Da uno studio condotto dal prestigioso istituto francese di analisi Xerfi emerge un dirompente rovesciamento delle condizioni economiche interne all’Eurozona, del tutto sufficiente ad imprimere una brusca accelerata al processo di disintegrazione dell’euro. Il dato cruciale messo in risalto all’interno del documento è infatti rappresentato dall’impressionante cambio di paradigma varato dalla Germania, che nell’arco di appena 12 mesi è riuscita a rivoltare in maniera radicale il proprio export. Nel primo semestre del 2013, il 65% circa delle esportazioni tedesche veniva assorbito dai Paesi membri dell’Unione Europea, di cui il 36% dalle nazioni che aderiscono all’Eurozona, mentre ad appena un anno di distanza il 74% circa dell’export tedesco veniva realizzato al di fuori dei confini europei. L’incremento delle esportazioni tedesche all’esterno del “vecchio continente” è stato pari a 70 miliardi di euro (su 131 miliardi dal 2007), a fronte di una contrazione di 77 miliardi all’interno dell’Unione Europea. Il che è naturalmente dovuto alla caduta della domanda interna in tutti i Paesi dell’Eurozona, imputabile alle sostanziali terapie d’urto imposte dalla cosiddetta “troijka” dietro il pungolo di Berlino.
Va tuttavia sottolineato il fatto che la “fetta” di esportazioni tedesche all’interno dell’Unione Europea sia rimasta inalterata al 22% per oltre dieci anni, mentre le quote francese, britannica e italiana sono costantemente diminuite a fronte dell’avanzata dei Paesi dell’Europa orientale e delle nazioni gravitanti attorno all’orbita tedesca (come l’Olanda).
In compenso, la Germania ha aumentato il volume delle importazioni dai Paesi membri dell’Unione Europea (79 miliardi di euro), per effetto della netta divaricazione tra la sua crescita e la recessione che attanaglia tutti gli altri Stati concorrenti.
Il che significa che la Germania ha orientato l’intera costruzione politico-economica europea al completo servizio delle proprie necessità, mentre gli altri Paesi hanno subito una progressiva marginalizzazione che li ha di fatto trasformati in fornitori a basso prezzo (per via della compressione salariale legata alle misure d’austerità) della componentistica e di merci dallo scarso o nullo valore aggiunto per conto della potenza industriale dominante. L’arretramento costante di Francia, Gran Bretagna e Italia – chiaramente testimoniato dal crollo del mercato intra-UE (rispettivamente dal 13 al 9%, dal 10 al 6% e dal 9 al 7%) –, strettamente connesso alle rigidità e alla “forza” della moneta unica, ha generato un forte malcontento in seno alle popolazioni, favorendo l’avanzamento di movimenti euro-scettici e dichiaratamente ostili al consolidamento della costruzione (come il “Movimento 5 Stelle” o l’“United Kingdom Indipendence Party”).
Ma anche all’interno della stessa Germania sono sorti malumori – dimostrati, tra le altre cose, dal discreto successo ottenuto dai “Piraten” –, causati dal massiccio trasferimento di ricchezza nazionale verso i Paesi europei più in difficoltà, che in caso di consolidamento dell’Unione Europea (incomprensibilmente – o forse no – ambito da quasi tutti i governi europei) vincolerebbe Berlino a versare annualmente una cifra quantificabile in circa 80 miliardi di euro (pari al 3% circa del Prodotto Interno Lordo tedesco). La stessa Cancelliera Merkel, che sarà imminentemente chiamata ad affrontare le elezioni politiche, deve aver seriamente valutato – a differenza dei “politicanti” francesi, britannici, italiani e spagnoli – i pro e i contro che comporterebbe la concretizzazione di questa prospettiva. Non a caso, ha lanciato segnali piuttosto ambigui in proposito, ostentando una certa freddezza (assolutamente senza precedenti per un per tale personaggio) per quanto concerne la tenuta dell’Eurozona. Con l’uscita dall’euro, si sbloccherebbero immediatamente i meccanismi di rivalutazione che conferirebbero al marco un valore assai notevole, che penalizzerebbe pesantemente l’export tedesco. Lo stesso Ministero delle Finanze tedesco ha condotto uno studio, prontamente pubblicato dal noto settimanale “Der Spiegel”, all’interno del quale si sostiene che l’implosione della moneta unica europea comporterebbe una caduta del Prodotto Interno Lordo tedesco pari al 9,2% e un aumento della disoccupazione prossimo al 10%, portando la massa dei senza lavoro oltre la soglia dei 5 milioni di persone.
D’altro canto, va tuttavia evidenziato il fatto che Berlino non sarebbe più costretta ad attingere ai propri surplus commerciali per coprire i deficit degli altri Stati (come ha regolarmente fatto finora) e che, collocandosi in questa posizione, la Germania risparmierebbe quegli 80 miliardi di euro annuali di versamenti in favore dei Paesi deboli previsti dal sistema di “solidarietà europea” (!). È per questo che la politica deflazionistica (tutta incentrata sulla compressione salariale) imposta ai Paesi meno solidi (di cui la Germania si è servita per rifornirsi) è stata sinora il compromesso che comportava meno svantaggi per Berlino, e che ha contribuito in maniera cruciale ad aggravare la recessione in tutta l’Europa mediterranea, distruggendo imprese ed eliminando migliaia di posti di lavoro.
La Germania sarà dunque chiamata a decidere se mantenere lo stutus quo aderendo al progetto di consolidamento della struttura poltico-economica vigente o abbandonare l’Eurozona, dedicandosi all’intensificazione dei propri rapporti (già solidissimi) con i Paesi dell’Est, come Russia e Cina. Il futuro del “vecchio continente” dipende in gran parte da questa scelta.
di Giacomo Gabellini
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