02 agosto 2008

Risparmiare energia, unico rimedio all’inflazione




«Tutti parlano del tempo, ma nessuno fa qualcosa». La battuta anglosassone, sorta nella piovosa Inghilterra, potrebbe prestarsi a simili lamentazioni sui prezzi del 2008: «Tutti parlano di inflazione, ma nessuno fa qualcosa». Per la verità, qualcuno ha fatto qualcosa: per esempio, la Bce ha innalzato i tassi, per scongiurare gli aumenti dei prezzi di seconda battuta (di cui non vi è traccia, ma i banchieri centrali non sono pagati per non far niente); altri hanno investito del problema Mister Prezzi (che, se serve a qualcosa, serve a duplicare il lavoro che dovrebbe fare l’Autorità garante delle concorrenza); altri ancora lanciano invettive contro la speculazione (dimenticando che, se l’inflazione è l’onda, la speculazione è solo la spuma sulla cresta dell’onda).



L’inflazione da costi, in special modo quando i costi riguardano beni importati, è una camicia di forza per chi ne soffre. Non c’è molto che si possa fare per scrollarsi di dosso questo fardello. Ma non è detto che questa condanna all’impotenza sia totale. E’ possibile ragionare su quel molto che non si deve fare e su quel poco che si può fare. E tenendo presente che l’emergenza prezzi è uno degli aspetti di una crisi globale di cui ancora «non si vede la fine», come ha avvertito ieri il Fondo monetario.



Fra le cose da non fare, due sono le più importanti. Cerchiamo allora di capire le ragioni di fondo di questi aumenti delle materie prime energetiche e alimentari. Queste ragioni stanno in un accadimento epocale: molti Paesi emergenti avanzano a lunghi passi sulla via dello sviluppo e ripercorrono le strade che già i Paesi ricchi calcarono quando iniziò la loro lunga e industriosa avventura: industrie pesanti, infrastrutture, produzioni energivore. Miliardi e miliardi di esseri umani sono in corsa per migliorare il loro tenore di vita: cambiano i modelli nutrizionali, vogliono cemento ed elettricità, e premono sulla domanda di materie prime. Un assetto produttivo, quello delle materie prime, da sempre dominato dal cosiddetto "hog cycle", da investimenti che richiedono tempi lunghi e condannano a periodiche crisi di sovraproduzione e sottoproduzione. Si, l’Opec è un oligopolio, ma un oligopolio singolarmente inefficiente, che non ha saputo impedire, a metà degli anni 8o, un crollo del prezzo del greggio sotto i io dollari al barile. Ma su questo "hog cycle" si innesta oggi il fattore strutturale di una domanda di petrolio che ha salito un gradino, con l’impetuoso sviluppo di "Cindia" e non solo. La speculazione non fa altro che riconoscere una verità di fondo: con un’offerta fisiologicamente lenta a rispondere a una domanda crescente, il prezzo dell’oro nero salirà. È probabile che la speculazione abbia anticipato questi rincari, e questi anticipi siano stati precipitosi. Ma non vi è dubbio che il prezzo del petrolio rimarrà relativamente elevato. «Tagliare le ali alla speculazione» è dunque un’espressione vuota, sia che risuoni nelle stanze dei bottoni italiane che nei corridoi degli Ecofm che nelle aule del Congresso americano. La prima conclusione è allora questa: abbandonare la ricerca di capri espiatori, accettare che l’equilibrio di fondo fra domanda e offerta di materie prime è cambiato, e attendere un riequilibrio che certamente verrà ma che ha bisogno di tempo per manifestarsi.



E durante questo tempo cosa si fa? Ecco la seconda cosa da non fare: tornare alle indicizzazioni. Il rifiuto di meccanismi di scala mobile non è un bieco tentativo di "far pagare ai lavoratori" il prezzo della crisi, ma è la semplice constatazione di una verità di base: quando aumenta il prezzo di un bene importato, e quando questo aumento non è compensato da un aumento del prezzo dei beni che esportiamo (in termini tecnici, peggiorano le ragioni di scambio), non c’è niente da fare, bisogna stringere la cinghia. Cercare di sottrarsi a questo oggettivo impoverimento del Paese con la deriva salariale è impossibile: l’illusione monetaria di un salario più alto sarà vanificata da maggiore inflazione, e l’inevitabile impoverimento sarà realizzato in un altro modo, con l’aggravante di una perdita di competitività-prezzo rispetto a quei Paesi che hanno risposto alla perdita di ragioni di scambio in modo meno scomposto.



Ma c’è qualcosa di positivo che si può fare per rispondere alla perdita di potere d’acquisto, ed è qualcosa per la quale esistono, a livello individuale, gli stimoli e la capacità. Si tratta di risparmiare nell’uso dell’energia. Il prezzo elevato è l’arma più efficace per generare i risparmi, e le "best practices" esistono per portare a significative riduzioni. Riduzioni che generano un circolo virtuoso, perché, oltre a far risparmiare nell’immediato a livello micro, portano a livello macro a cali della domanda che smussano i prezzi. Perché la virtù dei singoli diventi beneficio collettivo c’è però bisogno che il risparmio di energia diventi un manifesto nazionale, promosso e pungolato dall’azione pubblica. Da questo punto di vista le riduzioni dell’imposta sui prodotti energetici non sono la via migliore; la soluzione preferibile è destinare il gettito extra da caro-energia a interventi mirati di sollievo alle categorie disagiate e a programmi che incentivino il risparmio energetico.


