Arrivederci all’Olocene
La crudele competizione in corso tra i mercati dell’energia e del cibo, amplificata dalla speculazione internazionale in beni e terre agricole, è solo un modesto presagio del caos che potrebbe presto crescere esponenzialmente dalla convergenza tra consumo delle risorse, ostinata disuguaglianza e cambiamento climatico
Il nostro mondo, il nostro vecchio mondo, quello che abbiamo abitato per 12 mila anni, è giunto al termine, anche se nessun giornale nordamericano o europeo ha già provveduto a pubblicare l’epitaffio scientifico.
Lo scorso febbraio, mentre le gru sollevavano i rivestimenti protettivi fino al 141esimo piano del grattacielo Burj Dubai (che presto sarà alto il doppio dell’Empire State Building), la Commissione Stratigrafica della Geological Society di Londra stava aggiungendo la storia più alta e più nuova alla colonna geologica.
La Geological Society di Londra è la più antica associazione di scienziati della Terra, fondata nel 1807, e la sua Commissione giudica con un collegio di massimi esponenti in merito all’aggiudicazione della datazione geologica. Gli stratigrafi fanno a fette la storia della Terra, preservata in strati sedimentari, dividendola in gerarchie di eoni, ere, periodi ed epoche identificati dalle “spighe d’oro” delle estinzioni di massa, degli eventi relativi alle evoluzioni di specie biologiche e dei cambiamenti improvvisi della chimica atmosferica.
In geologia, come in biologia o in storia, la periodizzazione è un’arte complessa e controversa, e la battaglia più amara della scienza britannica del 19esimo secolo –ancora conosciuta come la “Grande Controversia Devoniana” – fu combattuta su interpretazioni divergenti circa le familiari Graywackes del Galles e l’inglese Old Red Sandstone [1]. Nonostante l’idea di “Antropocene” – un’epoca della terra definita dalla nascita della società urbana-industriale come forza geologica – sia stata a lungo dibattuta, gli stratigrafi si sono rifiutati di riconoscere prove fondamentali per stabilire il suo avvento. Alla domanda “Stiamo vivendo adesso nell’Antropocene? ”, i ventuno membri della Commissione hanno risposto all’unanimità “sì”. Oltre all’aumento dell’effetto serra, gli stratigrafi menzionano la trasformazione del paesaggio umano che “ora supera in ordine di grandezza la naturale produzione sedimentaria [annua] “, la pericolosa acidificazione degli oceani e l’inarrestabile distruzione del biota.
Questa nuova era, spiegano, è definita sia dai trend del riscaldamento del pianeta (che trova un precedente forse nella catastrofe conosciuta come il Massimo Termale Paleocene Eocene, 56 milioni di anni fa) e dalla previsione di instabilità radicale dei futuri habitat.
2. Decarbonizzazione Spontanea?
La coronazione dell’Antropocene fatta dalla Commissione coincide con crescenti controversie scientifiche sul 4th Assessment Report [2] rilasciato lo scorso anno dalla Commissione Intergovernativa sui Cambiamenti Climatici (IPCC).
I parametri attuali sono stati adottati dall’IPCC nel 2000 per modellare le future emissioni complessive basandosi su diverse “trame” riguardanti la crescita della popolazione e lo sviluppo tecnologico ed economico. Alcuni degli scenari principali della Commissione sono ben noti ai policymakers e agli attivisti ambientalisti, ma pochi al di fuori della comunità dei ricercatori ne hanno realmente letto o compreso i dettagli, in particolare la fiducia che l’IPCC ripone nel fatto che una maggiore efficienza energetica sarà una conseguenza “automatica” dello sviluppo economico futuro. In effetti tutti gli scenari, anche le varianti del “business secondo i canali tradizionali”, assumono che almeno il 60 per cento delle future riduzioni di carbonio avranno luogo a prescindere dalle misure contenitive dell’effetto serra. (L’ International Energy Agency ha recentemente stimato che costerebbe 45 miliardi di dollari dimezzare le emissioni di gas serra entro il 2050.) Gli accordi tipo Kyoto e i mercati del carbonio sono disegnati – quasi in analogia con la teoria Keynesiana del pump-priming [3]– per colmare le deficienze tra la decarbonizzazione spontanea e i target di emissioni che ciascun parametro richiede. Nello stesso modo, ci sono state poche prove negli ultimi anni dell’automatico progresso nell’efficienza energetica, che rappresenta una condicio sine qua non dei parametri dell’IPCC. Nel frattempo, si prevede che il consumo complessivo dei combustibili fossili aumenterà del 55% nel corso della prossima generazione, con le esportazioni internazionali di petrolio che raddoppieranno di volume.
