L’America Latina, cavia del Mondialismo – Agricoltura: il turno dell’Europa – Idioti e pusillanimi di casa nostra
Per capire i fenomeni socio-economici in atto in Europa può essere particolarmente utile osservare una realtà geografica, dall’altra parte del mondo, che ha un estremo rapporto di sudditanza nei confronti del capitalismo USA: L’America latina.
Nei Paesi latino-americani, nell’ultimo mezzo secolo ci sono state tre differenti fasi storiche, tutte improntate dal tentativo di affrancamento almeno parziale dal gioco statunitense, ma ciascuna di esse ha fallito. Una prima fase fu caratterizzata dalle cosiddette dittature militari, una seconda fu quella dei governi neoliberali e la terza, può essere definita come fase dei governi popolari con impostazione personalistica da parte del premier (Lula in Brasile, Chavez in Venezuela, Morales in Bolivia…). Le dittature militari, nell’immaginario della sinistra, vengono viste come l’espressione più diretta del colonialismo USA: questa è in realtà una semplificazione ideologica. Certamente andrebbero analizzate le situazioni di ciascun Paese e le figure rappresentative che ne sono state parzialmente artefici; si può però in generale affermare con attendibilità storica che le caste militari, con i loro governi, siano state alternativamente osteggiate o usate dagli USA. La regola era sempre la stessa: finché il governo in questione consentiva alle corporation buoni affari (leggi saccheggio) c’era il sostegno da parte USA, quando il governo cercava di riorganizzarsi attorno al concetto di sovranità nazionale allora veniva finanziata ed armata l’opposizione. Gli USA hanno alimentato lotte civili che sono costate, ad esempio, 50.000 morti in Nicaragua, 100.000 morti in El Salvador, 250.000 morti in Guatemala.
La strategia neocolonialista ormai consolidata comporta il mantenere una profonda frattura tra le maggiori componenti sociali della nazione suddita; quando una delle due rischia di prevalere nettamente si infiltra e si finanzia quella avversa. Antifascismo e anticomunismo sono le forme ideologiche che giustificano i vari spostamenti tattici.
La fase storica peggiore in America latina è arrivata dopo le dittature e si è trattato di quella dei governi neoliberali; governi il cui avvento è stato favorito rito dal collasso economico pilotato dalla grande finanza, ma imputato alle giunte militari.
Le misure prescritte dagli USA, note come “Consenso di Washington” (1) ai governi che Hanno sostituito queste giunte, sono esattamente le stesse che l’Europa degli ultimi dieci anni ha adottato e sta adottando: liberalizzazione dei mercati e allentamento dei vincoli di ogni tipo, privatizzazione delle aziende, beni pubblici e funzioni pubbliche, elevata imposizione fiscale che soffoca i piccoli operatori economici nazionali a vantaggio dei colossi internazionali (che hanno strumenti per gestire e raggirare il fisco), riduzione della spesa pubblica con piani di rientro del debito; in altre parole potere e discrezionalità nazionali pesantemente ridimensionate e subordinate alle direttive generali del grande capitale (2).
Con gli anni novanta si concluse una fase di lotte intestine provocate dagli USA, per approdare all’abbandono totale della sovranità da parte dei vari stati nei settori strategici e strutturali della vita nazionale. Ad esempio, con la privatizzazione dei sistemi pubblici dell’educazione e della salute non si ebbe qualificazione dei servizi bensì riduzione della loro fruibilità e soprattutto perdita di redditi sicuri per le famiglie degli insegnanti e dei sanitari, con limitazione anche nella loro dignità e libertà professionale. La svendita delle imprese pubbliche n ei comparti strategici di energia, trasporti, acqua e telefonia… avrebbe dovuto ridurre il costo dei servizi stessi, ma ne ha invece peggiorato la qualità, creato giungle tariffarie, minato la già scarsa efficienza delle reti di collegamento e cancellato posti di lavoro relativamente stabili. Tutto ciò è accaduto in un contesto sociale già povero e male organizzato rispetto al nostro, ma i danni sono stati dello stesso tipo.
Il comparto produttivo che vale la pena di osservare con maggiore attenzione è quello dell’agricoltura, perché essa è la base su cui poggia l’economia reale di ogni nazione. In Europa stiamo assistendo proprio in questi mesi ad una manovra assurda sui prezzi all’origine, che sta mettendo in ginocchio i produttori di latte, bestiame da carne, di prodotti agricoli per l’alimentazione umana. Vediamo ciò che è accaduto in America Latina nel periodo dei governi neoliberali. Con la privatizzazione del sistema creditizio, il grande capitale ha concesso credito laddove c’era maggiore opportunità speculativa, abbandonando la clientela più frammentata. Il commercio più della produzione ed i grossi clienti più di quelli piccoli hanno beneficiato del credito, che prima invece sosteneva a pioggia un po’ tutte le componenti sociali ed i particolare i piccoli allevatori ed agricoltori (3). I contadini, non più sostenuti da un sistema creditizio pubblico con una certa attenzione sociale, spesso finivano col dover ipotecare la loro terra per acquistare sementi, concimi e quant’altro. Dalle ipoteche alla perdita degli appezzamenti il passo era breve, poteva bastare una stagione agraria sfavorevole, un uragano o anche soltanto una flessione del prezzo di vendita del raccolto sui mercati, dovuto magari alla speculazione.
Col passaggio di proprietà delle terre dai piccoli produttori ai latifondisti si perse tutto il sistema agricolo tradizionale, più sostenibile rispetto a quello dell’agro-industria; si perdono anche la tradizione alimentare locale e le reti sociali che le fanno da contorno. Passo conclusivo di questa involuzione sociale è l’abbandono delle campagne e di tutto quel patrimonio secolare di competenze che conferiva dignità ed autonomia al lavoro. Contadini privati dei propri mezzi di sostentamento hanno finito con l’ammassarsi nei grossi centri urbani, dove sopravvivono in condizioni miserevoli ed indegne di un essere umano (4).
L’esodo dalle campagne può avere anche altri esiti: l’emigrazione internazionale. In genere questa possibilità viene presa in considerazione più dagli uomini che dalle donne, ciò spacca i nuclei familiari ed espone chi la tenta a grossi rischi. La speranza di una vita migliore per lo più si scontra con la realtà di uno sradicamento definitivo ed alienante (5), quando non addirittura con una fine prematura. Su questo argomento non serve fare del pietismo senza costrutto, come qui in Italia fanno purtroppo molti ambienti cattolici e gli esponenti di punta della sinistra (6); si tratta invece di mettere a fuoco la reale tragicità di scelte individuali, non buone per chi le compie e non buone per collettività come la nostra che subisce, nei termini di un flusso migratorio invasivo. L’accoglienza non risolve il problema a nessuno, anzi tampona le mostruose conseguenze della speculazione macroeconomica rimandando a data da destinarsi le sacrosante necessarie contromisure, che soltanto una nuova consapevolezza etico-politica può generare.
Il pensiero unico globali sta, che ha come premessa assoluta il primato dell’economia sulla politica, codifica, in termini sia ideologici che culturali la necessità che il capitale internazionale ha di mantenere più aperte possibili tutte le opportunità speculative, a scapito del mondo come ecosistema e del mondo come insieme di comunità solidali (gli stati nazionali) (7).
