27 gennaio 2012
Il suicidio dell’embargo petrolifero
Il marito che si evira per fare un dispetto alla moglie non è mai stato un esempio di intelligenza. Ma se addirittura non lo fa per sua libera scelta, ma per accontentare un amico capriccioso e prepotente, allora la cosa supera i limiti del demenziale. Purtroppo, però, la metafora sembra essere abbastanza calzante per descrivere l’appoggio dell’Italia all’embargo sul petrolio iraniano votato lunedì scorso dall’Unione europea. Secondo il ministro degli Esteri Giulio Terzi, l’impatto sull’economia italiana delle nuove restrizioni sarà “trascurabile” se non addirittura “nullo”. Ma ieri la FederPetroli Italia ha smentito le parole del ministro, sottolineando che “l’embargo iraniano rappresenterà un grande problema per la situazione petrolifera italiana”. Nel 2011 il nostro Paese ha importato dall’Iran 185mila barili al giorno, pari al 13% del fabbisogno. “Abbiamo altre fonti di approvvigionamento”, ha cercato di rassicurare Terzi, citando ad esempio la Libia, che “sta aumentando le sue forniture”.
Ma l’Iran, sottolineano da FederPetroli, non è solo un importante fornitore. È anche “un produttore di greggio di alta qualità” (ad alto contenuto di zolfo ndr), utilizzato in grandi quantità da molte raffinerie italiane per la produzione di prodotti derivati dalla raffinazione. Entro la fine di giugno queste dovranno abbandonare il petrolio iraniano. E non tutte sono attrezzate per lavorare con altri greggi. “C’è un problema di qualità del greggio, dovremmo fare qualche cambiamento – ha confermato Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni – ma le nostre raffinerie saranno in grado di far fronte a queste carenze”.
A questo si aggiunge il problema dei nuovi fornitori. In prima linea c’è l’Arabia Saudita, che da tempo si è detta disposta ad aumentare la produzione per approfittare dell’uscita dallo scenario europeo del nemico iraniano. Tuttavia sarà difficile che i sauditi – consapevoli di trattare da una posizione privilegiata – potranno eguagliare le condizioni vantaggiose offerte dagli iraniani. Ne sa qualcosa la Grecia, a cui Teheran fornisce un quarto del fabbisogno di petrolio e le consente il pagamento a 60 giorni dalla consegna e l’assenza di garanzie finanziarie. “L’adeguamento degli impianti per altri tipi di greggi similari, la scelta di nuovi fornitori e le variabili temporali, comporteranno dei problemi non da poco”, sottolinea il presidente di FederPetroli Michele Marsiglia.
Nel frattempo chi ci guadagna sono i Paesi asiatici che non seguono i diktat statunitensi e continuano a fare affari vantaggiosi con la Repubblica Islamica. Primi fra tutti Cina e India, per le quali l’Iran rappresenta rispettivamente il terzo e il secondo fornitore. “L’India vuole prendere quanto più greggio iraniano è possibile, perché le condizioni sono favorevoli”, ha dichiarato il ministro indiano del Petrolio S. Jaipal Reddy.
Ma anche gli alleati asiatici degli Stati Uniti che si riforniscono di petrolio iraniano stanno temporeggiando sull’adozione dell’embargo. La Corea del Sud, verso la quale sono destinate il 9% delle esportazioni di Teheran, non ha ancora deciso alcun taglio. Mentre il Giappone (che rappresenta il 13% delle esportazioni di greggio iraniano) ha chiesto agli Usa di essere esentato, anche alla luce del recente disastro di Fukushima.
Insomma, mentre noi ci “eviriamo” per accontentare Washington, l’Iran vende il suo petrolio in Asia, per altro a prezzi vantaggiosi. Per noi, invece, il prezzo del carburante è destinato a crescere ulteriormente.
Doppio standard
Mentre l’Eni viene costretta ad abbandonare ogni nuovo progetto in Iran e le raffinerie italiane dovranno adattarsi a greggi di qualità più bassa di quello iraniano, l’inglese Bp ottiene un’importante esenzione per un progetto da 20 miliardi di dollari nel Mar Caspio, che vede coinvolta anche l’azienda petrolifera iraniana Naftiran Intertrade. Lo rivela il Wall Street Journal, precisando che grazie all’intercessione di funzionari di Londra e dell’Unione europea presso il Congresso Usa, il progetto al largo dell’Azerbaijan, noto come Shah Deniz II, non sarà bloccato dalle sanzioni, nonostante la Naftiran ne detenga il 10%.