Il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, che ha compiuto in proprio degli studi sugli obiettivi dell’energia sostenibile, mette in guardia dal fatto che sarà necessaria “una riduzione del 50% delle emissioni di gas serra in tutto il mondo entro il 2050 contro i livelli del 1990” per mantenere l’umanità fuori dalla zona del riscaldamento incontrollato (normalmente definito come maggiore dell’aumento di due gradi centigradi in questo secolo). Nonostante il rincaro dell’energia stia portando all’estinzione dei SUV e stia attirando più capitali nell’orbita delle energie rinnovabili, esso sta altresì aprendo il vaso di Pandora della più cruda produzione di petrolio dalle terre canadesi ricche di catrame e del petrolio pesante venezuelano. Come ha ammonito uno scienziato inglese, l’ultima cosa che dovremmo desiderare (sotto il falso slogan dell’”indipendenza energetica”) è la nuova frontiera della produzione di idrocarburi che sollecita “l’abilità umana nell’accelerare il riscaldamento globale” e rallenta la transizione verso “cicli energetici senza carbonio o chiusi al carbonio”.
3. Il Boom della Fine del Mondo
Che fiducia dovremmo riporre nella capacità dei mercati di riallocare gli investimenti dalle vecchie alle nuove energie o, per esempio, dalle spese per le armi ad un’agricoltura sostenibile? Siamo vittime di pubblicità incessanti (soprattutto nella TV di stato) che ci mostrano come compagnie enormi quali Chevron, Pfizer Inc. ed Archer Daniels Midland stiano lavorando duro per salvare il pianeta reinvestendo i loro profitti in ricerche ed esplorazioni che assicurino combustibili con poco carbonio, nuovi vaccini e colture più resistenti alla sete.
Inoltre ci sono preoccupanti segnali del fatto che le compagnie di energia e di servizi stiano violando le loro promesse circa l’impegno pubblico per lo sviluppo di tecnologie cattura-carbonio ed energie alternative. Il “progetto dimostrativo” dell’amministrazione Bush, FutureGen, è stato cancellato quest’anno dopo che l’industria del carbone si è rifiutata di pagare la sua quota di “partnership” di questo programma pubblico-privato; allo stesso modo, diverse iniziative private americane di estrazione del carbone sono recentemente state cancellate. Anche se non siamo proprio sulla sommità del picco di Hubbert— proprio quel picco del petrolio —indipendentemente dall’esplosione finale della bolla del caro-petrolio, quello di cui probabilmente ci stiamo rendendo testimoni è il più grande trasferimento di ricchezza della storia moderna. Un eminente oracolo di Wall Street, il McKinsey Global Institute, ha previsto che se i prezzi al barile del petrolio grezzo rimangono sopra i 100 dollari al barile – al momento rasentano i 140 – i sei paesi membri del Concilio di Cooperazione del Golfo da soli “collezioneranno un bonus di almeno 9 miliardi di dollari entro il 2020”. Come negli anni ’70, l’Arabia Saudita e i suoi vicini del Golfo, il cui prodotto interno lordo è almeno duplicato negli ultimi tre anni, stanno sguazzando nella liquidità: 2,4 miliardi in banche e fondi d’investimento, secondo una recente stima dell’ Economist. Indipendentemente dall’andamento dei prezzi, l’International Energy Agency prevede che “quantitativi sempre maggiori di petrolio proverranno da sempre meno paesi, soprattutto dai membri centro est dell’OPEC [Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio]." Oggi potrebbero avvicinarsi al miliardo e mezzo, una cifra considerevolmente maggiore al valore complessivo del commercio mondiale di prodotti per l’agricoltura. La maggior parte delle città-stato del Golfo stanno costruendo grattacieli abbaglianti –e, tra di essi, Dubai è la star indiscussa.
Questo super-pompato boom del Golfo, che il celebre architetto Rem Koolhaas dice stia “dando una nuova configurazione al mondo”, ha portato gli sviluppatori di Dubai a proclamare l’avvento di uno “stile di vita ai massimi livelli”, rappresentato da hotel a sette stelle, isole private e yacht J-class. Non sorprende, allora, che gli Emirati Arabi e i loro vicini abbiano il più alto risparmio energetico pro capite del pianeta. Intanto, i legittimi proprietari della ricchezza petrolifera araba, le masse accatastate negli angusti sobborghi di Baghdad, del Cairo, di Amman e di Khartoum, ne ottengono come magra conseguenza la nascita di impieghi nel campo del petrolio e di madrasse sovvenzionate dall’Arabia. Mentre gli ospiti si godono stanze da 5 mila dollari a notte in Burj Al-Arab, il famoso hotel di Dubai a forma di nave, la classe operaia del Cairo si batte per le strade per il prezzo troppo alto del pane.
4. Possono I Mercati Affrancare le Masse?
Gli ottimisti delle emissioni, naturalmente, guarderanno con il sorriso a questi sentimenti pessimistici ed evocheranno l’imminente miracolo del commercio del carbonio. Ciò che essi non tengono in considerazione è la possibilità reale che un esteso mercato di compensazione del carbonio possa emergere, come già pronosticato, producendo tuttavia solo un minimo miglioramento nel bilancio complessivo del carbonio, visto che non ci sono meccanismi per far dare atto a riduzioni nette reali dell’uso dei combustibili fossili.
Nelle discussioni popolari sui sistemi di scambio che ruotano attorno al diritto (delle industrie) alle emissioni inquinanti, è cosa normale confondere le ciminiere per alberi. Ad esempio, la ricca enclave del petrolio di Abu Dhabi (come Dubai, partner degli Emirati) si vanta di aver piantato più di 130 milioni di alberi – ciascuno dei quali adempie al suo dovere assorbendo anidride carbonica dall’atmosfera.