Le grandi migrazioni transanazionali ne sono un corollario indispensabile, perché valvola di sfogo che previene sollevazioni popolari; servono nei luoghi di espatrio per illudere, servono nei luoghi di afflusso per diluire la coscienza nazionale ed impedire fenomeni di compatta reazione sociale. Altri “desiderata” del pensiero unico sono: che i gusti del consumatore si uniformino alle produzioni offerte dalle multinazionali su scala planetaria, che la solidarietà entro la classe sociale abbiente si internazionalizzi, impedendo che uno spirito patriottico possa trovare dalla stessa parte imprenditori, tecnici, artisti, intellettuali e manodopera. Lotta aperta quindi contemporaneamente contro il nazionalismo e contro la socialità.
La diaspora dei centro-americani ha comportato un risvolto economico di particolare significato: le rimesse dall’estero. Attualmente, sempre come conseguenza dei governi neoliberali, circa il 70% della popolazione in America Centrale vive con meno di 3 euro al giorno; gli espatri (4,5 milioni di cui gran parte vivono negli USA) sono quindi divenuti essenziali per il sostentamento dei compatrioti rimasti a casa. I soldi mandati in patria rappresentano ben il 15% del Pil di tutta la regione centro-americana, mentre un altro 15% è rappresentato dalla cooperazione internazionale. In questa situazione, di dipendenza ed assoluta precarietà, sguazza un gruppo molto ristretto di famiglie (une decina) ricchissime, che hanno rapporti con le multinazionali e con la grande finanza; la classe media che vive di lavoro (professionisti, tecnici, docenti…) è in bilico tra sussistenza e povertà. Alcuni degli attuali governi popolari dell’America Latina, in particolare Venezuela, Bolivia, Ecuador, Nicaragua e Argentina (8) stanno tentando correttivi rispetto allo tsunami liberista degli anni Novanta, ma la strada è tutta in salita: gli effetti devastanti prodotti sono difficilmente reversibili e la sudditanza economico-politica è pesante. Essi hanno però un vantaggio rispetto ai nostri governi europei: la maggior consapevolezza della natura criminosa del grande capitale internazionale. O si sceglie coscientemente collaborazionismo e corruzione, o quello che si deve fare è più chiaro.
Nella nostra presunzione europea ci siamo sempre sentiti estranei a situazioni di “fogna” sociale tipiche dell’America Latina; purtroppo l’epoca dei privilegi privatistici è conclusa mentre si è aperta (particolarmente per le generazioni nate dopo il 1970) una stagione di strenua battaglia per evitare che l’onda di marea del saccheggio liberista ci affoghi come talpe nelle tane. Su questa stessa rivista e su Rinascita è stata ampliamente argomentata la natura strutturale della crisi, irreversibile perché contestuale ad un insensato abuso di risorse che ha pesantemente intaccato la produttività globale devastando i principali ecosistemi. Il capitalismo liberista mostra oggi tutta la sua insensatezza ma, come una mandria impazzita, è ancora capace di fare enormi danni prima di essere fermato.
Avevo accennato precedentemente al crollo dei prezzi dei prodotti agricoli in Europa. Se la situazione non viene corretta porterà come conseguenza la svendita dei terreni da parte degli agricoltori proprietari a vantaggio del macrocapitale. Per il momento, in Italia, non è il credito ad essere negato agli agricoltori; anche la situazione debitoria è limitata, ma può rapidamente peggiorare, se la redditività delle aziende agricole non risale. E’ assurdo che il mais venga pagato all’origine 0,12 euro al Kg, così come il frumento panificabile a 0,17 euro al Kg; è una diminuzione dell’ordine del 50% rispetto ai prezzi del 2008 considerando poi che, al consumo, i generi alimentari (pane, pasta farina) hanno subito rincari in tutto il 2009. E’ ancora più assurdo che latte di alta qualità venga venduto alla stalla a 27 cent. Al libro, quando al consumatore costa 1,50 -1,60 euro al litro. Tutto ciò è frutto di speculazione in regime di libero mercato e per il settore lattiero è dovuto in particolare alla possibilità di importare latte estero di scarsa qualità ed alla ridotta capacità di assorbimento da parte dei mercati internazionali del latte italiano. Nel 2008 il latte alla stalla veniva pagato 42 cent! Se si considera che la produzione nazionale non copre neppure il fabbisogno interno, c’è evidentemente qualcosa di profondamente sbagliato che va corretto. Quando il prezzo del latte sarà tornato più alto molti allevatori potranno aver chiuso le aziende; si saranno persi posti di lavoro, persa una tradizione produttiva, persi prodotti tipici lattiero-caseari, persa la possibilità di riorganizzare l’allevamento bovino su basi più sane, più naturali (9). Verso metà ottobre qualcuno ha tirato fuori soldi pubblici (fondi europei) e ha dato un po’ di ossigeno ai produttori di latte. I problemi di fondo però restano: il mercato delle materie prime è in mano agli speculatori, la vendita degli alimentari al consumatore finale è monopolizzata dalla grande distribuzione organizzata (GDO) che ha la forza di imporre il prezzo a chi produce. Al di sotto della GDO ed ancora al di sotto dei produttori e degli intermediari, c’è l’agricoltore, che deve accontentarsi di ciò che gli danno. Eppure è innegabile che il settore economico in assoluto più importante in ogni paese sia l’agricoltura, non perché fa più Pil, ma perché garantisce sussistenza alimentare e soprattutto perché riguarda il territorio dell’intera nazione, la cui gestione ha ricadute generali di assoluta rilevanza. Un’agricoltura pulita, dove l’uso dei prodotti chimici sia qualificato e ridotto al minimo, dove le varietà culturali e le tecniche di coltivazione vengono studiate da lungo tempo per quel particolare terreno e per quella particolare area climatica, è un’immensa ricchezza per tutta la nazione. Al contrario, un’agricoltura dipendente dalla chimica, orientata dai tecnici delle multinazionali, in balia dei capricci del mercato sarebbe la fine di ciò che la tradizione italiana ancora rappresenta nel mondo, oltre che di tante altre cose.
Le associazioni di categoria degli agricoltori stanno finalmente muovendosi per ricollegare la produzione al consumo, ma sono sforzi di cui la politica dovrebbe capire l’assoluta urgenza favorendone l’esito con tutti i mezzi disponibili e senza curarsi del diktat liberista. Più di vent’anni fa si è permesso che grosse società come Parmalat ponessero fuori mercato le centrali del latte a carattere locale, pubbliche o di produttori consorziati. Poi sappiamo quanto ci sia costata la Parmalat coi suoi titoli, emessi col supporto di Bank of America. Oggi si sta concedendo un assurdo monopolio ed ulteriori possibilità espansiva alla GDO; essa uccide il piccolo commercio e penalizza indirettamente interi comparti produttivi, l’alimentare in primis.
Il problema è ancora una volta politico: esiste una classe politica capace di interpretare i problemi del Paese e di farsene carico anche resistendo alle pressioni dei poteri forti? Tutto ciò che è accaduto in altre parti del mondo dovrebbe insegnarci qualcosa, ma siamo ideologicamente in grado di apprenderne la lezione? Idioti e pusillanimi di casa nostra si scontrano in parlamento come se ciò di cui discutono sia in grado di migliorare anziché affossare la collettività; per corruzione, superficialità ma soprattutto ipocrisia ciascuno di loro trova il modo di non fare o non proporre ciò che è assolutamente necessario.
NOTE
(1) Questo è il nome del documento, derivato da una riunione tra l’establisment USA e 10 capi di stato dell’America Latina, in cui si prescrivevano le misure per “riformare” la politica economica in quell’area del mondo. Il termine era stato coniato nel 1989 dall’economista John Williamson dell’Istituto di Economia Internazionale nella capitale statunitense; egli mise a punto i dettagli economici per l’attacco neoliberista degli anni Novanta ai popoli latino-americani.