di Ferdinando Calda
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27 gennaio 2012
Il suicidio dell’embargo petrolifero
Il marito che si evira per fare un dispetto alla moglie non è mai stato un esempio di intelligenza. Ma se addirittura non lo fa per sua libera scelta, ma per accontentare un amico capriccioso e prepotente, allora la cosa supera i limiti del demenziale. Purtroppo, però, la metafora sembra essere abbastanza calzante per descrivere l’appoggio dell’Italia all’embargo sul petrolio iraniano votato lunedì scorso dall’Unione europea. Secondo il ministro degli Esteri Giulio Terzi, l’impatto sull’economia italiana delle nuove restrizioni sarà “trascurabile” se non addirittura “nullo”. Ma ieri la FederPetroli Italia ha smentito le parole del ministro, sottolineando che “l’embargo iraniano rappresenterà un grande problema per la situazione petrolifera italiana”. Nel 2011 il nostro Paese ha importato dall’Iran 185mila barili al giorno, pari al 13% del fabbisogno. “Abbiamo altre fonti di approvvigionamento”, ha cercato di rassicurare Terzi, citando ad esempio la Libia, che “sta aumentando le sue forniture”.
Ma l’Iran, sottolineano da FederPetroli, non è solo un importante fornitore. È anche “un produttore di greggio di alta qualità” (ad alto contenuto di zolfo ndr), utilizzato in grandi quantità da molte raffinerie italiane per la produzione di prodotti derivati dalla raffinazione. Entro la fine di giugno queste dovranno abbandonare il petrolio iraniano. E non tutte sono attrezzate per lavorare con altri greggi. “C’è un problema di qualità del greggio, dovremmo fare qualche cambiamento – ha confermato Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni – ma le nostre raffinerie saranno in grado di far fronte a queste carenze”.
A questo si aggiunge il problema dei nuovi fornitori. In prima linea c’è l’Arabia Saudita, che da tempo si è detta disposta ad aumentare la produzione per approfittare dell’uscita dallo scenario europeo del nemico iraniano. Tuttavia sarà difficile che i sauditi – consapevoli di trattare da una posizione privilegiata – potranno eguagliare le condizioni vantaggiose offerte dagli iraniani. Ne sa qualcosa la Grecia, a cui Teheran fornisce un quarto del fabbisogno di petrolio e le consente il pagamento a 60 giorni dalla consegna e l’assenza di garanzie finanziarie. “L’adeguamento degli impianti per altri tipi di greggi similari, la scelta di nuovi fornitori e le variabili temporali, comporteranno dei problemi non da poco”, sottolinea il presidente di FederPetroli Michele Marsiglia.
Nel frattempo chi ci guadagna sono i Paesi asiatici che non seguono i diktat statunitensi e continuano a fare affari vantaggiosi con la Repubblica Islamica. Primi fra tutti Cina e India, per le quali l’Iran rappresenta rispettivamente il terzo e il secondo fornitore. “L’India vuole prendere quanto più greggio iraniano è possibile, perché le condizioni sono favorevoli”, ha dichiarato il ministro indiano del Petrolio S. Jaipal Reddy.
Ma anche gli alleati asiatici degli Stati Uniti che si riforniscono di petrolio iraniano stanno temporeggiando sull’adozione dell’embargo. La Corea del Sud, verso la quale sono destinate il 9% delle esportazioni di Teheran, non ha ancora deciso alcun taglio. Mentre il Giappone (che rappresenta il 13% delle esportazioni di greggio iraniano) ha chiesto agli Usa di essere esentato, anche alla luce del recente disastro di Fukushima.
Insomma, mentre noi ci “eviriamo” per accontentare Washington, l’Iran vende il suo petrolio in Asia, per altro a prezzi vantaggiosi. Per noi, invece, il prezzo del carburante è destinato a crescere ulteriormente.
Doppio standard
Mentre l’Eni viene costretta ad abbandonare ogni nuovo progetto in Iran e le raffinerie italiane dovranno adattarsi a greggi di qualità più bassa di quello iraniano, l’inglese Bp ottiene un’importante esenzione per un progetto da 20 miliardi di dollari nel Mar Caspio, che vede coinvolta anche l’azienda petrolifera iraniana Naftiran Intertrade. Lo rivela il Wall Street Journal, precisando che grazie all’intercessione di funzionari di Londra e dell’Unione europea presso il Congresso Usa, il progetto al largo dell’Azerbaijan, noto come Shah Deniz II, non sarà bloccato dalle sanzioni, nonostante la Naftiran ne detenga il 10%.
di Ferdinando Calda
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