Come ha sottolineato il Programma di Sviluppo della Nazioni Unite nel suo rendiconto dell’anno scorso, il riscaldamento globale è la principale delle minacce per i poveri e i non nati, le “due facce della società con poca o nessuna voce politica”. Un’azione globale coordinata in loro favore presuppone quindi o un’attribuzione di potere rivoluzionaria (uno scenario non considerato dall’IPCC) o la trasmutazione dell’interesse verso se stesse delle nazioni e delle classi ricche in un’illuminata “solidarietà” senza precedenti nella storia. La maggior parte del terzo mondo, comunque, preferirebbe forse che il Primo Mondo riconoscesse la confusione ambientale a cui ha dato vita e si prendesse le responsabilità necessarie per sistemarla.
In uno studio serio recentemente pubblicato su Proceedings of the [US] National Academy of Science, un gruppo di ricerca ha tentato di calcolare i costi ambientali della globalizzazione economica dal 1961 esprimendoli in deforestazione, cambiamento climatico, pesca in eccesso, buco dell’ozono, conversione delle mangrovie ed espansione dell’agricoltura.
I radicali del Sud faranno giustamente notare che esiste un altro debito. Per trent’anni, le città dei paesi in via di sviluppo sono cresciute ad una velocità rapidissima, senza un equivalente investimento pubblico in servizi infrastrutturali, alloggi o sanità pubblica. In gran parte ciò rappresenta il risultato dei debiti esteri contratti dai dittatori, dei pagamenti pretesi dal Fondo Monetario Internazionale e dei settori pubblici portati alla rovina dagli accordi di “modificazione strutturale” della Banca Mondiale.
Uno degli analisti pionieri dell’economia del riscaldamento globale, il professore William R. Cline del Petersen Institute, ha recentemente pubblicato uno studio condotto paese per paese sui probabili effetti del cambiamento climatico sull’agricoltura nelle ultime decadi di questo secolo. Anche nelle simulazioni più ottimistiche, il sistema agricolo del Pakistan (per il quale di prevede una diminuzione del 20 per cento dell’attuale produzione agricola) e l’India nord orientale (riduzione del 30 percento) saranno facilmente distrutti, insieme a gran parte del Medio Oriente, del Maghreb, della cintura di Sahel, della parte più meridionale dell’Africa, dei Carabi e del Messico. Ventinove paesi in via di sviluppo perderanno il 20 percento o più della loro produzione agricola a causa del riscaldamento del pianeta, mentre l’agricoltura nel già prosperoso nord subirà potenzialmente, in media, una spinta dell’8 percento.
Alla luce di questi studi, la crudele competizione in corso tra i mercati dell’energia e del cibo, amplificata dalla speculazione internazionale in beni e terre agricole, è solo un modesto presagio del caos che potrebbe presto crescere esponenzialmente dalla convergenza tra consumo delle risorse, ostinata disuguaglianza e cambiamento climatico. Attualmente sta lavorando ad un libro sulle città, la povertà e il cambiamento globale.
Mike Davis è l’autore di In Praise of Barbarians: Essays against Empire (Haymarket Books, 2008) e di Buda's Wagon: A Brief History of the Car Bomb (Verso, 2007). Attualmente sta lavorando ad un libro sulle città, la povertà e il cambiamento globale.
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18 agosto 2008
ECOLOGIA UMANA
Arrivederci all’Olocene
La crudele competizione in corso tra i mercati dell’energia e del cibo, amplificata dalla speculazione internazionale in beni e terre agricole, è solo un modesto presagio del caos che potrebbe presto crescere esponenzialmente dalla convergenza tra consumo delle risorse, ostinata disuguaglianza e cambiamento climatico
Il nostro mondo, il nostro vecchio mondo, quello che abbiamo abitato per 12 mila anni, è giunto al termine, anche se nessun giornale nordamericano o europeo ha già provveduto a pubblicare l’epitaffio scientifico.
Lo scorso febbraio, mentre le gru sollevavano i rivestimenti protettivi fino al 141esimo piano del grattacielo Burj Dubai (che presto sarà alto il doppio dell’Empire State Building), la Commissione Stratigrafica della Geological Society di Londra stava aggiungendo la storia più alta e più nuova alla colonna geologica.
La Geological Society di Londra è la più antica associazione di scienziati della Terra, fondata nel 1807, e la sua Commissione giudica con un collegio di massimi esponenti in merito all’aggiudicazione della datazione geologica. Gli stratigrafi fanno a fette la storia della Terra, preservata in strati sedimentari, dividendola in gerarchie di eoni, ere, periodi ed epoche identificati dalle “spighe d’oro” delle estinzioni di massa, degli eventi relativi alle evoluzioni di specie biologiche e dei cambiamenti improvvisi della chimica atmosferica.
