16 giugno 2009
L'Europa deve cominciare a temere gli Stati Uniti
La fuga di massa è iniziata. Dopo la clamorosa decisione del fondo governativo di Singapore, Temasek, di lasciare sul tappeto 4,6 dei 7,6 miliardi di dollari investiti pur di uscire dal colosso creditizio Bank of America, a sua volta “cavaliere bianco” di Merrill Lynch e la decisione del fondo sovrano di Abu Dhabi di convertire le obbligazioni di Barclays che possedeva e di liquidare in tempo reale le azioni ordinarie appena ottenute (costringendo Barclays a vendere a Blackrock il suo gioiello del fund management Bgi per 13 miliardi di dollari), ecco un’altra notizia che ci segnala come la terza ondata di crisi sia ben oltre la soglia di casa.
Due hedge fund che gestivano complessivamente 1,3 miliardi di dollari dei loro sottoscrittori hanno chiuso, dalla sera alla mattina: accadde così anche nel giugno di due anni fa, quando due fondi speculativi legati a Bear Stearns andarono a gambe all’aria dando il via alla crisi globale. Niente paura, era tutto previsto.
Non è un caso, infatti, che mentre i segnali che arrivano dal mercato segnano tempesta, qualcuno ricominci con le previsioni al rialzo e l’ottimismo a prezzo di saldo: Goldman Sachs, infatti, ha fissato a 85 dollari il prezzo che raggiungerà a breve il barile di petrolio. Lo scorso anno parlavano di quota 200 dollari e fallirono ma in parecchi fecero molti, molti soldi grazie alle montagne russe del greggio che schizzò a luglio a 147 dollari il barile dando vita a una danza dei futures mai vista. Questo nonostante non ci sia alcuna ripresa reale in corso per quanto riguarda economie e soprattutto industrie: il fabbisogno energetico della Cina è calato del 10% e sul mercato, anzi nei magazzini, ci sono 100 milioni di barili di greggio pronti alla consegna ma che non verranno consegnati. Se non riparte la crescita, nessuno ha bisogno di petrolio in più.
In Gran Bretagna, poi, la grave crisi in cui versa il governo dopo le elezioni locali ed europee sta affondando sia la Borsa che la sterlina, scaricata sia da investitori che da detentori di riserve: proprio ciò che la Bank of England temeva. Difficile dire come si potrà uscire da questa situazione, soprattutto perché la lista dei paesi in deflazione si allunga di giorno in giorno, impietosamente: Irlanda -3,5; Thailandia -3,3; Cina -1,5; Svizzera -0,8; Stati Uniti -0,7; Singapore -0,7; Taiwan -0,5; Belgio -0,4; Giappone -0,1; Svezia -0,1: Germania 0. Insomma, ogniqualvolta i mercati reagiscono in maniera positiva agli indicatori macro, allora è giunto il momento di preoccuparsi davvero.
Il fronte bancario, poi, continua a macinare perdite: ieri è stato il turno di Fortis, Ubs e Barclays, quest’ultima colpita da vendite a pioggia poiché la cessione di Bgi significa disperata necessità di capitalizzare dopo la fuga degli emiri. Una rights issue è esclusa dopo il colpaccio sull’azionario compiuto dai “salvatori” di Abu Dhabi, quindi si vende: certamente il Core Tier 1 della banca britannica, se la vendita andrà in porto, non dovrà più temere la prova del nove degli stress tests ma la sua operatività - e quindi redditività sui mercati - appare pressoché annullata.
Non va meglio negli Usa dove Citigroup e Bank of America perdevano il 3% già negli scambi pre-mercato: sarebbe interessante sapere se Barack Obama, dopo aver scorrazzato in giro per Europa e Medio Oriente, intende fare qualcosa visto che la ricetta Geithner appare del tutto incapace di risolvere la crisi strutturale delle banche Usa, potenzialmente insolventi dalla prima all’ultima. E anche la strategia industriale, ovvero la vendita di Chrysler a Fiat ieri ha subito una brusca frenata dopo che i fondi pensione dell’Indiana, investitori nel gigante fallito, hanno chiesto alla Corte Suprema di bloccare la cessione: se non si chiude entro il 15 giugno, il Lingotto ha il diritto di andarsene senza dover pagare né penali né altro.
Viene da chiedersi se questa amministrazione statunitense fosse proprio ciò di cui il mondo aveva bisogno in questo momento o se non sia altro che un fattore aggravante della crisi: se infatti in campagna elettorale Obama strillava contro speculatori e banche, ora appare silente sia verso i primi (basta vedere l’inspiegabile aumento del prezzo del petrolio a fronte di fondamentali che non lo giustificano assolutamente), che verso le seconde, ancora intente a raggranellare soldi in maniera random (ovvero senza una strategia, soprattutto di risanamento, precisa) e a distribuire bonus milionari a fronte di tagli di dividendi e cedole.
