05 gennaio 2011

Palestina: quando arrivano le ruspe







La demolizione delle case: un decisivo tassello della pulizia etnica sionista

L’asimmetrico conflitto israelo-palestinese è una lotta per la terra che si consuma metro dopo metro, casa dopo casa, a danno della popolazione palestinese autoctona in patente violazione dei Trattati internazionali e della Convenzione di Ginevra.


Art 53, IV Convenzione di Ginevra (1949)
“È proibita da parte della Potenza Occupante qualsiasi distruzione di beni immobili o personali appartenenti, a titolo individuale o collettivo, a persone private o allo Stato o ad altre autorità pubbliche o a organizzazioni sociali o cooperative, eccetto laddove tale distruzione sia resa assolutamente necessaria da operazioni militari".
Il 9 novembre il quotidiano israeliano Haaretz riportava che, nonostante il rimprovero della Casabianca per la ininterrotta costruzione di abitazioni illegali sul territorio palestinese occupato (TPO), il piano israeliano di edificazione di centinaia di nuovi alloggi a Gerusalemme Est proseguiva imperterrito[1]. Contemporaneamente, in quegli stessi giorni, continuavano gli ordini di demolizione di case e di sfratto di famiglie palestinesi nella parte araba della città[2].

L’ICHAD (Comitato Israeliano Contro la Demolizione delle Case) stima che, dal 1967 al 28 luglio 2010, nel TPO siano state demolite 24.813 strutture abitative palestinesi, 2.000 soltanto a Gerusalemme Est. Dall’anno 2000 al gennaio 2009 sono state abbattute 10.105 case, una media di 1.011 all’anno. Il numero di ordini di demolizione ancora da eseguire e’ a tutt’oggi pari a circa 20.000[3].

Le autorità israeliane giustificano la demolizione di case con ragioni o militari (deterrenza e anti-terrorismo) o amministrative per la mancanza di permessi o la violazione di norme abitative. Secondo molte organizzazioni, come Amnesty International e il Comitato Internazionale della Croce Rossa, questi interventi hanno invece due principali motivazioni:
1. infliggere una “punizione collettiva” alla popolazione innocente (comportamento considerato un crimine di guerra dalla 4° Convenzione di Ginevra);
2. appropriarsi di territorio palestinese e, a Gerusalemme Est, modificare la percentuale della popolazione residente a favore della componente ebraica. Il primo tipo di demolizioni avviene soprattutto durante i periodi di conflitto armato; il secondo tipo, più importante in termini numerici e per il suo significato politico, si sta protraendo da decenni con un picco di particolare frequenza in questi ultimi mesi.

L’autorità israeliana persegue come illegali le costruzioni effettuate senza autorizzazione per le quali in genere fa seguire l’ordine di abbattimento. I palestinesi che vivono sotto occupazione israeliana a Gerusalemme Est e nell’area C della Cisgiordania sono sottoposti a divieti di edificazione talmente rigidi che molte famiglie devono subire la violenza distruttiva delle ruspe e la privazione del diritto ad una casa.

Gli Accordi di Oslo (1993) prevedevano che Israele mantenesse per alcuni anni il controllo civile e militare della cosiddetta Area C, equivalente a più del 60% della Cisgiordania. I circa 150.000 palestinesi che vivono in quelle zone soffrono di notevoli restrizioni a costruire e a muoversi liberamente. Migliaia di ettari (il 18% della Cisgiordania), in particolare la Valle del Giordano e le colline a sud di Hebron, sono classificati come “area militare inaccessibile” dove è vietato edificare.

A Gerusalemme Est, area della città occupata nel 1967 e annessa illegalmente nel 1980, Israele ha espropriato il 35% del territorio, circa 24 Kmq, allo scopo di costruire nuovi insediamenti ebraici. Su queste terre il governo israeliano ha finanziato l’edificazione di quasi 50 mila unità residenziali per la popolazione ebraica e meno di 600 per quella palestinese, l’ultima delle quali più di 30 anni fa[4]. Nonostante la popolazione palestinese rappresenti il 30% dell’intera Gerusalemme, essa è confinata sul 7% della superficie della città in abitazioni il più delle volte inadeguate. La maggior parte della terra che rimane nelle mani dei palestinesi, circa 45 Kmq, non è edificabile mentre negli ultimi 40 anni i residenti di Gerusalemme Est sono praticamente quadruplicati (da 69.000 a 273.000). Si stima che la crescita naturale della popolazione palestinese richiederebbe la costruzione di 1.500 unità abitative all’anno, mentre nel 2008 sono stati accordati soltanto 125 permessi che hanno consentito la costruzione di 400 alloggi.