In geologia, come in biologia o in storia, la periodizzazione è un’arte complessa e controversa, e la battaglia più amara della scienza britannica del 19esimo secolo –ancora conosciuta come la “Grande Controversia Devoniana” – fu combattuta su interpretazioni divergenti circa le familiari Graywackes del Galles e l’inglese Old Red Sandstone [1]. Nonostante l’idea di “Antropocene” – un’epoca della terra definita dalla nascita della società urbana-industriale come forza geologica – sia stata a lungo dibattuta, gli stratigrafi si sono rifiutati di riconoscere prove fondamentali per stabilire il suo avvento. Alla domanda “Stiamo vivendo adesso nell’Antropocene? ”, i ventuno membri della Commissione hanno risposto all’unanimità “sì”. Oltre all’aumento dell’effetto serra, gli stratigrafi menzionano la trasformazione del paesaggio umano che “ora supera in ordine di grandezza la naturale produzione sedimentaria [annua] “, la pericolosa acidificazione degli oceani e l’inarrestabile distruzione del biota.
Questa nuova era, spiegano, è definita sia dai trend del riscaldamento del pianeta (che trova un precedente forse nella catastrofe conosciuta come il Massimo Termale Paleocene Eocene, 56 milioni di anni fa) e dalla previsione di instabilità radicale dei futuri habitat.
2. Decarbonizzazione Spontanea?
La coronazione dell’Antropocene fatta dalla Commissione coincide con crescenti controversie scientifiche sul 4th Assessment Report [2] rilasciato lo scorso anno dalla Commissione Intergovernativa sui Cambiamenti Climatici (IPCC).
I parametri attuali sono stati adottati dall’IPCC nel 2000 per modellare le future emissioni complessive basandosi su diverse “trame” riguardanti la crescita della popolazione e lo sviluppo tecnologico ed economico. Alcuni degli scenari principali della Commissione sono ben noti ai policymakers e agli attivisti ambientalisti, ma pochi al di fuori della comunità dei ricercatori ne hanno realmente letto o compreso i dettagli, in particolare la fiducia che l’IPCC ripone nel fatto che una maggiore efficienza energetica sarà una conseguenza “automatica” dello sviluppo economico futuro. In effetti tutti gli scenari, anche le varianti del “business secondo i canali tradizionali”, assumono che almeno il 60 per cento delle future riduzioni di carbonio avranno luogo a prescindere dalle misure contenitive dell’effetto serra. (L’ International Energy Agency ha recentemente stimato che costerebbe 45 miliardi di dollari dimezzare le emissioni di gas serra entro il 2050.) Gli accordi tipo Kyoto e i mercati del carbonio sono disegnati – quasi in analogia con la teoria Keynesiana del pump-priming [3]– per colmare le deficienze tra la decarbonizzazione spontanea e i target di emissioni che ciascun parametro richiede. Nello stesso modo, ci sono state poche prove negli ultimi anni dell’automatico progresso nell’efficienza energetica, che rappresenta una condicio sine qua non dei parametri dell’IPCC. Nel frattempo, si prevede che il consumo complessivo dei combustibili fossili aumenterà del 55% nel corso della prossima generazione, con le esportazioni internazionali di petrolio che raddoppieranno di volume.
Il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, che ha compiuto in proprio degli studi sugli obiettivi dell’energia sostenibile, mette in guardia dal fatto che sarà necessaria “una riduzione del 50% delle emissioni di gas serra in tutto il mondo entro il 2050 contro i livelli del 1990” per mantenere l’umanità fuori dalla zona del riscaldamento incontrollato (normalmente definito come maggiore dell’aumento di due gradi centigradi in questo secolo). Nonostante il rincaro dell’energia stia portando all’estinzione dei SUV e stia attirando più capitali nell’orbita delle energie rinnovabili, esso sta altresì aprendo il vaso di Pandora della più cruda produzione di petrolio dalle terre canadesi ricche di catrame e del petrolio pesante venezuelano. Come ha ammonito uno scienziato inglese, l’ultima cosa che dovremmo desiderare (sotto il falso slogan dell’”indipendenza energetica”) è la nuova frontiera della produzione di idrocarburi che sollecita “l’abilità umana nell’accelerare il riscaldamento globale” e rallenta la transizione verso “cicli energetici senza carbonio o chiusi al carbonio”.
3. Il Boom della Fine del Mondo
Che fiducia dovremmo riporre nella capacità dei mercati di riallocare gli investimenti dalle vecchie alle nuove energie o, per esempio, dalle spese per le armi ad un’agricoltura sostenibile? Siamo vittime di pubblicità incessanti (soprattutto nella TV di stato) che ci mostrano come compagnie enormi quali Chevron, Pfizer Inc. ed Archer Daniels Midland stiano lavorando duro per salvare il pianeta reinvestendo i loro profitti in ricerche ed esplorazioni che assicurino combustibili con poco carbonio, nuovi vaccini e colture più resistenti alla sete.
