoli e non solo, sono prima di tutto il risultato della crescita. Meno lavoro vuol dire meno incidenti sul lavoro (per i credenti del Pil, anche il lavoro è solo merce). Meno trasporti vuol dire meno smog e meno morti sulle strade. Senza citare le guerre per le materie prime. Anche le armi sono merci e contribuiscono al Pil. Il Pil misura la quantità di ricchezza totale senza calcolare la sua distribuzione, ma soprattutto non calcola ciò che non si vende. Per questo sono stati studiati altri indici, il Bil (Benessere interno lordo), oppurre il Quars (Qualità regionale di sviluppo) persino il fantasioso Fil (indice di Felicità interna lorda). «Il difetto di questi indici - è dubbioso Maurizio Pallante, presidente del Movimento della decrescita felice - è che affiancano il Pil ma non lo superano e che i parametri qualitativi che tentano di misurare restano soggettivi». La bestemmia della decrescita pretende di partire dal basso e di agire per gradi senza contrapposizione frontale con il sistema capitalista. «Bisogna agire su tre livelli - spiega Pallante - gli stili di vita, la tecnologica non per aumentare la produttività ma per ridurre rifiuti e energia, e la politica. Per esempio, se un comune delibera che le case devono essere coibentate, si spreca meno per il riscaldamento; in Alto Adige bastano 7 litri di gas per metro quadro all'anno contro i 20 litri della media nazionale. In Francia la decrescita ha prodotto un ricco dibattito teorico, in Italia tendiamo a metterla in pratica e sono in atto molti progetti». Ma è praticabile anche al di là di microesperienze? Problema: meno produzione e consumo significa meno posti di lavoro. «Non sempre, per coibentare le case si lavora». Ma si può sperare nella decrescita senza fare la rivoluzione? «E' chiaro che un petroliere sarà contro, ma un imprenditore che opera con energie alternative a favore». Eppure se il mercato si riduce qualcuno dovrà pur pagarne le conseguenze. Le rendite, i ricchi. Mica semplice.
Giorgio Salvetti
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