Può darsi che la stagione di Berlusconi sia al tramonto, e che lo sia inesorabilmente. Immagino che, mese più mese meno, si tornerà a votare ad aprile dell’anno prossimo. In quel momento la cosiddetta curva di Schmitt, che descrive il ciclo del consenso al governo entro la legislatura, non sarà più al suo minimo com’è oggi: in genere il terz’anno è l’anno peggiore per il governo in carica, e il migliore per l’opposizione, mentre nell’ultima parte della legislatura la popolarità del governo tende a risalire, e l’opposizione perde colpi (per questo Berlusconi sta cercando di non farci votare subito). E può benissimo essere che, a quel punto (nel 2012), la risalita della curva del consenso non basti a riportare Berlusconi al governo. In tal caso, a meno di un cambio di leadership nel centro-destra (Tremonti?), dovremmo prepararci a una vittoria elettorale del centro-sinistra.
Ma è realistico questo scenario?
Difficile dirlo, ma esiste anche uno scenario alternativo: il governo prova a fare qualcosina, ovvero modeste dosi di arrosto in mezzo a cospicui segnali di fumo; l’opinione pubblica si stufa di sentir parlare sempre e solo delle ragazze del premier; i processi vanno avanti a singhiozzo, senza lasciar emergere alcuna verità definitiva. Dopodiché si va a votare, il centro-destra ripropone Berlusconi, le opposizioni sono confuse e divise, e non riescono a trovare un leader accettato da tutti. Le urne, per un soffio, consegnano la Camera al centro-destra e il Senato alle opposizioni. Il polo di centro, o terzo polo, si divide, con una parte che sta con la sinistra e un’altra che appoggia il centro-destra. Si forma un nuovo governo di centro-destra, si ricomincia a parlare di giustizia, intercettazioni e Costituzione. L’opposizione di sinistra si indigna, il governo governicchia, e la commedia si ripete. Stesso film, stessi attori, solo un po’ più vecchi e prevedibili di prima.
Perché parlo dello scenario alternativo?
Perché, a mio parere, il ceto politico che guida le cinque opposizioni (Pd, Sel, Udc, Idv, Fli) lo sta preparando accuratamente. Può darsi che non ci riescano a riportare Berlusconi al governo, ma certo stanno facendo il massimo per ottenere il risultato. Non mi riferisco qui al fatto che mantenere in vita cinque (!) opposizioni distinte è già una follia. O al fatto che non darsi un capo è autolesionismo puro. Ciò che mi colpisce è quella che Mario Calabresi, qualche giorno fa su questo giornale, ha descritto come l’incapacità di «archiviare» Berlusconi. Una capacità che Barack Obama seppe mostrare nei confronti di Bush prima ancora di diventare presidente, e di cui i nostri leader - specialmente quelli di sinistra - appaiono del tutto sprovvisti.
I leader della sinistra, e segnatamente quelli del Pd, il maggior partito di opposizione, non solo appaiono ossessionati da Berlusconi, per cui raramente riescono a parlar di qualcosa senza tirarlo in ballo, ma appaiono afflitti da una vera e propria malattia politica, contratta fin da piccoli, ossia da quando militavano (la maggior parte di essi) nel partito comunista. Questa malattia si chiama «primato della cornice», e consiste in questo: di fronte a un provvedimento, a un’ipotesi, a una legge, non si è capaci di giudicarla in sé, valutandone (laicamente!) i pro e i contro, ma la si giudica in base alla cornice in cui si colloca, cioè - essenzialmente - in base a chi è al governo in quel momento. Succedeva negli Anni 60 e 70 per cose come la costruzione di autostrade, lo Statuto dei lavoratori, la tv a colori. Succedeva in anni più recenti per la guerra in Iraq e il ponte sullo stretto. E risuccede oggi tutti i giorni, su problemi che meriterebbero di essere discussi e affrontati con tutt’altra libertà mentale.
E’ così che può accadere che Pd e Italia dei valori, pur favorevoli al federalismo, decidano di bloccarlo perché è un’occasione per indebolire Berlusconi. Pronti a discutere di tutto, purché venga rimosso Berlusconi. E indisponibili a tutto finché rimane al suo posto. Perché quel che conta non è se una legge è buona o cattiva, ma a quale parte politica giova in quel momento.
Lo stesso era accaduto qualche mese fa per la riforma universitaria, sistematicamente usata per dimostrazioni di forza, senza alcun riguardo per i contenuti, fino al paradosso del voto contrario sull’articolo 18 del disegno di legge: un articolo voluto dal senatore del Pd Ignazio Marino, votato dal Pd stesso al Senato, ma bocciato dal medesimo Pd alla Camera, al solo scopo di mettere in difficoltà il governo. Un episodio che lo stesso senatore Marino, in un intervista, ebbe a commentare così: «Ciò che è accaduto (il voto contrario del Pd) lascia una macchia perché dimostra che in Parlamento si prescinde spesso dai contenuti di ciò che si vota. Sarebbe meglio che in Parlamento si votasse più spesso ciò che si ritiene giusto e non ciò che si pensa sia conveniente».
Lo stesso accade per i rapporti fra giustizia e politica: se qualcuno osa porre il problema dell’immunità parlamentare, di nuovo il «primato della cornice» scatta implacabile, come un riflesso pavloviano. Prima di qualsiasi valutazione di merito, conta il fatto che «sarebbe l’ultima risorsa cui il premier vorrebbe far ricorso per sottrarsi ai suoi giudici» (così Anna Finocchiaro nell’intervista rilasciata martedì a «La Stampa»). Certo, si ammette, se ne può anche parlare, ma non ora. Di certi temi «si potrebbe discutere» ma solo «in una situazione normale», e «s’intende, dopo aver parlato di molto altro».
Eccoli lì, i riflessi condizionati. Se una legge può giovare al nostro avversario (federalismo), noi diventiamo contrari a prescindere: è il primato della cornice. Se un tema ci imbarazza (immunità parlamentare), allora «sono ben altre le priorità»: è l’arma del benaltrismo. Ma così si conferma soltanto quanto la sinistra e il suo gruppo dirigente siano lontani dal modello Obama, che di fronte alla richiesta dei suoi stessi simpatizzanti di punire Bush per le sue malefatte, rispondeva: io non voglio punire Bush, io voglio archiviarlo.
Stregati da Berlusconi, incapaci di non rinnovare quotidianamente, e più di una volta al giorno, il rito dell’indignazione, incapaci di pensare i problemi dell’Italia senza l’ossessivo riferimento al destino del premier, i dirigenti della sinistra non si avvedono che così noi cittadini possiamo, al più, convincerci della loro dirittura morale, ma non riusciamo a persuaderci della cosa più importante sul piano politico: e cioè che un vasto schieramento di forze, guidato da un leader riconosciuto, ha una propria idea del futuro dell’Italia, un’idea chiara, un’idea positiva, e come tale un’idea che prescinde da Berlusconi, da Ruby e da tutte le altre. Un’idea che non guarda all’Egitto, o alla Libia, dove è la furia popolare, con il suo corredo di violenza e di sangue, a far cadere i dittatori. Ma guarda all’America, dove i cattivi governanti vengono rimossi e sostituiti in libere elezioni. E dove Obama non sognava di punire Bush, ma soltanto di voltare pagina: di iniziare una nuova era, di costruire un’altra America.
di Luca Ricolfi
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