Inoltre ci sono preoccupanti segnali del fatto che le compagnie di energia e di servizi stiano violando le loro promesse circa l’impegno pubblico per lo sviluppo di tecnologie cattura-carbonio ed energie alternative. Il “progetto dimostrativo” dell’amministrazione Bush, FutureGen, è stato cancellato quest’anno dopo che l’industria del carbone si è rifiutata di pagare la sua quota di “partnership” di questo programma pubblico-privato; allo stesso modo, diverse iniziative private americane di estrazione del carbone sono recentemente state cancellate. Anche se non siamo proprio sulla sommità del picco di Hubbert— proprio quel picco del petrolio —indipendentemente dall’esplosione finale della bolla del caro-petrolio, quello di cui probabilmente ci stiamo rendendo testimoni è il più grande trasferimento di ricchezza della storia moderna. Un eminente oracolo di Wall Street, il McKinsey Global Institute, ha previsto che se i prezzi al barile del petrolio grezzo rimangono sopra i 100 dollari al barile – al momento rasentano i 140 – i sei paesi membri del Concilio di Cooperazione del Golfo da soli “collezioneranno un bonus di almeno 9 miliardi di dollari entro il 2020”. Come negli anni ’70, l’Arabia Saudita e i suoi vicini del Golfo, il cui prodotto interno lordo è almeno duplicato negli ultimi tre anni, stanno sguazzando nella liquidità: 2,4 miliardi in banche e fondi d’investimento, secondo una recente stima dell’ Economist. Indipendentemente dall’andamento dei prezzi, l’International Energy Agency prevede che “quantitativi sempre maggiori di petrolio proverranno da sempre meno paesi, soprattutto dai membri centro est dell’OPEC [Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio]." Oggi potrebbero avvicinarsi al miliardo e mezzo, una cifra considerevolmente maggiore al valore complessivo del commercio mondiale di prodotti per l’agricoltura. La maggior parte delle città-stato del Golfo stanno costruendo grattacieli abbaglianti –e, tra di essi, Dubai è la star indiscussa.
Questo super-pompato boom del Golfo, che il celebre architetto Rem Koolhaas dice stia “dando una nuova configurazione al mondo”, ha portato gli sviluppatori di Dubai a proclamare l’avvento di uno “stile di vita ai massimi livelli”, rappresentato da hotel a sette stelle, isole private e yacht J-class. Non sorprende, allora, che gli Emirati Arabi e i loro vicini abbiano il più alto risparmio energetico pro capite del pianeta. Intanto, i legittimi proprietari della ricchezza petrolifera araba, le masse accatastate negli angusti sobborghi di Baghdad, del Cairo, di Amman e di Khartoum, ne ottengono come magra conseguenza la nascita di impieghi nel campo del petrolio e di madrasse sovvenzionate dall’Arabia. Mentre gli ospiti si godono stanze da 5 mila dollari a notte in Burj Al-Arab, il famoso hotel di Dubai a forma di nave, la classe operaia del Cairo si batte per le strade per il prezzo troppo alto del pane.
4. Possono I Mercati Affrancare le Masse?
Gli ottimisti delle emissioni, naturalmente, guarderanno con il sorriso a questi sentimenti pessimistici ed evocheranno l’imminente miracolo del commercio del carbonio. Ciò che essi non tengono in considerazione è la possibilità reale che un esteso mercato di compensazione del carbonio possa emergere, come già pronosticato, producendo tuttavia solo un minimo miglioramento nel bilancio complessivo del carbonio, visto che non ci sono meccanismi per far dare atto a riduzioni nette reali dell’uso dei combustibili fossili.
Nelle discussioni popolari sui sistemi di scambio che ruotano attorno al diritto (delle industrie) alle emissioni inquinanti, è cosa normale confondere le ciminiere per alberi. Ad esempio, la ricca enclave del petrolio di Abu Dhabi (come Dubai, partner degli Emirati) si vanta di aver piantato più di 130 milioni di alberi – ciascuno dei quali adempie al suo dovere assorbendo anidride carbonica dall’atmosfera.
Come ha sottolineato il Programma di Sviluppo della Nazioni Unite nel suo rendiconto dell’anno scorso, il riscaldamento globale è la principale delle minacce per i poveri e i non nati, le “due facce della società con poca o nessuna voce politica”. Un’azione globale coordinata in loro favore presuppone quindi o un’attribuzione di potere rivoluzionaria (uno scenario non considerato dall’IPCC) o la trasmutazione dell’interesse verso se stesse delle nazioni e delle classi ricche in un’illuminata “solidarietà” senza precedenti nella storia. La maggior parte del terzo mondo, comunque, preferirebbe forse che il Primo Mondo riconoscesse la confusione ambientale a cui ha dato vita e si prendesse le responsabilità necessarie per sistemarla.
In uno studio serio recentemente pubblicato su Proceedings of the [US] National Academy of Science, un gruppo di ricerca ha tentato di calcolare i costi ambientali della globalizzazione economica dal 1961 esprimendoli in deforestazione, cambiamento climatico, pesca in eccesso, buco dell’ozono, conversione delle mangrovie ed espansione dell’agricoltura.
I radicali del Sud faranno giustamente notare che esiste un altro debito. Per trent’anni, le città dei paesi in via di sviluppo sono cresciute ad una velocità rapidissima, senza un equivalente investimento pubblico in servizi infrastrutturali, alloggi o sanità pubblica. In gran parte ciò rappresenta il risultato dei debiti esteri contratti dai dittatori, dei pagamenti pretesi dal Fondo Monetario Internazionale e dei settori pubblici portati alla rovina dagli accordi di “modificazione strutturale” della Banca Mondiale.
