Il tempo vola. Sono passati ormai più di dieci anni da quando l’Argentina, per usare le grate parole di Fidel Castro, precipitò il modello economico neoliberista nelle più remote profondità del prospicente Oceano Atlantico. In due giorni, fra il 19 ed il 20 dicembre 2001, l’allora presidente Fernando De La Rua, “liberalsocialista” eletto due anni prima nelle fila dello storico Partito Radicale, se la dovette svignare dal tetto della Casa Rosada a bordo di un elicottero, dopo aver ordinato un’inutile repressione a suon di mitragliate contro la folla in piazza, con un bilancio di oltre quaranta vittime ed i cui effetti furono soprattutto quelli di gettare ulteriore benzina sul fuoco. Proprio come le sollevazioni di Caracas del 1992 contro le austerità indette dal presidente Carlos Andrés Pérez (Caracazo), di Piazza delle Tre Culture a Tlatelolco in Messico nel ’68 o di Bogotà alla fine degli Anni Quaranta (Bogotazo): tutti episodi che insanguinarono la storia latinoamericana della seconda metà del Novecento con migliaia di vittime.
A causare l’insurrezione di Buenos Aires erano stati i “consigli” del FMI, culminati in una vera e propria serrata (“corralito”) dei conti correnti e dei bancomat: cosa che impedì non solo al proletariato ed al sottoproletariato ma anche al fino ad allora benestante ceto medio urbano di mantenersi da vivere, provvedendo al pagamento delle più elementari spese quotidiane. Era l’epilogo di una storia cominciata quasi cinquant’anni prima, col golpe del 1955 che aveva destituito Peròn consegnando il paese all’arbitrio ed al saccheggio da parte del FMI e del grande capitale nordamericano, in combutta con una classe politica locale neoliberale e pronamente filostatunitense. In una drammatica, caotica e “mimetica” alternanza fra tre dittature militari (di cui l’ultima, la più fatale, quella del cosiddetto “Processo di Riorganizzazione Nazionale”, dal 1976 al 1983), che provocarono oltre 30.000 desaparecidos, e governi “democratici” (ma oltremodo complici, disponibili e tolleranti sia verso le altre dittature militari e reazionarie del Continente sia verso i gruppi fascisti, terroristi e paramilitari attivi nel paese, per non parlare poi dell’impunità concessa ai militari dalle mani lordate di sangue), l’Argentina cambiò completamente volto. Se sotto Peròn era una delle prime dieci economie al mondo, con una crescita robusta, piena occupazione ed enormi riserve valutarie, 46 anni più tardi l’Argentina era invece il paese dei record negativi con il 71% di bambini sottonutriti nelle province più povere, il tasso di disoccupazione al 42% ed il debito pubblico procapite più alto al mondo. A causa della parità fra peso e dollaro le attività manifatturiere erano state spazzate via dalla concorrenza dei prodotti nordamericani, mentre le massicce privatizzazioni avevano liquidato un immenso patrimonio pubblico (scandaloso, per esempio, fu il caso dell’industria petrolifera di Stato, letteralmente regalata e frammentata fra sciacalli stranieri: si veda il bellissimo documentario “Diario del saccheggio” di Fernando Solanas, del 2003). Sempre sotto il camaleontico Menem la televisione commerciale e spazzatura aveva assunto il monopolio nella vita culturale, ergendosi a formidabile arma di distrazione di massa con cui distrarre e disinteressare la popolazione dal costante peculato e dalla crescente corruzione portati avanti dall’intera classe politica. Alle classi più povere si vendevano i sogni ed i miraggi di un’irraggiungibile società dei consumi e della ricchezza, un vero e proprio stordimento culturale, mentre nelle classi medie si fomentavano le solite paure del “socialismo” così funzionali ad avvincerle e convincerle a votare perennemente le destre e le sinistre liberali e liberiste serve del FMI e del consenso di Washington. In questo modo uno dei paesi più progrediti dell’America Latina e del mondo, non solo tecnicamente ed economicamente ma anche culturalmente, era stato completamente razziato, deturpato e dilapidato.
La caduta di De La Rua e del suo superministro dell’economia Domingo Cavallo (presidente del Banco Centrale sotto la dittatura dal 1976 al 1983) consegnò dunque il paese ad una fase rivoluzionaria, che non tardò ad essere guidata da quei giovani della sinistra peronista verso cui le squadriglie neofasciste della AAA (Alianza Anticomunista Argentina) ed il Processo di Riorganizzazione Nazionale negli anni Settanta avevano dedicato molto del loro zelo omicida. Tra questi emersero rapidamente Nestor Kirchner e successivamente sua moglie Christina Fernandez, che attraverso una cauta ma ferma politica redistributiva ridussero i livelli di povertà sociale di tre quarti rispetto agli anni Novanta. Il 2 gennaio 2002 l’Argentina aveva dichiarato il default sulle sue obbligazioni internazionali, ammettendo ovvero la propria impossibilità nel far fronte a tutti gli impegni economici contratti presso gli altri Stati. Per mesi il paese si ritrovò economicamente bloccato, ma a partire dal 2003 riprese a crescere con ritmi pari al 7%, presto elevati al 10% (la più forte crescita economica al mondo dopo quella cinese).