di Fabrizio Galimberti



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02 agosto 2008

Risparmiare energia, unico rimedio all’inflazione




«Tutti parlano del tempo, ma nessuno fa qualcosa». La battuta anglosassone, sorta nella piovosa Inghilterra, potrebbe prestarsi a simili lamentazioni sui prezzi del 2008: «Tutti parlano di inflazione, ma nessuno fa qualcosa». Per la verità, qualcuno ha fatto qualcosa: per esempio, la Bce ha innalzato i tassi, per scongiurare gli aumenti dei prezzi di seconda battuta (di cui non vi è traccia, ma i banchieri centrali non sono pagati per non far niente); altri hanno investito del problema Mister Prezzi (che, se serve a qualcosa, serve a duplicare il lavoro che dovrebbe fare l’Autorità garante delle concorrenza); altri ancora lanciano invettive contro la speculazione (dimenticando che, se l’inflazione è l’onda, la speculazione è solo la spuma sulla cresta dell’onda).



L’inflazione da costi, in special modo quando i costi riguardano beni importati, è una camicia di forza per chi ne soffre. Non c’è molto che si possa fare per scrollarsi di dosso questo fardello. Ma non è detto che questa condanna all’impotenza sia totale. E’ possibile ragionare su quel molto che non si deve fare e su quel poco che si può fare. E tenendo presente che l’emergenza prezzi è uno degli aspetti di una crisi globale di cui ancora «non si vede la fine», come ha avvertito ieri il Fondo monetario.



Fra le cose da non fare, due sono le più importanti. Cerchiamo allora di capire le ragioni di fondo di questi aumenti delle materie prime energetiche e alimentari. Queste ragioni stanno in un accadimento epocale: molti Paesi emergenti avanzano a lunghi passi sulla via dello sviluppo e ripercorrono le strade che già i Paesi ricchi calcarono quando iniziò la loro lunga e industriosa avventura: industrie pesanti, infrastrutture, produzioni energivore. Miliardi e miliardi di esseri umani sono in corsa per migliorare il loro tenore di vita: cambiano i modelli nutrizionali, vogliono cemento ed elettricità, e premono sulla domanda di materie prime. Un assetto produttivo, quello delle materie prime, da sempre dominato dal cosiddetto "hog cycle", da investimenti che richiedono tempi lunghi e condannano a periodiche crisi di sovraproduzione e sottoproduzione. Si, l’Opec è un oligopolio, ma un oligopolio singolarmente inefficiente, che non ha saputo impedire, a metà degli anni 8o, un crollo del prezzo del greggio sotto i io dollari al barile. Ma su questo "hog cycle" si innesta oggi il fattore strutturale di una domanda di petrolio che ha salito un gradino, con l’impetuoso sviluppo di "Cindia" e non solo. La speculazione non fa altro che riconoscere una verità di fondo: con un’offerta fisiologicamente lenta a rispondere a una domanda crescente, il prezzo dell’oro nero salirà. È probabile che la speculazione abbia anticipato questi rincari, e questi anticipi siano stati precipitosi. Ma non vi è dubbio che il prezzo del petrolio rimarrà relativamente elevato. «Tagliare le ali alla speculazione» è dunque un’espressione vuota, sia che risuoni nelle stanze dei bottoni italiane che nei corridoi degli Ecofm che nelle aule del Congresso americano. La prima conclusione è allora questa: abbandonare la ricerca di capri espiatori, accettare che l’equilibrio di fondo fra domanda e offerta di materie prime è cambiato, e attendere un riequilibrio che certamente verrà ma che ha bisogno di tempo per manifestarsi.



E durante questo tempo cosa si fa? Ecco la seconda cosa da non fare: tornare alle indicizzazioni. Il rifiuto di meccanismi di scala mobile non è un bieco tentativo di "far pagare ai lavoratori" il prezzo della crisi, ma è la semplice constatazione di una verità di base: quando aumenta il prezzo di un bene importato, e quando questo aumento non è compensato da un aumento del prezzo dei beni che esportiamo (in termini tecnici, peggiorano le ragioni di scambio), non c’è niente da fare, bisogna stringere la cinghia. Cercare di sottrarsi a questo oggettivo impoverimento del Paese con la deriva salariale è impossibile: l’illusione monetaria di un salario più alto sarà vanificata da maggiore inflazione, e l’inevitabile impoverimento sarà realizzato in un altro modo, con l’aggravante di una perdita di competitività-prezzo rispetto a quei Paesi che hanno risposto alla perdita di ragioni di scambio in modo meno scomposto.



Ma c’è qualcosa di positivo che si può fare per rispondere alla perdita di potere d’acquisto, ed è qualcosa per la quale esistono, a livello individuale, gli stimoli e la capacità. Si tratta di risparmiare nell’uso dell’energia. Il prezzo elevato è l’arma più efficace per generare i risparmi, e le "best practices" esistono per portare a significative riduzioni. Riduzioni che generano un circolo virtuoso, perché, oltre a far risparmiare nell’immediato a livello micro, portano a livello macro a cali della domanda che smussano i prezzi. Perché la virtù dei singoli diventi beneficio collettivo c’è però bisogno che il risparmio di energia diventi un manifesto nazionale, promosso e pungolato dall’azione pubblica. Da questo punto di vista le riduzioni dell’imposta sui prodotti energetici non sono la via migliore; la soluzione preferibile è destinare il gettito extra da caro-energia a interventi mirati di sollievo alle categorie disagiate e a programmi che incentivino il risparmio energetico.


di Fabrizio Galimberti



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