A causa della crescente e soffocante densità abitativa nella parte palestinese della città, che nel 2002 era pari a quattro volte quella della zona ebraica occidentale, per i pochi palestinesi che ancora possiedono un pezzo di terra non rimane che sperare nella remota possibilità di un permesso di costruzione. Quando questo, come nella maggior parte dei casi, non arriva, non rimane che costruire abusivamente.

I palestinesi di Gerusalemme Est sono estremamente vulnerabili agli interventi di demolizione. Delle 46 mila abitazioni del settore orientale della città soltanto 20 mila sono state costruite con la dovuta autorizzazione. In qualsiasi momento, quindi, quasi la metà della popolazione palestinese di Gerusalemme può essere soggetta a sfratto o alla demolizione della propria casa. Il recente Piano regolatore[5], che cita esplicitamente tra i suoi obiettivi quello di mantenere l’”equilibrio demografico” tra residenti ebrei (70%) e palestinesi (30%), prevede 13.550 nuove unità abitative per la popolazione palestinese di Gerusalemme Est, 10 mila delle quali, tuttavia, da costruire soltanto nel 2030.

All’inizio degli anni 90, l’allora sindaco di Gerusalemme, Teddy Kollek, aveva riconosciuto esplicitamente la profonda ingiustizia delle demolizioni per una popolazione costretta a costruire illegalmente per l’assenza quasi totale delle dovute autorizzazioni. Contro la sua volontà di modificare le cose, tuttavia, la destra israeliana al governo aveva istituito un’apposita unità operativa a Gerusalemme Est, tuttora in funzione, che si occupa soltanto delle case abusive della popolazione palestinese. Nessun’altra unità del genere esiste in tutto Israele e nessuna abitazione di proprietà ebraica è mai stata demolita.

Quando arrivano le ruspe, la tragedia raggiunge il culmine. Accompagnate da agenti di polizia e soldati israeliani, le squadre di demolizione possono presentarsi in qualsiasi momento del giorno e della notte, concedendo soltanto un breve preavviso per rimuovere beni e masserizie. Secondo la legge militare israeliana, le famiglie sfollate non hanno diritto a ottenere un alloggio né a essere compensate. Se non vengono ospitate da familiari, amici o organizzazioni caritatevoli, sono abbandonate a se stesse[6].

È difficile quantificare il trauma e la sofferenza che comporta la distruzione della propria abitazione. La casa è più di una semplice struttura fisica e il suo significato è soprattutto simbolico. È il luogo dove si svolge la parte più intima dell’esistenza personale. È il rifugio, la rappresentazione fisica della famiglia e il posto dove si trovano gli oggetti più cari. Nella cultura palestinese la casa possiede un ulteriore significato. I figli che si sposano tendono a fissare la propria residenza accanto alla famiglia di origine allo scopo di preservare non soltanto la vicinanza fisica ma, soprattutto, una continuità nella proprietà della terra dei propri avi. Quest’ultimo aspetto è particolarmente importante per una società agricola e di rifugiati che hanno perduto la casa nativa a seguito dei conflitti del 1948 e del 1967. La demolizione dell’abitazione o la sua espropriazione rappresenta un’ulteriore aggressione all’identità di una persona[7].

Le famiglie le cui case sono demolite spesso non possono permettersene un’altra e devono contare sull’ospitalità di parenti o amici. Il trauma viene percepito in modo diverso da uomini, donne e bambini. L’uomo rimane profondamente umiliato per il senso di impotenza a proteggere la propria famiglia, la perdita dei legami con la terra dei suoi avi, la sua eredità e quella della sua gente. La maggior parte delle donne non lavorano fuori casa, la quale costituisce la loro principale sfera d’influenza ed è lo spazio che appartiene a loro. Esse sono quindi molto più traumatizzate dall’obbligo di trovare un’altra sistemazione, in un territorio altrui in cui non hanno più la responsabilità di gestire spazi e attività familiari. Vedono distrutta la propria immagine e il loro ruolo di mogli e di madri, il ruolo di chi dà praticamente espressione alla vita domestica. Una casa distrutta è come una persona cara che muore, un vuoto che non può essere colmato da soluzioni alternative che, in genere, si rivelano disastrose. Una donna costretta a sistemarsi in un’altra famiglia va ad occupare l’ambito vitale di un’altra donna (la madre o la cognata) e perde inevitabilmente il controllo su marito e figli[8]. La perdita della privacy causa spesso un aumento dei conflitti tra i membri della famiglia con un’esplosione della violenza domestica.