(2) In questi ultimi anni, rispetto al periodo del Consenso di Washington, le strategie neocoloniali in America Latina sono sempre le stesse, ma ne è cambiato il nome; in particolare nel Centro America da circa sei anni lo strumento di penetrazione economica da parte del macrocapitalismo si chiama Tlc (trattato di libero commercio). Sono sempre stati accordi con gli USA ma, per la prima volta nel 2008, è stato siglato un Tlc con l’Europa; si tratta dell’Acuerdo de Asociaciòn entre América Central y la Uniòn Europea, esso ripropone i contenuti liberisti dei soliti Tlc oltre ad intenti di dialogo politico. Non dobbiamo pensare che si tratti di un accordo tra Popoli, perché in realtà promotori e fruitori di questi accordi sono sempre le multinazionali, che in questo caso hanno usato per i loro scopi la piattaforma europea anziché quella atlantica.
(3) Dal 1993 al 2003, ad esempio, in Nicaragua il credito verso i produttori agricoli è passato dal 34% al 4%. Contestualmente nella regione venivano importati cereali dal Nord America, produzioni che il governo statunitense sovvenzionava per favorirne la vendita. Poi si pretende che l’Europa smetta con le Pac nel 2012!?
(4) Nelle bidonvilles ai margini delle città c’è una massa umana che vive di espedienti, di non lavori: vendita ambulante di ciarpame vario, caramelle, sigarette…; in certe città ci sono i “cartoneros”che selezionano nell’immondizia la carta, il cartone e qualsiasi altro materiale sfruttabile. I più fortunati lavorano nell’industria manifatturiera con salari che, nel Centro America, oscillano intorno ai 30 cent. Di euro all’ora.
(5) Chi se la cava meglio sono i delinquenti, gente disposta a tutto, che trova nelle inefficienze e nel buonismo umanitario dei Paesi di accoglienza uno spazio per sopravvivere senza sottomettersi.
(6) La gente comune è decisamente più consapevole dei leaders politici. In Italia la gran parte degli elettori non vuole una società multietnica, ma si trova ad essere “guidata” da corrotti che hanno costruito la loro carriera personale sulla più irriflessiva ed opportunistica retorica. Il bipolarismo “obbliga” un lavoratore tradizionalmente di sinistra (ma incazzato per avere perso il lavoro a causa della manodopera cinese) a valutare una triade di possibili segretari del Pd, ciascuno dei quali vuole facilitare ingresso e permanenza degli immigrati in Italia. Non ci sono parole, se non di vituperio, per definire l’ex neofascista presidente della Camera, Gianfranco Fini, che flirta con i “dalemiani” della Fondazione Italiani Europei per un progetto bipartisan sull’immigrazione a danno di tutto il paese. La differenza tra lui e un Bersani è che il secondo a maggiori scusanti biografiche.
(7) La tappa più nefasta dei processi di globalizzazione dei mercati possiamo collocarla nel 1994, allorché 135 nazioni furono convinte a dare vita al WTO (World Trade Organisation). Questa “chiesa” del libero commercio, attraverso accordi internazionali ai quali è difficile sottrarsi, cerca di impedire o sanzionare qualunque forma di protezionismo o comunque di argine (posto da singoli governi) alla mercificazione di ogni aspetto sociale: dal credito all’istruzione, dalla sanità all’alimentazione, dall’arte all’assistenza sociale, alle pensioni. La religione liberista impedisce nei fatti di progettare una società sana, favorendo invece il “dumping” sociale ed ambientale; esso è evasione di norme a tutela del lavoratore e dell’ambiente da parte di un capitale libero di spostarsi ovunque. Ciò sta devastando le strutture sociali più evolute, vanificando diritti acquisiti e tentativi di tutela del patrimonio naturale.
(8) L’Argentina, dopo le privatizzazioni di Carlos Menem nel 1991, scivolò via via in una condizione che la resero terreno ideale della speculazione finanziaria e facile preda per un saccheggio generalizzato. Il crollo economico fu nel 2001 sotto il governo di Fernando De La Rùa, insediatosi a fine 1999 e fuggito dal Paese nel dicembre 2001. Il caso di Cuba andrebbe trattato a parte, perché è stato l’unico Paese latinoamericano a sottrarsi fin dall’inizio alla globalizzazione; le sue tentazioni liberal-capitaliste sono molto recenti.
(9) Chi produce latte oggi spende una fortuna in ormoni, antibiotici ed antinfiammatori, soldi che vanno alle multinazionali. Le tecniche di allevamento intensivo e la stessa selezione genetica delle razze da latte hanno spinto per una produzione pro capite altissime, che però espone l’animale a continue infezioni ed infiammazioni (mastosi soprattutto). Non c’è natura nelle razze con ipertrofia secretiva, non c’è natura negli angusti spazi che occupa l’animale, non ce n’era nei mangimi (vedi BSE, il caso della “mucca pazza”), ce n’è ancor meno nel trasportare il latte per centinaia o per migliaia di chilometri pur di pagarlo meno.
di Enzo Caprioli -
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14 settembre 2010
La programmazione di un saccheggio
L’America Latina, cavia del Mondialismo – Agricoltura: il turno dell’Europa – Idioti e pusillanimi di casa nostra
Per capire i fenomeni socio-economici in atto in Europa può essere particolarmente utile osservare una realtà geografica, dall’altra parte del mondo, che ha un estremo rapporto di sudditanza nei confronti del capitalismo USA: L’America latina.
Nei Paesi latino-americani, nell’ultimo mezzo secolo ci sono state tre differenti fasi storiche, tutte improntate dal tentativo di affrancamento almeno parziale dal gioco statunitense, ma ciascuna di esse ha fallito. Una prima fase fu caratterizzata dalle cosiddette dittature militari, una seconda fu quella dei governi neoliberali e la terza, può essere definita come fase dei governi popolari con impostazione personalistica da parte del premier (Lula in Brasile, Chavez in Venezuela, Morales in Bolivia…). Le dittature militari, nell’immaginario della sinistra, vengono viste come l’espressione più diretta del colonialismo USA: questa è in realtà una semplificazione ideologica. Certamente andrebbero analizzate le situazioni di ciascun Paese e le figure rappresentative che ne sono state parzialmente artefici; si può però in generale affermare con attendibilità storica che le caste militari, con i loro governi, siano state alternativamente osteggiate o usate dagli USA. La regola era sempre la stessa: finché il governo in questione consentiva alle corporation buoni affari (leggi saccheggio) c’era il sostegno da parte USA, quando il governo cercava di riorganizzarsi attorno al concetto di sovranità nazionale allora veniva finanziata ed armata l’opposizione. Gli USA hanno alimentato lotte civili che sono costate, ad esempio, 50.000 morti in Nicaragua, 100.000 morti in El Salvador, 250.000 morti in Guatemala.
La strategia neocolonialista ormai consolidata comporta il mantenere una profonda frattura tra le maggiori componenti sociali della nazione suddita; quando una delle due rischia di prevalere nettamente si infiltra e si finanzia quella avversa. Antifascismo e anticomunismo sono le forme ideologiche che giustificano i vari spostamenti tattici.
La fase storica peggiore in America latina è arrivata dopo le dittature e si è trattato di quella dei governi neoliberali; governi il cui avvento è stato favorito rito dal collasso economico pilotato dalla grande finanza, ma imputato alle giunte militari.