Uno degli analisti pionieri dell’economia del riscaldamento globale, il professore William R. Cline del Petersen Institute, ha recentemente pubblicato uno studio condotto paese per paese sui probabili effetti del cambiamento climatico sull’agricoltura nelle ultime decadi di questo secolo. Anche nelle simulazioni più ottimistiche, il sistema agricolo del Pakistan (per il quale di prevede una diminuzione del 20 per cento dell’attuale produzione agricola) e l’India nord orientale (riduzione del 30 percento) saranno facilmente distrutti, insieme a gran parte del Medio Oriente, del Maghreb, della cintura di Sahel, della parte più meridionale dell’Africa, dei Carabi e del Messico. Ventinove paesi in via di sviluppo perderanno il 20 percento o più della loro produzione agricola a causa del riscaldamento del pianeta, mentre l’agricoltura nel già prosperoso nord subirà potenzialmente, in media, una spinta dell’8 percento.
Alla luce di questi studi, la crudele competizione in corso tra i mercati dell’energia e del cibo, amplificata dalla speculazione internazionale in beni e terre agricole, è solo un modesto presagio del caos che potrebbe presto crescere esponenzialmente dalla convergenza tra consumo delle risorse, ostinata disuguaglianza e cambiamento climatico. Attualmente sta lavorando ad un libro sulle città, la povertà e il cambiamento globale.
Mike Davis è l’autore di In Praise of Barbarians: Essays against Empire (Haymarket Books, 2008) e di Buda's Wagon: A Brief History of the Car Bomb (Verso, 2007). Attualmente sta lavorando ad un libro sulle città, la povertà e il cambiamento globale.
La crudele competizione in corso tra i mercati dell’energia e del cibo, amplificata dalla speculazione internazionale in beni e terre agricole, è solo un modesto presagio del caos che potrebbe presto crescere esponenzialmente dalla convergenza tra consumo delle risorse, ostinata disuguaglianza e cambiamento climatico
Il nostro mondo, il nostro vecchio mondo, quello che abbiamo abitato per 12 mila anni, è giunto al termine, anche se nessun giornale nordamericano o europeo ha già provveduto a pubblicare l’epitaffio scientifico.
Lo scorso febbraio, mentre le gru sollevavano i rivestimenti protettivi fino al 141esimo piano del grattacielo Burj Dubai (che presto sarà alto il doppio dell’Empire State Building), la Commissione Stratigrafica della Geological Society di Londra stava aggiungendo la storia più alta e più nuova alla colonna geologica.
La Geological Society di Londra è la più antica associazione di scienziati della Terra, fondata nel 1807, e la sua Commissione giudica con un collegio di massimi esponenti in merito all’aggiudicazione della datazione geologica. Gli stratigrafi fanno a fette la storia della Terra, preservata in strati sedimentari, dividendola in gerarchie di eoni, ere, periodi ed epoche identificati dalle “spighe d’oro” delle estinzioni di massa, degli eventi relativi alle evoluzioni di specie biologiche e dei cambiamenti improvvisi della chimica atmosferica.
In geologia, come in biologia o in storia, la periodizzazione è un’arte complessa e controversa, e la battaglia più amara della scienza britannica del 19esimo secolo –ancora conosciuta come la “Grande Controversia Devoniana” – fu combattuta su interpretazioni divergenti circa le familiari Graywackes del Galles e l’inglese Old Red Sandstone [1]. Nonostante l’idea di “Antropocene” – un’epoca della terra definita dalla nascita della società urbana-industriale come forza geologica – sia stata a lungo dibattuta, gli stratigrafi si sono rifiutati di riconoscere prove fondamentali per stabilire il suo avvento. Alla domanda “Stiamo vivendo adesso nell’Antropocene? ”, i ventuno membri della Commissione hanno risposto all’unanimità “sì”. Oltre all’aumento dell’effetto serra, gli stratigrafi menzionano la trasformazione del paesaggio umano che “ora supera in ordine di grandezza la naturale produzione sedimentaria [annua] “, la pericolosa acidificazione degli oceani e l’inarrestabile distruzione del biota.
Questa nuova era, spiegano, è definita sia dai trend del riscaldamento del pianeta (che trova un precedente forse nella catastrofe conosciuta come il Massimo Termale Paleocene Eocene, 56 milioni di anni fa) e dalla previsione di instabilità radicale dei futuri habitat.
2. Decarbonizzazione Spontanea?
La coronazione dell’Antropocene fatta dalla Commissione coincide con crescenti controversie scientifiche sul 4th Assessment Report [2] rilasciato lo scorso anno dalla Commissione Intergovernativa sui Cambiamenti Climatici (IPCC).