Salwa, 28 anni, così esprime la sua tragedia personale: “La gente potrà anche provare dispiacere quando sente il frastuono della demolizione, ma pensi che qualcuno sia capace di sentire la demolizione dei nostri cuori? dei nostri sogni? dei nostri programmi futuri? Credo che queste voci non siano mai udite. Pensi che si siano accorti della mia paura, della mia agonia, del mio orrore? Niente affatto. Paura, agonia, orrore non hanno voce, non fanno rumore, e l’occupazione militare non ha occhi, non ha moralità, non ha coscienza, non ha Dio” [9].

Nei bambini il trauma della demolizione della casa lascia un marchio indelebile che dura tutta la vita. Già nei mesi che precedono l’intervento demolitivo essi sono testimoni della paura e del senso di inadeguatezza dei propri genitori che vivono costantemente in un’atmosfera di insicurezza. All’arrivo delle squadre di demolizione, vedono i propri cari sottoposti a violenze e umiliati, circondati dal fragore delle ruspe che sradicano e distruggono la loro dimora, il loro mondo, i loro giocattoli. La presenza di decine di poliziotti, assistiti da soldati in tenuta da combattimento, disegna nella mente del bambino un quadro dei propri genitori come pericolosi criminali. Questo processo ha un enorme impatto sulle condizioni psichiche e fisiche di tutti membri della famiglia, non soltanto dei bambini.

La demolizione della casa è seguita da lunghi periodi di instabilità della famiglia. Secondo uno studio della ONG Save the Children[10], la maggior parte delle famiglie impiegano almeno due anni prima di trovare un luogo di residenza permanente. Un’altra ricerca rivela il profondo impatto psicologico sulle donne che tendono a sviluppare sintomi depressivi di vario tipo[11]. Altri studi hanno descritto gli effetti deleteri sui bambini che si manifestano con disturbi emotivi e comportamentali[12]. Le maggiori fonti di tensione nella famiglia sono, per i bambini, la sensazione di essere abbandonati e, per i genitori, la comparsa della depressione.

Commenta Meir Margalit, storico israeliano della comunità ebraica in Palestina ed ex-sionista radicale, “Non c’è nessun dubbio: il bulldozer prende posto accanto al carro armato come simbolo del modo in cui Israele si relaziona con i palestinesi. Entrambi i simboli dovrebbero comparire sulla bandiera nazionale. Entrambi sono espressione dell’aggressione che ha preso il sopravvento dell’esperienza nazionale israeliana. L’uno completa l’altro. Entrambi simbolizzano il lato oscuro del progetto che Israele sta portando avanti di sradicare ed espellere i palestinesi dalle terre in cui si trovano” [13].

Sia sul territorio israeliano sia nel TPO, Israele è vincolato dalla legislazione internazionale inclusi quei trattati internazionali sui diritti umani di cui Israele è uno Stato firmatario (State Party), come il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali, il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici e la Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di Tutte le Forme di Discriminazione Razziale. Nel Territorio Occupato, inoltre, la condotta di Israele come potenza occupante deve conformarsi ai dettati della legislazione umanitaria internazionale che si applica in tutti i casi di occupazione militare, compresa la 4° Convenzione di Ginevra relativa alla Protezione delle Persone Civili in Tempo di Guerra. Israele è l’unico Stato appartenente all’ONU che rifiuta di riconoscere i propri obblighi nei confronti della Convenzione di Ginevra nonostante le sconfessioni e le condanne ricevute in varie sedi dalla comunità internazionale, in particolare la Corte Internazionale di Giustizia[14].

di Angelo Stefanini
Angelo Stefanini - Centro Studi e Ricerche sulla Salute Internazionale e?Interculturale, Universita’ di Bologna. Coordinatore Sanitario Cooperazione Italiana – Gerusalemme.