Le misure prescritte dagli USA, note come “Consenso di Washington” (1) ai governi che Hanno sostituito queste giunte, sono esattamente le stesse che l’Europa degli ultimi dieci anni ha adottato e sta adottando: liberalizzazione dei mercati e allentamento dei vincoli di ogni tipo, privatizzazione delle aziende, beni pubblici e funzioni pubbliche, elevata imposizione fiscale che soffoca i piccoli operatori economici nazionali a vantaggio dei colossi internazionali (che hanno strumenti per gestire e raggirare il fisco), riduzione della spesa pubblica con piani di rientro del debito; in altre parole potere e discrezionalità nazionali pesantemente ridimensionate e subordinate alle direttive generali del grande capitale (2).
Con gli anni novanta si concluse una fase di lotte intestine provocate dagli USA, per approdare all’abbandono totale della sovranità da parte dei vari stati nei settori strategici e strutturali della vita nazionale. Ad esempio, con la privatizzazione dei sistemi pubblici dell’educazione e della salute non si ebbe qualificazione dei servizi bensì riduzione della loro fruibilità e soprattutto perdita di redditi sicuri per le famiglie degli insegnanti e dei sanitari, con limitazione anche nella loro dignità e libertà professionale. La svendita delle imprese pubbliche n ei comparti strategici di energia, trasporti, acqua e telefonia… avrebbe dovuto ridurre il costo dei servizi stessi, ma ne ha invece peggiorato la qualità, creato giungle tariffarie, minato la già scarsa efficienza delle reti di collegamento e cancellato posti di lavoro relativamente stabili. Tutto ciò è accaduto in un contesto sociale già povero e male organizzato rispetto al nostro, ma i danni sono stati dello stesso tipo.
Il comparto produttivo che vale la pena di osservare con maggiore attenzione è quello dell’agricoltura, perché essa è la base su cui poggia l’economia reale di ogni nazione. In Europa stiamo assistendo proprio in questi mesi ad una manovra assurda sui prezzi all’origine, che sta mettendo in ginocchio i produttori di latte, bestiame da carne, di prodotti agricoli per l’alimentazione umana. Vediamo ciò che è accaduto in America Latina nel periodo dei governi neoliberali. Con la privatizzazione del sistema creditizio, il grande capitale ha concesso credito laddove c’era maggiore opportunità speculativa, abbandonando la clientela più frammentata. Il commercio più della produzione ed i grossi clienti più di quelli piccoli hanno beneficiato del credito, che prima invece sosteneva a pioggia un po’ tutte le componenti sociali ed i particolare i piccoli allevatori ed agricoltori (3). I contadini, non più sostenuti da un sistema creditizio pubblico con una certa attenzione sociale, spesso finivano col dover ipotecare la loro terra per acquistare sementi, concimi e quant’altro. Dalle ipoteche alla perdita degli appezzamenti il passo era breve, poteva bastare una stagione agraria sfavorevole, un uragano o anche soltanto una flessione del prezzo di vendita del raccolto sui mercati, dovuto magari alla speculazione.
Col passaggio di proprietà delle terre dai piccoli produttori ai latifondisti si perse tutto il sistema agricolo tradizionale, più sostenibile rispetto a quello dell’agro-industria; si perdono anche la tradizione alimentare locale e le reti sociali che le fanno da contorno. Passo conclusivo di questa involuzione sociale è l’abbandono delle campagne e di tutto quel patrimonio secolare di competenze che conferiva dignità ed autonomia al lavoro. Contadini privati dei propri mezzi di sostentamento hanno finito con l’ammassarsi nei grossi centri urbani, dove sopravvivono in condizioni miserevoli ed indegne di un essere umano (4).
L’esodo dalle campagne può avere anche altri esiti: l’emigrazione internazionale. In genere questa possibilità viene presa in considerazione più dagli uomini che dalle donne, ciò spacca i nuclei familiari ed espone chi la tenta a grossi rischi. La speranza di una vita migliore per lo più si scontra con la realtà di uno sradicamento definitivo ed alienante (5), quando non addirittura con una fine prematura. Su questo argomento non serve fare del pietismo senza costrutto, come qui in Italia fanno purtroppo molti ambienti cattolici e gli esponenti di punta della sinistra (6); si tratta invece di mettere a fuoco la reale tragicità di scelte individuali, non buone per chi le compie e non buone per collettività come la nostra che subisce, nei termini di un flusso migratorio invasivo. L’accoglienza non risolve il problema a nessuno, anzi tampona le mostruose conseguenze della speculazione macroeconomica rimandando a data da destinarsi le sacrosante necessarie contromisure, che soltanto una nuova consapevolezza etico-politica può generare.
Il pensiero unico globali sta, che ha come premessa assoluta il primato dell’economia sulla politica, codifica, in termini sia ideologici che culturali la necessità che il capitale internazionale ha di mantenere più aperte possibili tutte le opportunità speculative, a scapito del mondo come ecosistema e del mondo come insieme di comunità solidali (gli stati nazionali) (7).
Le grandi migrazioni transanazionali ne sono un corollario indispensabile, perché valvola di sfogo che previene sollevazioni popolari; servono nei luoghi di espatrio per illudere, servono nei luoghi di afflusso per diluire la coscienza nazionale ed impedire fenomeni di compatta reazione sociale. Altri “desiderata” del pensiero unico sono: che i gusti del consumatore si uniformino alle produzioni offerte dalle multinazionali su scala planetaria, che la solidarietà entro la classe sociale abbiente si internazionalizzi, impedendo che uno spirito patriottico possa trovare dalla stessa parte imprenditori, tecnici, artisti, intellettuali e manodopera. Lotta aperta quindi contemporaneamente contro il nazionalismo e contro la socialità.
La diaspora dei centro-americani ha comportato un risvolto economico di particolare significato: le rimesse dall’estero. Attualmente, sempre come conseguenza dei governi neoliberali, circa il 70% della popolazione in America Centrale vive con meno di 3 euro al giorno; gli espatri (4,5 milioni di cui gran parte vivono negli USA) sono quindi divenuti essenziali per il sostentamento dei compatrioti rimasti a casa. I soldi mandati in patria rappresentano ben il 15% del Pil di tutta la regione centro-americana, mentre un altro 15% è rappresentato dalla cooperazione internazionale. In questa situazione, di dipendenza ed assoluta precarietà, sguazza un gruppo molto ristretto di famiglie (une decina) ricchissime, che hanno rapporti con le multinazionali e con la grande finanza; la classe media che vive di lavoro (professionisti, tecnici, docenti…) è in bilico tra sussistenza e povertà. Alcuni degli attuali governi popolari dell’America Latina, in particolare Venezuela, Bolivia, Ecuador, Nicaragua e Argentina (8) stanno tentando correttivi rispetto allo tsunami liberista degli anni Novanta, ma la strada è tutta in salita: gli effetti devastanti prodotti sono difficilmente reversibili e la sudditanza economico-politica è pesante. Essi hanno però un vantaggio rispetto ai nostri governi europei: la maggior consapevolezza della natura criminosa del grande capitale internazionale. O si sceglie coscientemente collaborazionismo e corruzione, o quello che si deve fare è più chiaro.
Nella nostra presunzione europea ci siamo sempre sentiti estranei a situazioni di “fogna” sociale tipiche dell’America Latina; purtroppo l’epoca dei privilegi privatistici è conclusa mentre si è aperta (particolarmente per le generazioni nate dopo il 1970) una stagione di strenua battaglia per evitare che l’onda di marea del saccheggio liberista ci affoghi come talpe nelle tane. Su questa stessa rivista e su Rinascita è stata ampliamente argomentata la natura strutturale della crisi, irreversibile perché contestuale ad un insensato abuso di risorse che ha pesantemente intaccato la produttività globale devastando i principali ecosistemi. Il capitalismo liberista mostra oggi tutta la sua insensatezza ma, come una mandria impazzita, è ancora capace di fare enormi danni prima di essere fermato.
