Trichet storce il naso, di fronte all’accordo Ecofin sul nuovo patto di stabilità, ed esige che il suo dissenso venga registrato con una nota a margine: nella quale si attesti chiaramente, a futura memoria, che la Bce è«preoccupata» e che, perciò, non sottoscrive tutti gli elementi del documento. Formalizzazioni a parte, si tratta di un distinguo che non sorprende nessuno. Come ha ricordato lo stesso Trichet poche settimane fa, «È da tempo che chiediamo a tutti i governi della Ue, con grande insistenza, misure appropriate di consolidamento dei conti».
La domanda successiva è ovvia: perché mai, allora, i governi Ue non accolgono le raccomandazioni ripetute, e persino pressanti, del capo della Banca centrale europea? La risposta sarebbe altrettanto ovvia, solo che di regola si evita di esprimerla a chiare lettere. La risposta è che in questo momento le esigenze dei governi e quelle della Bce, pur essendo inscritte nella medesima visione generale dell’economia e della società, sono contrapposte. La Bce fa analisi di tipo meramente finanziario, allarmata dalla possibilità che gli Stati sprofondino nella voragine dei propri debiti, innescando una reazione a catena che si espanderebbe rapidamente e che non risparmierebbe nessuno, ivi incluse le banche che su quei debiti hanno costruito buona parte dei loro profitti. I governi nazionali sono invece costretti, quand’anche a malincuore, a porsi il problema della sostenibilità sociale, e quindi politica, di interventi ancora più drastici sulla spesa pubblica, sul duplice versante del welfare e degli incentivi alla ripresa.
Il fattore decisivo, rispetto a queste divergenze, è quello del tempo. I governi avvertono con maggiore urgenza il rischio di turbolenze interne, vedi ad esempio le persistenti proteste di massa che si stanno svolgendo in Francia contro la riforma delle pensioni voluta da Sarkozy, e pensano di trarsi d’impaccio dilazionando l’aggiustamento dei conti erariali. La strategia è elementare e a suo modo rassicurante, anche se non è detto che funzioni: ricondurre i problemi dei singoli, per quanto gravi, nel quadro di una gestione complessiva di tutte le economie continentali, in modo che il mosaico risulti talmente vasto da rendere pressoché impossibile la sua distruzione. Si potrebbe dire, per sintetizzare, che è il ribaltamento concettuale dell’idea di contagio paventata dal sistema bancario e, in primis, dal Gran Guardiano Trichet. Una volta che la si sia estesa a tutti, l’instabilità si cristallizza perché diventa inconcepibile far crollare l’intera costruzione. Analogamente a ciò che avviene per gli Usa, che a rigor di termini dovrebbero essere in pieno default, più la mole del debito aumenta e più diventa impossibile esigerne la riscossione. Per cui si rinvia ulteriormente la resa dei conti e si spera, o si finge di sperare, che in seguito le cose miglioreranno e che tutto andrà a posto.
In buona sostanza, è un problema di credito. Che l’Occidente non esiterebbe ad affrontare come ha fatto finora, dilatando a dismisura la ricchezza reale a colpi di finanziamenti pubblici e privati, ma che oggi va a cozzare contro due limitazioni strutturali: la prima è che per quanto il denaro sia un’entità convenzionale, non lo si può comunque moltiplicare all’infinito senza mettere in crisi i bilanci e senza finire per svelarne l’assoluta vacuità; la seconda è che l’Occidente non è più l’unico artefice della finanza mondiale e, pertanto, non può più ignorare che i propri conti pubblici sono allo sfascio e che il proprio assetto economico, dalla produzione al consumo e al welfare, non è più sostenibile.
Infatti: il denaro di cui avremmo bisogno per tenere in piedi l’attuale baraccone non c’è. Anzi, non c’è mai stato. E l’unica vera via d’uscita, impensabile tanto per Trichet che per i suoi fratelli-coltelli dei governi nazionali europei, è l’abbandono di questo modello di sviluppo e l’avvio di una totale redistribuzione delle proprietà e dei redditi.
di Federico Zamboni
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