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05 gennaio 2011

Palestina: quando arrivano le ruspe







La demolizione delle case: un decisivo tassello della pulizia etnica sionista

L’asimmetrico conflitto israelo-palestinese è una lotta per la terra che si consuma metro dopo metro, casa dopo casa, a danno della popolazione palestinese autoctona in patente violazione dei Trattati internazionali e della Convenzione di Ginevra.


Art 53, IV Convenzione di Ginevra (1949)
“È proibita da parte della Potenza Occupante qualsiasi distruzione di beni immobili o personali appartenenti, a titolo individuale o collettivo, a persone private o allo Stato o ad altre autorità pubbliche o a organizzazioni sociali o cooperative, eccetto laddove tale distruzione sia resa assolutamente necessaria da operazioni militari".
Il 9 novembre il quotidiano israeliano Haaretz riportava che, nonostante il rimprovero della Casabianca per la ininterrotta costruzione di abitazioni illegali sul territorio palestinese occupato (TPO), il piano israeliano di edificazione di centinaia di nuovi alloggi a Gerusalemme Est proseguiva imperterrito[1]. Contemporaneamente, in quegli stessi giorni, continuavano gli ordini di demolizione di case e di sfratto di famiglie palestinesi nella parte araba della città[2].

L’ICHAD (Comitato Israeliano Contro la Demolizione delle Case) stima che, dal 1967 al 28 luglio 2010, nel TPO siano state demolite 24.813 strutture abitative palestinesi, 2.000 soltanto a Gerusalemme Est. Dall’anno 2000 al gennaio 2009 sono state abbattute 10.105 case, una media di 1.011 all’anno. Il numero di ordini di demolizione ancora da eseguire e’ a tutt’oggi pari a circa 20.000[3].

Le autorità israeliane giustificano la demolizione di case con ragioni o militari (deterrenza e anti-terrorismo) o amministrative per la mancanza di permessi o la violazione di norme abitative. Secondo molte organizzazioni, come Amnesty International e il Comitato Internazionale della Croce Rossa, questi interventi hanno invece due principali motivazioni:
1. infliggere una “punizione collettiva” alla popolazione innocente (comportamento considerato un crimine di guerra dalla 4° Convenzione di Ginevra);
2. appropriarsi di territorio palestinese e, a Gerusalemme Est, modificare la percentuale della popolazione residente a favore della componente ebraica. Il primo tipo di demolizioni avviene soprattutto durante i periodi di conflitto armato; il secondo tipo, più importante in termini numerici e per il suo significato politico, si sta protraendo da decenni con un picco di particolare frequenza in questi ultimi mesi.

L’autorità israeliana persegue come illegali le costruzioni effettuate senza autorizzazione per le quali in genere fa seguire l’ordine di abbattimento. I palestinesi che vivono sotto occupazione israeliana a Gerusalemme Est e nell’area C della Cisgiordania sono sottoposti a divieti di edificazione talmente rigidi che molte famiglie devono subire la violenza distruttiva delle ruspe e la privazione del diritto ad una casa.

Gli Accordi di Oslo (1993) prevedevano che Israele mantenesse per alcuni anni il controllo civile e militare della cosiddetta Area C, equivalente a più del 60% della Cisgiordania. I circa 150.000 palestinesi che vivono in quelle zone soffrono di notevoli restrizioni a costruire e a muoversi liberamente. Migliaia di ettari (il 18% della Cisgiordania), in particolare la Valle del Giordano e le colline a sud di Hebron, sono classificati come “area militare inaccessibile” dove è vietato edificare.

A Gerusalemme Est, area della città occupata nel 1967 e annessa illegalmente nel 1980, Israele ha espropriato il 35% del territorio, circa 24 Kmq, allo scopo di costruire nuovi insediamenti ebraici. Su queste terre il governo israeliano ha finanziato l’edificazione di quasi 50 mila unità residenziali per la popolazione ebraica e meno di 600 per quella palestinese, l’ultima delle quali più di 30 anni fa[4]. Nonostante la popolazione palestinese rappresenti il 30% dell’intera Gerusalemme, essa è confinata sul 7% della superficie della città in abitazioni il più delle volte inadeguate. La maggior parte della terra che rimane nelle mani dei palestinesi, circa 45 Kmq, non è edificabile mentre negli ultimi 40 anni i residenti di Gerusalemme Est sono praticamente quadruplicati (da 69.000 a 273.000). Si stima che la crescita naturale della popolazione palestinese richiederebbe la costruzione di 1.500 unità abitative all’anno, mentre nel 2008 sono stati accordati soltanto 125 permessi che hanno consentito la costruzione di 400 alloggi.