Avevo accennato precedentemente al crollo dei prezzi dei prodotti agricoli in Europa. Se la situazione non viene corretta porterà come conseguenza la svendita dei terreni da parte degli agricoltori proprietari a vantaggio del macrocapitale. Per il momento, in Italia, non è il credito ad essere negato agli agricoltori; anche la situazione debitoria è limitata, ma può rapidamente peggiorare, se la redditività delle aziende agricole non risale. E’ assurdo che il mais venga pagato all’origine 0,12 euro al Kg, così come il frumento panificabile a 0,17 euro al Kg; è una diminuzione dell’ordine del 50% rispetto ai prezzi del 2008 considerando poi che, al consumo, i generi alimentari (pane, pasta farina) hanno subito rincari in tutto il 2009. E’ ancora più assurdo che latte di alta qualità venga venduto alla stalla a 27 cent. Al libro, quando al consumatore costa 1,50 -1,60 euro al litro. Tutto ciò è frutto di speculazione in regime di libero mercato e per il settore lattiero è dovuto in particolare alla possibilità di importare latte estero di scarsa qualità ed alla ridotta capacità di assorbimento da parte dei mercati internazionali del latte italiano. Nel 2008 il latte alla stalla veniva pagato 42 cent! Se si considera che la produzione nazionale non copre neppure il fabbisogno interno, c’è evidentemente qualcosa di profondamente sbagliato che va corretto. Quando il prezzo del latte sarà tornato più alto molti allevatori potranno aver chiuso le aziende; si saranno persi posti di lavoro, persa una tradizione produttiva, persi prodotti tipici lattiero-caseari, persa la possibilità di riorganizzare l’allevamento bovino su basi più sane, più naturali (9). Verso metà ottobre qualcuno ha tirato fuori soldi pubblici (fondi europei) e ha dato un po’ di ossigeno ai produttori di latte. I problemi di fondo però restano: il mercato delle materie prime è in mano agli speculatori, la vendita degli alimentari al consumatore finale è monopolizzata dalla grande distribuzione organizzata (GDO) che ha la forza di imporre il prezzo a chi produce. Al di sotto della GDO ed ancora al di sotto dei produttori e degli intermediari, c’è l’agricoltore, che deve accontentarsi di ciò che gli danno. Eppure è innegabile che il settore economico in assoluto più importante in ogni paese sia l’agricoltura, non perché fa più Pil, ma perché garantisce sussistenza alimentare e soprattutto perché riguarda il territorio dell’intera nazione, la cui gestione ha ricadute generali di assoluta rilevanza. Un’agricoltura pulita, dove l’uso dei prodotti chimici sia qualificato e ridotto al minimo, dove le varietà culturali e le tecniche di coltivazione vengono studiate da lungo tempo per quel particolare terreno e per quella particolare area climatica, è un’immensa ricchezza per tutta la nazione. Al contrario, un’agricoltura dipendente dalla chimica, orientata dai tecnici delle multinazionali, in balia dei capricci del mercato sarebbe la fine di ciò che la tradizione italiana ancora rappresenta nel mondo, oltre che di tante altre cose.
Le associazioni di categoria degli agricoltori stanno finalmente muovendosi per ricollegare la produzione al consumo, ma sono sforzi di cui la politica dovrebbe capire l’assoluta urgenza favorendone l’esito con tutti i mezzi disponibili e senza curarsi del diktat liberista. Più di vent’anni fa si è permesso che grosse società come Parmalat ponessero fuori mercato le centrali del latte a carattere locale, pubbliche o di produttori consorziati. Poi sappiamo quanto ci sia costata la Parmalat coi suoi titoli, emessi col supporto di Bank of America. Oggi si sta concedendo un assurdo monopolio ed ulteriori possibilità espansiva alla GDO; essa uccide il piccolo commercio e penalizza indirettamente interi comparti produttivi, l’alimentare in primis.
Il problema è ancora una volta politico: esiste una classe politica capace di interpretare i problemi del Paese e di farsene carico anche resistendo alle pressioni dei poteri forti? Tutto ciò che è accaduto in altre parti del mondo dovrebbe insegnarci qualcosa, ma siamo ideologicamente in grado di apprenderne la lezione? Idioti e pusillanimi di casa nostra si scontrano in parlamento come se ciò di cui discutono sia in grado di migliorare anziché affossare la collettività; per corruzione, superficialità ma soprattutto ipocrisia ciascuno di loro trova il modo di non fare o non proporre ciò che è assolutamente necessario.
NOTE
(1) Questo è il nome del documento, derivato da una riunione tra l’establisment USA e 10 capi di stato dell’America Latina, in cui si prescrivevano le misure per “riformare” la politica economica in quell’area del mondo. Il termine era stato coniato nel 1989 dall’economista John Williamson dell’Istituto di Economia Internazionale nella capitale statunitense; egli mise a punto i dettagli economici per l’attacco neoliberista degli anni Novanta ai popoli latino-americani.
(2) In questi ultimi anni, rispetto al periodo del Consenso di Washington, le strategie neocoloniali in America Latina sono sempre le stesse, ma ne è cambiato il nome; in particolare nel Centro America da circa sei anni lo strumento di penetrazione economica da parte del macrocapitalismo si chiama Tlc (trattato di libero commercio). Sono sempre stati accordi con gli USA ma, per la prima volta nel 2008, è stato siglato un Tlc con l’Europa; si tratta dell’Acuerdo de Asociaciòn entre América Central y la Uniòn Europea, esso ripropone i contenuti liberisti dei soliti Tlc oltre ad intenti di dialogo politico. Non dobbiamo pensare che si tratti di un accordo tra Popoli, perché in realtà promotori e fruitori di questi accordi sono sempre le multinazionali, che in questo caso hanno usato per i loro scopi la piattaforma europea anziché quella atlantica.
(3) Dal 1993 al 2003, ad esempio, in Nicaragua il credito verso i produttori agricoli è passato dal 34% al 4%. Contestualmente nella regione venivano importati cereali dal Nord America, produzioni che il governo statunitense sovvenzionava per favorirne la vendita. Poi si pretende che l’Europa smetta con le Pac nel 2012!?
(4) Nelle bidonvilles ai margini delle città c’è una massa umana che vive di espedienti, di non lavori: vendita ambulante di ciarpame vario, caramelle, sigarette…; in certe città ci sono i “cartoneros”che selezionano nell’immondizia la carta, il cartone e qualsiasi altro materiale sfruttabile. I più fortunati lavorano nell’industria manifatturiera con salari che, nel Centro America, oscillano intorno ai 30 cent. Di euro all’ora.
(5) Chi se la cava meglio sono i delinquenti, gente disposta a tutto, che trova nelle inefficienze e nel buonismo umanitario dei Paesi di accoglienza uno spazio per sopravvivere senza sottomettersi.
(6) La gente comune è decisamente più consapevole dei leaders politici. In Italia la gran parte degli elettori non vuole una società multietnica, ma si trova ad essere “guidata” da corrotti che hanno costruito la loro carriera personale sulla più irriflessiva ed opportunistica retorica. Il bipolarismo “obbliga” un lavoratore tradizionalmente di sinistra (ma incazzato per avere perso il lavoro a causa della manodopera cinese) a valutare una triade di possibili segretari del Pd, ciascuno dei quali vuole facilitare ingresso e permanenza degli immigrati in Italia. Non ci sono parole, se non di vituperio, per definire l’ex neofascista presidente della Camera, Gianfranco Fini, che flirta con i “dalemiani” della Fondazione Italiani Europei per un progetto bipartisan sull’immigrazione a danno di tutto il paese. La differenza tra lui e un Bersani è che il secondo a maggiori scusanti biografiche.
