14 settembre 2006

Lo Stato d’Israele è un «danno collaterale» dello sterminio nazista



Ho in mente una frase di George Steiner, grande intellettuale ebreo che ha insegnato nelle università di mezzo mondo. Non so se la citazione sia esatta, attendo eventualmente correzioni e smentite. Dice: il danno più grave che ci ha fatto lo sterminio nazista degli ebrei è stato la nascita dello Stato di Israele.

Credo che molti intellettuali ebrei non sionisti - per esempio, un uomo come Cesare Cases - pensassero lo stesso. Ma mi viene anche in mente che la frase di Steiner, se è esatta e se è sua, sia solo un caso specifico di un fenomeno più generale, il cui modello si trova per esempio nel giudizio di Adorno su Hegel: secondo cui mentre per Hegel, conformemente alla sua visione dialettica del reale, solo «il tutto è il vero», oggi vale la tesi opposta: il tutto è il falso. È, si può dire, un estremo effetto dialettico, nel senso in cui la dialettica implica rovesciamento (ma, stavolta, senza sintesi finale). Il tutto è diventato falso - idealmente, logicamente - quando la totalizzazione del mondo si è fatta realtà.

Così Kant e tanti altri pensatori, anche Hegel, hanno desiderato che si costituisse uno stato cosmopolitico, una sorta di governo unico mondiale che avrebbe garantito la pace. Adorno, con buone ragioni, considerava che la «totalizzazione» del mondo fosse ormai una realtà attraverso la pervasiva presenza dei mass media, la mondializzazione dei mercati, l’omologazione dei gusti e dei desideri. E trovava che questa situazione era il rovescio di ogni ideale di verità e di libertà. Anche Heidegger ragiona in modo analogo, seppure in termini diversi: l’ideale metafisico di una razionalità universalmente valida diventa oggi realtà, più o meno come per Adorno, e questo conduce alla fine della metafisica.

La rivoluzione russa diventata stalinismo è, ovviamente, il culmine emblematico di questo esito. E Israele che diventa uno Stato non sarà un caso di utopia realizzata che perde la sua verità, il suo valore ideale? Leggo il romanzo di Amos Oz, Una storia di amore e di tenebra - un vastissimo affresco dei valori della cultura ebraica, che commuove e fa pensare, e mette in crisi le mie convinzioni politiche antiisraeliane.

Ma se rifletto, mi appare chiaro che la ricchezza di quella cultura che Oz esprime si è costruita nella diaspora, nella lunga storia della dispersione delle tribù d’Israele nel mondo dei gentili, che le hanno perseguitate e offese tanto a lungo. Comunque è da quella diaspora che viene la ricchezza culturale e intellettuale di Israele. Quella che tanti di noi ammirano e amano. Ma non mi commuove affatto la cultura dell’Israele di oggi. Non vorrei esagerare, ma le discoteche di Tel Aviv (che Dio le conservi, non voglio vederle bombardate dai razzi Katiuscia) non sono diverse da quelle di Las Vegas, il paesaggio della Palestina mi emoziona per la sua storia millenaria, se no tanto vale andare in Florida.

Del resto, anche la storia delle rivoluzioni nazionali dell’Ottocento europeo è andata nella stessa direzione. Era importante che gli italiani si sentissero un «popolo di santi, di poeti, di navigatori» quando si trattava di combattere contro lo straniero oppressore. Poi, a unificazione avvenuta, lo slogan è diventato una delle tante ridicole retoriche mussoliniane, contro cui persino la sguaiataggine secessionista della Lega rivendica i propri giusti diritti.
di Gianni Vattimo

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14 settembre 2006

Lo Stato d’Israele è un «danno collaterale» dello sterminio nazista



Ho in mente una frase di George Steiner, grande intellettuale ebreo che ha insegnato nelle università di mezzo mondo. Non so se la citazione sia esatta, attendo eventualmente correzioni e smentite. Dice: il danno più grave che ci ha fatto lo sterminio nazista degli ebrei è stato la nascita dello Stato di Israele.

Credo che molti intellettuali ebrei non sionisti - per esempio, un uomo come Cesare Cases - pensassero lo stesso. Ma mi viene anche in mente che la frase di Steiner, se è esatta e se è sua, sia solo un caso specifico di un fenomeno più generale, il cui modello si trova per esempio nel giudizio di Adorno su Hegel: secondo cui mentre per Hegel, conformemente alla sua visione dialettica del reale, solo «il tutto è il vero», oggi vale la tesi opposta: il tutto è il falso. È, si può dire, un estremo effetto dialettico, nel senso in cui la dialettica implica rovesciamento (ma, stavolta, senza sintesi finale). Il tutto è diventato falso - idealmente, logicamente - quando la totalizzazione del mondo si è fatta realtà.

Così Kant e tanti altri pensatori, anche Hegel, hanno desiderato che si costituisse uno stato cosmopolitico, una sorta di governo unico mondiale che avrebbe garantito la pace. Adorno, con buone ragioni, considerava che la «totalizzazione» del mondo fosse ormai una realtà attraverso la pervasiva presenza dei mass media, la mondializzazione dei mercati, l’omologazione dei gusti e dei desideri. E trovava che questa situazione era il rovescio di ogni ideale di verità e di libertà. Anche Heidegger ragiona in modo analogo, seppure in termini diversi: l’ideale metafisico di una razionalità universalmente valida diventa oggi realtà, più o meno come per Adorno, e questo conduce alla fine della metafisica.

La rivoluzione russa diventata stalinismo è, ovviamente, il culmine emblematico di questo esito. E Israele che diventa uno Stato non sarà un caso di utopia realizzata che perde la sua verità, il suo valore ideale? Leggo il romanzo di Amos Oz, Una storia di amore e di tenebra - un vastissimo affresco dei valori della cultura ebraica, che commuove e fa pensare, e mette in crisi le mie convinzioni politiche antiisraeliane.

Ma se rifletto, mi appare chiaro che la ricchezza di quella cultura che Oz esprime si è costruita nella diaspora, nella lunga storia della dispersione delle tribù d’Israele nel mondo dei gentili, che le hanno perseguitate e offese tanto a lungo. Comunque è da quella diaspora che viene la ricchezza culturale e intellettuale di Israele. Quella che tanti di noi ammirano e amano. Ma non mi commuove affatto la cultura dell’Israele di oggi. Non vorrei esagerare, ma le discoteche di Tel Aviv (che Dio le conservi, non voglio vederle bombardate dai razzi Katiuscia) non sono diverse da quelle di Las Vegas, il paesaggio della Palestina mi emoziona per la sua storia millenaria, se no tanto vale andare in Florida.

Del resto, anche la storia delle rivoluzioni nazionali dell’Ottocento europeo è andata nella stessa direzione. Era importante che gli italiani si sentissero un «popolo di santi, di poeti, di navigatori» quando si trattava di combattere contro lo straniero oppressore. Poi, a unificazione avvenuta, lo slogan è diventato una delle tante ridicole retoriche mussoliniane, contro cui persino la sguaiataggine secessionista della Lega rivendica i propri giusti diritti.
di Gianni Vattimo

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