A causa della crescente e soffocante densità abitativa nella parte palestinese della città, che nel 2002 era pari a quattro volte quella della zona ebraica occidentale, per i pochi palestinesi che ancora possiedono un pezzo di terra non rimane che sperare nella remota possibilità di un permesso di costruzione. Quando questo, come nella maggior parte dei casi, non arriva, non rimane che costruire abusivamente.

I palestinesi di Gerusalemme Est sono estremamente vulnerabili agli interventi di demolizione. Delle 46 mila abitazioni del settore orientale della città soltanto 20 mila sono state costruite con la dovuta autorizzazione. In qualsiasi momento, quindi, quasi la metà della popolazione palestinese di Gerusalemme può essere soggetta a sfratto o alla demolizione della propria casa. Il recente Piano regolatore[5], che cita esplicitamente tra i suoi obiettivi quello di mantenere l’”equilibrio demografico” tra residenti ebrei (70%) e palestinesi (30%), prevede 13.550 nuove unità abitative per la popolazione palestinese di Gerusalemme Est, 10 mila delle quali, tuttavia, da costruire soltanto nel 2030.

All’inizio degli anni 90, l’allora sindaco di Gerusalemme, Teddy Kollek, aveva riconosciuto esplicitamente la profonda ingiustizia delle demolizioni per una popolazione costretta a costruire illegalmente per l’assenza quasi totale delle dovute autorizzazioni. Contro la sua volontà di modificare le cose, tuttavia, la destra israeliana al governo aveva istituito un’apposita unità operativa a Gerusalemme Est, tuttora in funzione, che si occupa soltanto delle case abusive della popolazione palestinese. Nessun’altra unità del genere esiste in tutto Israele e nessuna abitazione di proprietà ebraica è mai stata demolita.

Quando arrivano le ruspe, la tragedia raggiunge il culmine. Accompagnate da agenti di polizia e soldati israeliani, le squadre di demolizione possono presentarsi in qualsiasi momento del giorno e della notte, concedendo soltanto un breve preavviso per rimuovere beni e masserizie. Secondo la legge militare israeliana, le famiglie sfollate non hanno diritto a ottenere un alloggio né a essere compensate. Se non vengono ospitate da familiari, amici o organizzazioni caritatevoli, sono abbandonate a se stesse[6].

È difficile quantificare il trauma e la sofferenza che comporta la distruzione della propria abitazione. La casa è più di una semplice struttura fisica e il suo significato è soprattutto simbolico. È il luogo dove si svolge la parte più intima dell’esistenza personale. È il rifugio, la rappresentazione fisica della famiglia e il posto dove si trovano gli oggetti più cari. Nella cultura palestinese la casa possiede un ulteriore significato. I figli che si sposano tendono a fissare la propria residenza accanto alla famiglia di origine allo scopo di preservare non soltanto la vicinanza fisica ma, soprattutto, una continuità nella proprietà della terra dei propri avi. Quest’ultimo aspetto è particolarmente importante per una società agricola e di rifugiati che hanno perduto la casa nativa a seguito dei conflitti del 1948 e del 1967. La demolizione dell’abitazione o la sua espropriazione rappresenta un’ulteriore aggressione all’identità di una persona[7].

Le famiglie le cui case sono demolite spesso non possono permettersene un’altra e devono contare sull’ospitalità di parenti o amici. Il trauma viene percepito in modo diverso da uomini, donne e bambini. L’uomo rimane profondamente umiliato per il senso di impotenza a proteggere la propria famiglia, la perdita dei legami con la terra dei suoi avi, la sua eredità e quella della sua gente. La maggior parte delle donne non lavorano fuori casa, la quale costituisce la loro principale sfera d’influenza ed è lo spazio che appartiene a loro. Esse sono quindi molto più traumatizzate dall’obbligo di trovare un’altra sistemazione, in un territorio altrui in cui non hanno più la responsabilità di gestire spazi e attività familiari. Vedono distrutta la propria immagine e il loro ruolo di mogli e di madri, il ruolo di chi dà praticamente espressione alla vita domestica. Una casa distrutta è come una persona cara che muore, un vuoto che non può essere colmato da soluzioni alternative che, in genere, si rivelano disastrose. Una donna costretta a sistemarsi in un’altra famiglia va ad occupare l’ambito vitale di un’altra donna (la madre o la cognata) e perde inevitabilmente il controllo su marito e figli[8]. La perdita della privacy causa spesso un aumento dei conflitti tra i membri della famiglia con un’esplosione della violenza domestica.