(7) La tappa più nefasta dei processi di globalizzazione dei mercati possiamo collocarla nel 1994, allorché 135 nazioni furono convinte a dare vita al WTO (World Trade Organisation). Questa “chiesa” del libero commercio, attraverso accordi internazionali ai quali è difficile sottrarsi, cerca di impedire o sanzionare qualunque forma di protezionismo o comunque di argine (posto da singoli governi) alla mercificazione di ogni aspetto sociale: dal credito all’istruzione, dalla sanità all’alimentazione, dall’arte all’assistenza sociale, alle pensioni. La religione liberista impedisce nei fatti di progettare una società sana, favorendo invece il “dumping” sociale ed ambientale; esso è evasione di norme a tutela del lavoratore e dell’ambiente da parte di un capitale libero di spostarsi ovunque. Ciò sta devastando le strutture sociali più evolute, vanificando diritti acquisiti e tentativi di tutela del patrimonio naturale.
(8) L’Argentina, dopo le privatizzazioni di Carlos Menem nel 1991, scivolò via via in una condizione che la resero terreno ideale della speculazione finanziaria e facile preda per un saccheggio generalizzato. Il crollo economico fu nel 2001 sotto il governo di Fernando De La Rùa, insediatosi a fine 1999 e fuggito dal Paese nel dicembre 2001. Il caso di Cuba andrebbe trattato a parte, perché è stato l’unico Paese latinoamericano a sottrarsi fin dall’inizio alla globalizzazione; le sue tentazioni liberal-capitaliste sono molto recenti.
(9) Chi produce latte oggi spende una fortuna in ormoni, antibiotici ed antinfiammatori, soldi che vanno alle multinazionali. Le tecniche di allevamento intensivo e la stessa selezione genetica delle razze da latte hanno spinto per una produzione pro capite altissime, che però espone l’animale a continue infezioni ed infiammazioni (mastosi soprattutto). Non c’è natura nelle razze con ipertrofia secretiva, non c’è natura negli angusti spazi che occupa l’animale, non ce n’era nei mangimi (vedi BSE, il caso della “mucca pazza”), ce n’è ancor meno nel trasportare il latte per centinaia o per migliaia di chilometri pur di pagarlo meno.
di Enzo Caprioli -
Per capire i fenomeni socio-economici in atto in Europa può essere particolarmente utile osservare una realtà geografica, dall’altra parte del mondo, che ha un estremo rapporto di sudditanza nei confronti del capitalismo USA: L’America latina.
Nei Paesi latino-americani, nell’ultimo mezzo secolo ci sono state tre differenti fasi storiche, tutte improntate dal tentativo di affrancamento almeno parziale dal gioco statunitense, ma ciascuna di esse ha fallito. Una prima fase fu caratterizzata dalle cosiddette dittature militari, una seconda fu quella dei governi neoliberali e la terza, può essere definita come fase dei governi popolari con impostazione personalistica da parte del premier (Lula in Brasile, Chavez in Venezuela, Morales in Bolivia…). Le dittature militari, nell’immaginario della sinistra, vengono viste come l’espressione più diretta del colonialismo USA: questa è in realtà una semplificazione ideologica. Certamente andrebbero analizzate le situazioni di ciascun Paese e le figure rappresentative che ne sono state parzialmente artefici; si può però in generale affermare con attendibilità storica che le caste militari, con i loro governi, siano state alternativamente osteggiate o usate dagli USA. La regola era sempre la stessa: finché il governo in questione consentiva alle corporation buoni affari (leggi saccheggio) c’era il sostegno da parte USA, quando il governo cercava di riorganizzarsi attorno al concetto di sovranità nazionale allora veniva finanziata ed armata l’opposizione. Gli USA hanno alimentato lotte civili che sono costate, ad esempio, 50.000 morti in Nicaragua, 100.000 morti in El Salvador, 250.000 morti in Guatemala.
La strategia neocolonialista ormai consolidata comporta il mantenere una profonda frattura tra le maggiori componenti sociali della nazione suddita; quando una delle due rischia di prevalere nettamente si infiltra e si finanzia quella avversa. Antifascismo e anticomunismo sono le forme ideologiche che giustificano i vari spostamenti tattici.
La fase storica peggiore in America latina è arrivata dopo le dittature e si è trattato di quella dei governi neoliberali; governi il cui avvento è stato favorito rito dal collasso economico pilotato dalla grande finanza, ma imputato alle giunte militari.
Le misure prescritte dagli USA, note come “Consenso di Washington” (1) ai governi che Hanno sostituito queste giunte, sono esattamente le stesse che l’Europa degli ultimi dieci anni ha adottato e sta adottando: liberalizzazione dei mercati e allentamento dei vincoli di ogni tipo, privatizzazione delle aziende, beni pubblici e funzioni pubbliche, elevata imposizione fiscale che soffoca i piccoli operatori economici nazionali a vantaggio dei colossi internazionali (che hanno strumenti per gestire e raggirare il fisco), riduzione della spesa pubblica con piani di rientro del debito; in altre parole potere e discrezionalità nazionali pesantemente ridimensionate e subordinate alle direttive generali del grande capitale (2).
Con gli anni novanta si concluse una fase di lotte intestine provocate dagli USA, per approdare all’abbandono totale della sovranità da parte dei vari stati nei settori strategici e strutturali della vita nazionale. Ad esempio, con la privatizzazione dei sistemi pubblici dell’educazione e della salute non si ebbe qualificazione dei servizi bensì riduzione della loro fruibilità e soprattutto perdita di redditi sicuri per le famiglie degli insegnanti e dei sanitari, con limitazione anche nella loro dignità e libertà professionale. La svendita delle imprese pubbliche n ei comparti strategici di energia, trasporti, acqua e telefonia… avrebbe dovuto ridurre il costo dei servizi stessi, ma ne ha invece peggiorato la qualità, creato giungle tariffarie, minato la già scarsa efficienza delle reti di collegamento e cancellato posti di lavoro relativamente stabili. Tutto ciò è accaduto in un contesto sociale già povero e male organizzato rispetto al nostro, ma i danni sono stati dello stesso tipo.
Il comparto produttivo che vale la pena di osservare con maggiore attenzione è quello dell’agricoltura, perché essa è la base su cui poggia l’economia reale di ogni nazione. In Europa stiamo assistendo proprio in questi mesi ad una manovra assurda sui prezzi all’origine, che sta mettendo in ginocchio i produttori di latte, bestiame da carne, di prodotti agricoli per l’alimentazione umana. Vediamo ciò che è accaduto in America Latina nel periodo dei governi neoliberali. Con la privatizzazione del sistema creditizio, il grande capitale ha concesso credito laddove c’era maggiore opportunità speculativa, abbandonando la clientela più frammentata. Il commercio più della produzione ed i grossi clienti più di quelli piccoli hanno beneficiato del credito, che prima invece sosteneva a pioggia un po’ tutte le componenti sociali ed i particolare i piccoli allevatori ed agricoltori (3). I contadini, non più sostenuti da un sistema creditizio pubblico con una certa attenzione sociale, spesso finivano col dover ipotecare la loro terra per acquistare sementi, concimi e quant’altro. Dalle ipoteche alla perdita degli appezzamenti il passo era breve, poteva bastare una stagione agraria sfavorevole, un uragano o anche soltanto una flessione del prezzo di vendita del raccolto sui mercati, dovuto magari alla speculazione.