Questi solo alcuni dati, raccolti in un giorno in cui l’attenzione d’Europa era rivolta al rinnovo del Parlamento Europeo e alla conseguenze politiche nazionali di questo voto: siamo all’entropia. E non è per nulla un segnale incoraggiante. I politici, però, sembrano troppo impegnati in altre cose per occuparsene. Speriamo non sia davvero troppo tardi quando cambieranno idea.
di Mauro Bottarelli
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16 giugno 2009
L'Europa deve cominciare a temere gli Stati Uniti
La fuga di massa è iniziata. Dopo la clamorosa decisione del fondo governativo di Singapore, Temasek, di lasciare sul tappeto 4,6 dei 7,6 miliardi di dollari investiti pur di uscire dal colosso creditizio Bank of America, a sua volta “cavaliere bianco” di Merrill Lynch e la decisione del fondo sovrano di Abu Dhabi di convertire le obbligazioni di Barclays che possedeva e di liquidare in tempo reale le azioni ordinarie appena ottenute (costringendo Barclays a vendere a Blackrock il suo gioiello del fund management Bgi per 13 miliardi di dollari), ecco un’altra notizia che ci segnala come la terza ondata di crisi sia ben oltre la soglia di casa.
Due hedge fund che gestivano complessivamente 1,3 miliardi di dollari dei loro sottoscrittori hanno chiuso, dalla sera alla mattina: accadde così anche nel giugno di due anni fa, quando due fondi speculativi legati a Bear Stearns andarono a gambe all’aria dando il via alla crisi globale. Niente paura, era tutto previsto.
Non è un caso, infatti, che mentre i segnali che arrivano dal mercato segnano tempesta, qualcuno ricominci con le previsioni al rialzo e l’ottimismo a prezzo di saldo: Goldman Sachs, infatti, ha fissato a 85 dollari il prezzo che raggiungerà a breve il barile di petrolio. Lo scorso anno parlavano di quota 200 dollari e fallirono ma in parecchi fecero molti, molti soldi grazie alle montagne russe del greggio che schizzò a luglio a 147 dollari il barile dando vita a una danza dei futures mai vista. Questo nonostante non ci sia alcuna ripresa reale in corso per quanto riguarda economie e soprattutto industrie: il fabbisogno energetico della Cina è calato del 10% e sul mercato, anzi nei magazzini, ci sono 100 milioni di barili di greggio pronti alla consegna ma che non verranno consegnati. Se non riparte la crescita, nessuno ha bisogno di petrolio in più.
In Gran Bretagna, poi, la grave crisi in cui versa il governo dopo le elezioni locali ed europee sta affondando sia la Borsa che la sterlina, scaricata sia da investitori che da detentori di riserve: proprio ciò che la Bank of England temeva. Difficile dire come si potrà uscire da questa situazione, soprattutto perché la lista dei paesi in deflazione si allunga di giorno in giorno, impietosamente: Irlanda -3,5; Thailandia -3,3; Cina -1,5; Svizzera -0,8; Stati Uniti -0,7; Singapore -0,7; Taiwan -0,5; Belgio -0,4; Giappone -0,1; Svezia -0,1: Germania 0. Insomma, ogniqualvolta i mercati reagiscono in maniera positiva agli indicatori macro, allora è giunto il momento di preoccuparsi davvero.
Il fronte bancario, poi, continua a macinare perdite: ieri è stato il turno di Fortis, Ubs e Barclays, quest’ultima colpita da vendite a pioggia poiché la cessione di Bgi significa disperata necessità di capitalizzare dopo la fuga degli emiri. Una rights issue è esclusa dopo il colpaccio sull’azionario compiuto dai “salvatori” di Abu Dhabi, quindi si vende: certamente il Core Tier 1 della banca britannica, se la vendita andrà in porto, non dovrà più temere la prova del nove degli stress tests ma la sua operatività - e quindi redditività sui mercati - appare pressoché annullata.
Non va meglio negli Usa dove Citigroup e Bank of America perdevano il 3% già negli scambi pre-mercato: sarebbe interessante sapere se Barack Obama, dopo aver scorrazzato in giro per Europa e Medio Oriente, intende fare qualcosa visto che la ricetta Geithner appare del tutto incapace di risolvere la crisi strutturale delle banche Usa, potenzialmente insolventi dalla prima all’ultima. E anche la strategia industriale, ovvero la vendita di Chrysler a Fiat ieri ha subito una brusca frenata dopo che i fondi pensione dell’Indiana, investitori nel gigante fallito, hanno chiesto alla Corte Suprema di bloccare la cessione: se non si chiude entro il 15 giugno, il Lingotto ha il diritto di andarsene senza dover pagare né penali né altro.
Viene da chiedersi se questa amministrazione statunitense fosse proprio ciò di cui il mondo aveva bisogno in questo momento o se non sia altro che un fattore aggravante della crisi: se infatti in campagna elettorale Obama strillava contro speculatori e banche, ora appare silente sia verso i primi (basta vedere l’inspiegabile aumento del prezzo del petrolio a fronte di fondamentali che non lo giustificano assolutamente), che verso le seconde, ancora intente a raggranellare soldi in maniera random (ovvero senza una strategia, soprattutto di risanamento, precisa) e a distribuire bonus milionari a fronte di tagli di dividendi e cedole.
Questi solo alcuni dati, raccolti in un giorno in cui l’attenzione d’Europa era rivolta al rinnovo del Parlamento Europeo e alla conseguenze politiche nazionali di questo voto: siamo all’entropia. E non è per nulla un segnale incoraggiante. I politici, però, sembrano troppo impegnati in altre cose per occuparsene. Speriamo non sia davvero troppo tardi quando cambieranno idea.
di Mauro Bottarelli
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