Salwa, 28 anni, così esprime la sua tragedia personale: “La gente potrà anche provare dispiacere quando sente il frastuono della demolizione, ma pensi che qualcuno sia capace di sentire la demolizione dei nostri cuori? dei nostri sogni? dei nostri programmi futuri? Credo che queste voci non siano mai udite. Pensi che si siano accorti della mia paura, della mia agonia, del mio orrore? Niente affatto. Paura, agonia, orrore non hanno voce, non fanno rumore, e l’occupazione militare non ha occhi, non ha moralità, non ha coscienza, non ha Dio” [9].

Nei bambini il trauma della demolizione della casa lascia un marchio indelebile che dura tutta la vita. Già nei mesi che precedono l’intervento demolitivo essi sono testimoni della paura e del senso di inadeguatezza dei propri genitori che vivono costantemente in un’atmosfera di insicurezza. All’arrivo delle squadre di demolizione, vedono i propri cari sottoposti a violenze e umiliati, circondati dal fragore delle ruspe che sradicano e distruggono la loro dimora, il loro mondo, i loro giocattoli. La presenza di decine di poliziotti, assistiti da soldati in tenuta da combattimento, disegna nella mente del bambino un quadro dei propri genitori come pericolosi criminali. Questo processo ha un enorme impatto sulle condizioni psichiche e fisiche di tutti membri della famiglia, non soltanto dei bambini.

La demolizione della casa è seguita da lunghi periodi di instabilità della famiglia. Secondo uno studio della ONG Save the Children[10], la maggior parte delle famiglie impiegano almeno due anni prima di trovare un luogo di residenza permanente. Un’altra ricerca rivela il profondo impatto psicologico sulle donne che tendono a sviluppare sintomi depressivi di vario tipo[11]. Altri studi hanno descritto gli effetti deleteri sui bambini che si manifestano con disturbi emotivi e comportamentali[12]. Le maggiori fonti di tensione nella famiglia sono, per i bambini, la sensazione di essere abbandonati e, per i genitori, la comparsa della depressione.

Commenta Meir Margalit, storico israeliano della comunità ebraica in Palestina ed ex-sionista radicale, “Non c’è nessun dubbio: il bulldozer prende posto accanto al carro armato come simbolo del modo in cui Israele si relaziona con i palestinesi. Entrambi i simboli dovrebbero comparire sulla bandiera nazionale. Entrambi sono espressione dell’aggressione che ha preso il sopravvento dell’esperienza nazionale israeliana. L’uno completa l’altro. Entrambi simbolizzano il lato oscuro del progetto che Israele sta portando avanti di sradicare ed espellere i palestinesi dalle terre in cui si trovano” [13].

Sia sul territorio israeliano sia nel TPO, Israele è vincolato dalla legislazione internazionale inclusi quei trattati internazionali sui diritti umani di cui Israele è uno Stato firmatario (State Party), come il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali, il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici e la Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di Tutte le Forme di Discriminazione Razziale. Nel Territorio Occupato, inoltre, la condotta di Israele come potenza occupante deve conformarsi ai dettati della legislazione umanitaria internazionale che si applica in tutti i casi di occupazione militare, compresa la 4° Convenzione di Ginevra relativa alla Protezione delle Persone Civili in Tempo di Guerra. Israele è l’unico Stato appartenente all’ONU che rifiuta di riconoscere i propri obblighi nei confronti della Convenzione di Ginevra nonostante le sconfessioni e le condanne ricevute in varie sedi dalla comunità internazionale, in particolare la Corte Internazionale di Giustizia[14].

di Angelo Stefanini
Angelo Stefanini - Centro Studi e Ricerche sulla Salute Internazionale e?Interculturale, Universita’ di Bologna. Coordinatore Sanitario Cooperazione Italiana – Gerusalemme.

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