Col passaggio di proprietà delle terre dai piccoli produttori ai latifondisti si perse tutto il sistema agricolo tradizionale, più sostenibile rispetto a quello dell’agro-industria; si perdono anche la tradizione alimentare locale e le reti sociali che le fanno da contorno. Passo conclusivo di questa involuzione sociale è l’abbandono delle campagne e di tutto quel patrimonio secolare di competenze che conferiva dignità ed autonomia al lavoro. Contadini privati dei propri mezzi di sostentamento hanno finito con l’ammassarsi nei grossi centri urbani, dove sopravvivono in condizioni miserevoli ed indegne di un essere umano (4).
L’esodo dalle campagne può avere anche altri esiti: l’emigrazione internazionale. In genere questa possibilità viene presa in considerazione più dagli uomini che dalle donne, ciò spacca i nuclei familiari ed espone chi la tenta a grossi rischi. La speranza di una vita migliore per lo più si scontra con la realtà di uno sradicamento definitivo ed alienante (5), quando non addirittura con una fine prematura. Su questo argomento non serve fare del pietismo senza costrutto, come qui in Italia fanno purtroppo molti ambienti cattolici e gli esponenti di punta della sinistra (6); si tratta invece di mettere a fuoco la reale tragicità di scelte individuali, non buone per chi le compie e non buone per collettività come la nostra che subisce, nei termini di un flusso migratorio invasivo. L’accoglienza non risolve il problema a nessuno, anzi tampona le mostruose conseguenze della speculazione macroeconomica rimandando a data da destinarsi le sacrosante necessarie contromisure, che soltanto una nuova consapevolezza etico-politica può generare.
Il pensiero unico globali sta, che ha come premessa assoluta il primato dell’economia sulla politica, codifica, in termini sia ideologici che culturali la necessità che il capitale internazionale ha di mantenere più aperte possibili tutte le opportunità speculative, a scapito del mondo come ecosistema e del mondo come insieme di comunità solidali (gli stati nazionali) (7).
Le grandi migrazioni transanazionali ne sono un corollario indispensabile, perché valvola di sfogo che previene sollevazioni popolari; servono nei luoghi di espatrio per illudere, servono nei luoghi di afflusso per diluire la coscienza nazionale ed impedire fenomeni di compatta reazione sociale. Altri “desiderata” del pensiero unico sono: che i gusti del consumatore si uniformino alle produzioni offerte dalle multinazionali su scala planetaria, che la solidarietà entro la classe sociale abbiente si internazionalizzi, impedendo che uno spirito patriottico possa trovare dalla stessa parte imprenditori, tecnici, artisti, intellettuali e manodopera. Lotta aperta quindi contemporaneamente contro il nazionalismo e contro la socialità.
La diaspora dei centro-americani ha comportato un risvolto economico di particolare significato: le rimesse dall’estero. Attualmente, sempre come conseguenza dei governi neoliberali, circa il 70% della popolazione in America Centrale vive con meno di 3 euro al giorno; gli espatri (4,5 milioni di cui gran parte vivono negli USA) sono quindi divenuti essenziali per il sostentamento dei compatrioti rimasti a casa. I soldi mandati in patria rappresentano ben il 15% del Pil di tutta la regione centro-americana, mentre un altro 15% è rappresentato dalla cooperazione internazionale. In questa situazione, di dipendenza ed assoluta precarietà, sguazza un gruppo molto ristretto di famiglie (une decina) ricchissime, che hanno rapporti con le multinazionali e con la grande finanza; la classe media che vive di lavoro (professionisti, tecnici, docenti…) è in bilico tra sussistenza e povertà. Alcuni degli attuali governi popolari dell’America Latina, in particolare Venezuela, Bolivia, Ecuador, Nicaragua e Argentina (8) stanno tentando correttivi rispetto allo tsunami liberista degli anni Novanta, ma la strada è tutta in salita: gli effetti devastanti prodotti sono difficilmente reversibili e la sudditanza economico-politica è pesante. Essi hanno però un vantaggio rispetto ai nostri governi europei: la maggior consapevolezza della natura criminosa del grande capitale internazionale. O si sceglie coscientemente collaborazionismo e corruzione, o quello che si deve fare è più chiaro.
Nella nostra presunzione europea ci siamo sempre sentiti estranei a situazioni di “fogna” sociale tipiche dell’America Latina; purtroppo l’epoca dei privilegi privatistici è conclusa mentre si è aperta (particolarmente per le generazioni nate dopo il 1970) una stagione di strenua battaglia per evitare che l’onda di marea del saccheggio liberista ci affoghi come talpe nelle tane. Su questa stessa rivista e su Rinascita è stata ampliamente argomentata la natura strutturale della crisi, irreversibile perché contestuale ad un insensato abuso di risorse che ha pesantemente intaccato la produttività globale devastando i principali ecosistemi. Il capitalismo liberista mostra oggi tutta la sua insensatezza ma, come una mandria impazzita, è ancora capace di fare enormi danni prima di essere fermato.
Avevo accennato precedentemente al crollo dei prezzi dei prodotti agricoli in Europa. Se la situazione non viene corretta porterà come conseguenza la svendita dei terreni da parte degli agricoltori proprietari a vantaggio del macrocapitale. Per il momento, in Italia, non è il credito ad essere negato agli agricoltori; anche la situazione debitoria è limitata, ma può rapidamente peggiorare, se la redditività delle aziende agricole non risale. E’ assurdo che il mais venga pagato all’origine 0,12 euro al Kg, così come il frumento panificabile a 0,17 euro al Kg; è una diminuzione dell’ordine del 50% rispetto ai prezzi del 2008 considerando poi che, al consumo, i generi alimentari (pane, pasta farina) hanno subito rincari in tutto il 2009. E’ ancora più assurdo che latte di alta qualità venga venduto alla stalla a 27 cent. Al libro, quando al consumatore costa 1,50 -1,60 euro al litro. Tutto ciò è frutto di speculazione in regime di libero mercato e per il settore lattiero è dovuto in particolare alla possibilità di importare latte estero di scarsa qualità ed alla ridotta capacità di assorbimento da parte dei mercati internazionali del latte italiano. Nel 2008 il latte alla stalla veniva pagato 42 cent! Se si considera che la produzione nazionale non copre neppure il fabbisogno interno, c’è evidentemente qualcosa di profondamente sbagliato che va corretto. Quando il prezzo del latte sarà tornato più alto molti allevatori potranno aver chiuso le aziende; si saranno persi posti di lavoro, persa una tradizione produttiva, persi prodotti tipici lattiero-caseari, persa la possibilità di riorganizzare l’allevamento bovino su basi più sane, più naturali (9). Verso metà ottobre qualcuno ha tirato fuori soldi pubblici (fondi europei) e ha dato un po’ di ossigeno ai produttori di latte. I problemi di fondo però restano: il mercato delle materie prime è in mano agli speculatori, la vendita degli alimentari al consumatore finale è monopolizzata dalla grande distribuzione organizzata (GDO) che ha la forza di imporre il prezzo a chi produce. Al di sotto della GDO ed ancora al di sotto dei produttori e degli intermediari, c’è l’agricoltore, che deve accontentarsi di ciò che gli danno. Eppure è innegabile che il settore economico in assoluto più importante in ogni paese sia l’agricoltura, non perché fa più Pil, ma perché garantisce sussistenza alimentare e soprattutto perché riguarda il territorio dell’intera nazione, la cui gestione ha ricadute generali di assoluta rilevanza. Un’agricoltura pulita, dove l’uso dei prodotti chimici sia qualificato e ridotto al minimo, dove le varietà culturali e le tecniche di coltivazione vengono studiate da lungo tempo per quel particolare terreno e per quella particolare area climatica, è un’immensa ricchezza per tutta la nazione. Al contrario, un’agricoltura dipendente dalla chimica, orientata dai tecnici delle multinazionali, in balia dei capricci del mercato sarebbe la fine di ciò che la tradizione italiana ancora rappresenta nel mondo, oltre che di tante altre cose.