La riscossa e la rinascita dell’Argentina (parlare solo di “ripresa” sarebbe oggettivamente riduttivo) sono indubbiamente frutto di una serie di circostanze difficilmente ripetibili, almeno in termini geopolitici e congiunturali. Pensiamo ad esempio al fortissimo aumento del costo delle materie prime, che ha permesso al paese di rilanciare il settore agricolo in tempi molto rapidi, facendone una delle principali locomotive della propria economia. Ma vi sono anche altri fattori, come l’affacciarsi della Cina quale nuovo partner di riferimento strategico in sostituzione degli Stati Uniti e la partecipazione insieme al Brasile di Lula e al Venezuela di Chavez al processo d’integrazione latinoamericana. La chiave di volta, da questo punto di vista, è stata sicuramente l’incontro di Mar del Plata del 2005, che ha visto l’asse Argentina-Brasile rifiutare sdegnosamente il Trattato di Libero Commercio fra Stati Uniti e paesi latinoamericani (ALCA). Con questo progetto, caldamente sostenuto dall’amministrazione Bush, gli Stati Uniti puntavano a trasformare l’intera America Latina nella loro manifattura a basso costo (esattamente come già avviene col Messico attraverso il NAFTA), l’ideale per arginare la competitività cinese con un secolo di nuove ingiustizie per tutti i cittadini sud e centro americani. L’anno dopo, col sostegno politico ed economico venezuelano, insieme al Brasile l’Argentina chiuse definitivamente i propri conti col FMI con la storica frase “non abbiamo più bisogno dei vostri consigli interessati”. La crescente cooperazione con i nuovi governi progressisti latinoamericani (Bolivia, Nicaragua, Paraguay, Ecuador e via dicendo) e la reazione ferma contro i golpe in Honduras ed Ecuador (quest’ultimo fortunatamente fallito) hanno infine ulteriormente cementato il processo d’integrazione del Continente, restituendo all’Argentina quella statura internazionale persa ormai da decenni.
Lo Stato, smembrato, spogliato e privatizzato negli anni delle dittature e di Menem, ha recuperato il proprio ruolo nella società e soprattutto le sue responsabilità dinanzi ai cittadini. L’acqua, le poste, le linee aeree e i servizi scolastici e sociosanitari sono stati rinazionalizzati, mentre hanno visto la luce nuovi progetti in campo sociale e culturale finalzzati ad elevare il livello di vita della popolazione, anche in sinergia con gli altri paesi latinoamericani. Importanti, inoltre, i provvedimenti assunti a tutela dell’ambiente, della parità di genere e delle diversità, cosa quanto mai importante in uno dei paesi probabilmente più eterogenei e sfaccettati (culturalmente, religiosamente e socialmente) del mondo.
Il “rinascimento” argentino è passato anche attraverso una rivalorizzazione della cultura, tanto necessaria quanto irrinunciabile visto il degrado a cui i media erano giunti sotto Menem: le trasmissioni commerciali, un tempo il 100% dell’offerta “culturale” televisiva di tutto il paese, sono state ridotte ad un terzo. Per due terzi i media debbono occuparsi, com’è giusto che sia, d’argomenti sociali e culturali. Anche l’istruzione pubblica ha ricevuto un forte impulso, con gli stanziamenti più che triplicati (dal 2% al 6,5% del PIL: altro che Maria Stella Gelmini o Francesco Profumo!). Tutto ciò ha determinato un forte miglioramento del grado di senso civico, d’alfabetizzazione e di responsabilità politica e culturale di tutta la popolazione.
Questa è dunque l’Argentina di oggi: un paese che, ad onta delle tante perplessità dei media e degli intellettuali nostrani (disinformati ed in malafede, marci e malati fin nel midollo di quella cultura razzista che è l’eurocentrismo), ha saputo rialzare la testa. Un anno fa, dopo l’improvvisa morte di Nestor Kircher a seguito di un infarto, in tanti in Europa e Nord America predissero, probabilmente augurandoselo, un precoce ed incontrollabile crollo del “sogno neoperonista”. Sognavano il cedimento del mattone argentino augurandosi il crollo di tutto l’edificio latinoamericano, quindi brasiliano, boliviano, venezuelano, ecuadoriano e cubano; ed intanto, paghi della loro ignoranza che non li stimolava ad aggiornarsi e a guardare al di là delle loro strette barricate eurocentriche, continuavano a sguzzare nel cliché dell’Argentina da sfottersi in quanto stracciona. Sono rimasti, questi media, politici ed intellettuali “de noantri”, con un palmo di naso. L’Argentina ha continuato a crescere, in barba alle recrudescenze della crisi finanziaria globale che ha invece continuato a tormentare soprattutto quell’Occidente settentrionale da cui aveva avuto origine, e la “presidenta” Christina Fernandez da Kirchner è riuscita non soltanto a completare il suo mandato ma lo scorso 23 ottobre 2011 è stata persino rieletta dai suoi concittadini col 54% dei voti. Chissà se Obama, Cameron o Sarkozy potranno mai vantare una tale popolarità al prossimo giro…
di Filippo Bovo
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