I parametri attuali sono stati adottati dall’IPCC nel 2000 per modellare le future emissioni complessive basandosi su diverse “trame” riguardanti la crescita della popolazione e lo sviluppo tecnologico ed economico. Alcuni degli scenari principali della Commissione sono ben noti ai policymakers e agli attivisti ambientalisti, ma pochi al di fuori della comunità dei ricercatori ne hanno realmente letto o compreso i dettagli, in particolare la fiducia che l’IPCC ripone nel fatto che una maggiore efficienza energetica sarà una conseguenza “automatica” dello sviluppo economico futuro. In effetti tutti gli scenari, anche le varianti del “business secondo i canali tradizionali”, assumono che almeno il 60 per cento delle future riduzioni di carbonio avranno luogo a prescindere dalle misure contenitive dell’effetto serra. (L’ International Energy Agency ha recentemente stimato che costerebbe 45 miliardi di dollari dimezzare le emissioni di gas serra entro il 2050.) Gli accordi tipo Kyoto e i mercati del carbonio sono disegnati – quasi in analogia con la teoria Keynesiana del pump-priming [3]– per colmare le deficienze tra la decarbonizzazione spontanea e i target di emissioni che ciascun parametro richiede. Nello stesso modo, ci sono state poche prove negli ultimi anni dell’automatico progresso nell’efficienza energetica, che rappresenta una condicio sine qua non dei parametri dell’IPCC. Nel frattempo, si prevede che il consumo complessivo dei combustibili fossili aumenterà del 55% nel corso della prossima generazione, con le esportazioni internazionali di petrolio che raddoppieranno di volume.
Il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, che ha compiuto in proprio degli studi sugli obiettivi dell’energia sostenibile, mette in guardia dal fatto che sarà necessaria “una riduzione del 50% delle emissioni di gas serra in tutto il mondo entro il 2050 contro i livelli del 1990” per mantenere l’umanità fuori dalla zona del riscaldamento incontrollato (normalmente definito come maggiore dell’aumento di due gradi centigradi in questo secolo). Nonostante il rincaro dell’energia stia portando all’estinzione dei SUV e stia attirando più capitali nell’orbita delle energie rinnovabili, esso sta altresì aprendo il vaso di Pandora della più cruda produzione di petrolio dalle terre canadesi ricche di catrame e del petrolio pesante venezuelano. Come ha ammonito uno scienziato inglese, l’ultima cosa che dovremmo desiderare (sotto il falso slogan dell’”indipendenza energetica”) è la nuova frontiera della produzione di idrocarburi che sollecita “l’abilità umana nell’accelerare il riscaldamento globale” e rallenta la transizione verso “cicli energetici senza carbonio o chiusi al carbonio”.
3. Il Boom della Fine del Mondo
Che fiducia dovremmo riporre nella capacità dei mercati di riallocare gli investimenti dalle vecchie alle nuove energie o, per esempio, dalle spese per le armi ad un’agricoltura sostenibile? Siamo vittime di pubblicità incessanti (soprattutto nella TV di stato) che ci mostrano come compagnie enormi quali Chevron, Pfizer Inc. ed Archer Daniels Midland stiano lavorando duro per salvare il pianeta reinvestendo i loro profitti in ricerche ed esplorazioni che assicurino combustibili con poco carbonio, nuovi vaccini e colture più resistenti alla sete.
Inoltre ci sono preoccupanti segnali del fatto che le compagnie di energia e di servizi stiano violando le loro promesse circa l’impegno pubblico per lo sviluppo di tecnologie cattura-carbonio ed energie alternative. Il “progetto dimostrativo” dell’amministrazione Bush, FutureGen, è stato cancellato quest’anno dopo che l’industria del carbone si è rifiutata di pagare la sua quota di “partnership” di questo programma pubblico-privato; allo stesso modo, diverse iniziative private americane di estrazione del carbone sono recentemente state cancellate. Anche se non siamo proprio sulla sommità del picco di Hubbert— proprio quel picco del petrolio —indipendentemente dall’esplosione finale della bolla del caro-petrolio, quello di cui probabilmente ci stiamo rendendo testimoni è il più grande trasferimento di ricchezza della storia moderna. Un eminente oracolo di Wall Street, il McKinsey Global Institute, ha previsto che se i prezzi al barile del petrolio grezzo rimangono sopra i 100 dollari al barile – al momento rasentano i 140 – i sei paesi membri del Concilio di Cooperazione del Golfo da soli “collezioneranno un bonus di almeno 9 miliardi di dollari entro il 2020”. Come negli anni ’70, l’Arabia Saudita e i suoi vicini del Golfo, il cui prodotto interno lordo è almeno duplicato negli ultimi tre anni, stanno sguazzando nella liquidità: 2,4 miliardi in banche e fondi d’investimento, secondo una recente stima dell’ Economist. Indipendentemente dall’andamento dei prezzi, l’International Energy Agency prevede che “quantitativi sempre maggiori di petrolio proverranno da sempre meno paesi, soprattutto dai membri centro est dell’OPEC [Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio]." Oggi potrebbero avvicinarsi al miliardo e mezzo, una cifra considerevolmente maggiore al valore complessivo del commercio mondiale di prodotti per l’agricoltura. La maggior parte delle città-stato del Golfo stanno costruendo grattacieli abbaglianti –e, tra di essi, Dubai è la star indiscussa.