Le associazioni di categoria degli agricoltori stanno finalmente muovendosi per ricollegare la produzione al consumo, ma sono sforzi di cui la politica dovrebbe capire l’assoluta urgenza favorendone l’esito con tutti i mezzi disponibili e senza curarsi del diktat liberista. Più di vent’anni fa si è permesso che grosse società come Parmalat ponessero fuori mercato le centrali del latte a carattere locale, pubbliche o di produttori consorziati. Poi sappiamo quanto ci sia costata la Parmalat coi suoi titoli, emessi col supporto di Bank of America. Oggi si sta concedendo un assurdo monopolio ed ulteriori possibilità espansiva alla GDO; essa uccide il piccolo commercio e penalizza indirettamente interi comparti produttivi, l’alimentare in primis.
Il problema è ancora una volta politico: esiste una classe politica capace di interpretare i problemi del Paese e di farsene carico anche resistendo alle pressioni dei poteri forti? Tutto ciò che è accaduto in altre parti del mondo dovrebbe insegnarci qualcosa, ma siamo ideologicamente in grado di apprenderne la lezione? Idioti e pusillanimi di casa nostra si scontrano in parlamento come se ciò di cui discutono sia in grado di migliorare anziché affossare la collettività; per corruzione, superficialità ma soprattutto ipocrisia ciascuno di loro trova il modo di non fare o non proporre ciò che è assolutamente necessario.
NOTE
(1) Questo è il nome del documento, derivato da una riunione tra l’establisment USA e 10 capi di stato dell’America Latina, in cui si prescrivevano le misure per “riformare” la politica economica in quell’area del mondo. Il termine era stato coniato nel 1989 dall’economista John Williamson dell’Istituto di Economia Internazionale nella capitale statunitense; egli mise a punto i dettagli economici per l’attacco neoliberista degli anni Novanta ai popoli latino-americani.
(2) In questi ultimi anni, rispetto al periodo del Consenso di Washington, le strategie neocoloniali in America Latina sono sempre le stesse, ma ne è cambiato il nome; in particolare nel Centro America da circa sei anni lo strumento di penetrazione economica da parte del macrocapitalismo si chiama Tlc (trattato di libero commercio). Sono sempre stati accordi con gli USA ma, per la prima volta nel 2008, è stato siglato un Tlc con l’Europa; si tratta dell’Acuerdo de Asociaciòn entre América Central y la Uniòn Europea, esso ripropone i contenuti liberisti dei soliti Tlc oltre ad intenti di dialogo politico. Non dobbiamo pensare che si tratti di un accordo tra Popoli, perché in realtà promotori e fruitori di questi accordi sono sempre le multinazionali, che in questo caso hanno usato per i loro scopi la piattaforma europea anziché quella atlantica.
(3) Dal 1993 al 2003, ad esempio, in Nicaragua il credito verso i produttori agricoli è passato dal 34% al 4%. Contestualmente nella regione venivano importati cereali dal Nord America, produzioni che il governo statunitense sovvenzionava per favorirne la vendita. Poi si pretende che l’Europa smetta con le Pac nel 2012!?
(4) Nelle bidonvilles ai margini delle città c’è una massa umana che vive di espedienti, di non lavori: vendita ambulante di ciarpame vario, caramelle, sigarette…; in certe città ci sono i “cartoneros”che selezionano nell’immondizia la carta, il cartone e qualsiasi altro materiale sfruttabile. I più fortunati lavorano nell’industria manifatturiera con salari che, nel Centro America, oscillano intorno ai 30 cent. Di euro all’ora.
(5) Chi se la cava meglio sono i delinquenti, gente disposta a tutto, che trova nelle inefficienze e nel buonismo umanitario dei Paesi di accoglienza uno spazio per sopravvivere senza sottomettersi.
(6) La gente comune è decisamente più consapevole dei leaders politici. In Italia la gran parte degli elettori non vuole una società multietnica, ma si trova ad essere “guidata” da corrotti che hanno costruito la loro carriera personale sulla più irriflessiva ed opportunistica retorica. Il bipolarismo “obbliga” un lavoratore tradizionalmente di sinistra (ma incazzato per avere perso il lavoro a causa della manodopera cinese) a valutare una triade di possibili segretari del Pd, ciascuno dei quali vuole facilitare ingresso e permanenza degli immigrati in Italia. Non ci sono parole, se non di vituperio, per definire l’ex neofascista presidente della Camera, Gianfranco Fini, che flirta con i “dalemiani” della Fondazione Italiani Europei per un progetto bipartisan sull’immigrazione a danno di tutto il paese. La differenza tra lui e un Bersani è che il secondo a maggiori scusanti biografiche.
(7) La tappa più nefasta dei processi di globalizzazione dei mercati possiamo collocarla nel 1994, allorché 135 nazioni furono convinte a dare vita al WTO (World Trade Organisation). Questa “chiesa” del libero commercio, attraverso accordi internazionali ai quali è difficile sottrarsi, cerca di impedire o sanzionare qualunque forma di protezionismo o comunque di argine (posto da singoli governi) alla mercificazione di ogni aspetto sociale: dal credito all’istruzione, dalla sanità all’alimentazione, dall’arte all’assistenza sociale, alle pensioni. La religione liberista impedisce nei fatti di progettare una società sana, favorendo invece il “dumping” sociale ed ambientale; esso è evasione di norme a tutela del lavoratore e dell’ambiente da parte di un capitale libero di spostarsi ovunque. Ciò sta devastando le strutture sociali più evolute, vanificando diritti acquisiti e tentativi di tutela del patrimonio naturale.
(8) L’Argentina, dopo le privatizzazioni di Carlos Menem nel 1991, scivolò via via in una condizione che la resero terreno ideale della speculazione finanziaria e facile preda per un saccheggio generalizzato. Il crollo economico fu nel 2001 sotto il governo di Fernando De La Rùa, insediatosi a fine 1999 e fuggito dal Paese nel dicembre 2001. Il caso di Cuba andrebbe trattato a parte, perché è stato l’unico Paese latinoamericano a sottrarsi fin dall’inizio alla globalizzazione; le sue tentazioni liberal-capitaliste sono molto recenti.
(9) Chi produce latte oggi spende una fortuna in ormoni, antibiotici ed antinfiammatori, soldi che vanno alle multinazionali. Le tecniche di allevamento intensivo e la stessa selezione genetica delle razze da latte hanno spinto per una produzione pro capite altissime, che però espone l’animale a continue infezioni ed infiammazioni (mastosi soprattutto). Non c’è natura nelle razze con ipertrofia secretiva, non c’è natura negli angusti spazi che occupa l’animale, non ce n’era nei mangimi (vedi BSE, il caso della “mucca pazza”), ce n’è ancor meno nel trasportare il latte per centinaia o per migliaia di chilometri pur di pagarlo meno.
di Enzo Caprioli -
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