Questo super-pompato boom del Golfo, che il celebre architetto Rem Koolhaas dice stia “dando una nuova configurazione al mondo”, ha portato gli sviluppatori di Dubai a proclamare l’avvento di uno “stile di vita ai massimi livelli”, rappresentato da hotel a sette stelle, isole private e yacht J-class. Non sorprende, allora, che gli Emirati Arabi e i loro vicini abbiano il più alto risparmio energetico pro capite del pianeta. Intanto, i legittimi proprietari della ricchezza petrolifera araba, le masse accatastate negli angusti sobborghi di Baghdad, del Cairo, di Amman e di Khartoum, ne ottengono come magra conseguenza la nascita di impieghi nel campo del petrolio e di madrasse sovvenzionate dall’Arabia. Mentre gli ospiti si godono stanze da 5 mila dollari a notte in Burj Al-Arab, il famoso hotel di Dubai a forma di nave, la classe operaia del Cairo si batte per le strade per il prezzo troppo alto del pane.
4. Possono I Mercati Affrancare le Masse?
Gli ottimisti delle emissioni, naturalmente, guarderanno con il sorriso a questi sentimenti pessimistici ed evocheranno l’imminente miracolo del commercio del carbonio. Ciò che essi non tengono in considerazione è la possibilità reale che un esteso mercato di compensazione del carbonio possa emergere, come già pronosticato, producendo tuttavia solo un minimo miglioramento nel bilancio complessivo del carbonio, visto che non ci sono meccanismi per far dare atto a riduzioni nette reali dell’uso dei combustibili fossili.
Nelle discussioni popolari sui sistemi di scambio che ruotano attorno al diritto (delle industrie) alle emissioni inquinanti, è cosa normale confondere le ciminiere per alberi. Ad esempio, la ricca enclave del petrolio di Abu Dhabi (come Dubai, partner degli Emirati) si vanta di aver piantato più di 130 milioni di alberi – ciascuno dei quali adempie al suo dovere assorbendo anidride carbonica dall’atmosfera.
Come ha sottolineato il Programma di Sviluppo della Nazioni Unite nel suo rendiconto dell’anno scorso, il riscaldamento globale è la principale delle minacce per i poveri e i non nati, le “due facce della società con poca o nessuna voce politica”. Un’azione globale coordinata in loro favore presuppone quindi o un’attribuzione di potere rivoluzionaria (uno scenario non considerato dall’IPCC) o la trasmutazione dell’interesse verso se stesse delle nazioni e delle classi ricche in un’illuminata “solidarietà” senza precedenti nella storia. La maggior parte del terzo mondo, comunque, preferirebbe forse che il Primo Mondo riconoscesse la confusione ambientale a cui ha dato vita e si prendesse le responsabilità necessarie per sistemarla.
In uno studio serio recentemente pubblicato su Proceedings of the [US] National Academy of Science, un gruppo di ricerca ha tentato di calcolare i costi ambientali della globalizzazione economica dal 1961 esprimendoli in deforestazione, cambiamento climatico, pesca in eccesso, buco dell’ozono, conversione delle mangrovie ed espansione dell’agricoltura.
I radicali del Sud faranno giustamente notare che esiste un altro debito. Per trent’anni, le città dei paesi in via di sviluppo sono cresciute ad una velocità rapidissima, senza un equivalente investimento pubblico in servizi infrastrutturali, alloggi o sanità pubblica. In gran parte ciò rappresenta il risultato dei debiti esteri contratti dai dittatori, dei pagamenti pretesi dal Fondo Monetario Internazionale e dei settori pubblici portati alla rovina dagli accordi di “modificazione strutturale” della Banca Mondiale.
Uno degli analisti pionieri dell’economia del riscaldamento globale, il professore William R. Cline del Petersen Institute, ha recentemente pubblicato uno studio condotto paese per paese sui probabili effetti del cambiamento climatico sull’agricoltura nelle ultime decadi di questo secolo. Anche nelle simulazioni più ottimistiche, il sistema agricolo del Pakistan (per il quale di prevede una diminuzione del 20 per cento dell’attuale produzione agricola) e l’India nord orientale (riduzione del 30 percento) saranno facilmente distrutti, insieme a gran parte del Medio Oriente, del Maghreb, della cintura di Sahel, della parte più meridionale dell’Africa, dei Carabi e del Messico. Ventinove paesi in via di sviluppo perderanno il 20 percento o più della loro produzione agricola a causa del riscaldamento del pianeta, mentre l’agricoltura nel già prosperoso nord subirà potenzialmente, in media, una spinta dell’8 percento.
Alla luce di questi studi, la crudele competizione in corso tra i mercati dell’energia e del cibo, amplificata dalla speculazione internazionale in beni e terre agricole, è solo un modesto presagio del caos che potrebbe presto crescere esponenzialmente dalla convergenza tra consumo delle risorse, ostinata disuguaglianza e cambiamento climatico. Attualmente sta lavorando ad un libro sulle città, la povertà e il cambiamento globale.
Mike Davis è l’autore di In Praise of Barbarians: Essays against Empire (Haymarket Books, 2008) e di Buda's Wagon: A Brief History of the Car Bomb (Verso, 2007). Attualmente sta lavorando ad un libro sulle città, la povertà e il cambiamento globale.
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