31 marzo 2009

Il vero mestiere dei nostri banchieri

non-arrendersi-mai

Sei miliardi e mezzo di euro. A tanto ammontano i profitti delle prime due banche italiane, UniCredit e Intesa Sanpaolo, nel 2008.

Più delle risorse nette destinate dal governo al rilancio dell´economia nel 2008, 2009 e 2010 messi insieme, che raggiungono a malapena lo 0,3 per cento del nostro prodotto interno lordo. Ma perché allora aiutiamo le banche con i soldi dei contribuenti? E dobbiamo davvero essere "fieri delle nostre banche", come sostenuto da Alessandro Profumo nel presentare alla stampa i conti del gruppo Unicredit? Sono domande che molti italiani si stanno ponendo in questi giorni.

Partiamo dalla prima domanda. È giusto intervenire a sostegno delle nostre banche perché sono state, nonostante questi preannunciati megaprofitti, nell´occhio del ciclone, al punto che il titolo Unicredit era arrivato a perdere fino al 60% da inizio d´anno e l´80% da luglio 2008, prima della resurrezione degli ultimi giorni. Inoltre il peggio potrebbe ancora venire perché sono sempre di più le imprese che non riescono a ripagare i propri debiti, ci dovranno essere più accantonamenti (quindi meno profitti) a fronte di rischi più elevati e la discesa dei tassi ha eroso proprio i margini su cui sono stati costruiti i megaprofitti. Infine, più che di aiuti sin qui si è trattato di interventi che potenzialmente offrono al Tesoro rendimenti superiori a quelli ottenibili sul mercato. Le stesse norme di alleggerimento fiscale per le fusioni e acquisizioni frequenti nel sistema bancario, come il cosiddetto "affrancamento" dell´avviamento, introdotto a novembre 2008, sono servite per lo più a compensare gli inasprimenti fiscali per le sole banche introdotti qualche mese prima nel nome di Robin Hood.

La seconda domanda è più impegnativa. Venerdì è fallita la Firstcity Bank della Georgia, la diciottesima banca costretta a chiudere i battenti negli Stati Uniti nel solo 2009. In Italia, invece, sin qui le banche non solo non sono fallite, ma addirittura macinano profitti. Bene, anzi, molto bene. Tuttavia, prima di essere fieri delle nostre banche bisogna interrogarsi sulla natura dei loro profitti e capire perché sono stati sin qui relativamente impermeabili alla crisi internazionale. La mia impressione è che sia l´impermeabilità di chi non si tuffa in acqua e, quindi, avverte solo gli spruzzi della tempesta dal litorale. Non deve nascondere i problemi strutturali del nostro sistema bancario, l´altra faccia della medaglia delle debolezze del nostro sistema economico. Le banche italiane ottengono i loro profitti da rendite di posizione nell´accesso al risparmio delle famiglie italiane e nella vendita dei prodotti dei fondi comuni di investimento. Per le banche l´Italia è stato il paese in cui tutte le famiglie sono da mungere. Lo dimostrano diverse analisi comparate sui costi dei servizi bancari nei paesi Ocse: commissioni più alte sui depositi e, nonostante questo, un divario maggiore fra tassi attivi (quelli chiesti alle famiglie che prendono a prestito) e passivi (quelli che remunerano i depositi). Le banche italiane ricavano dai primi il doppio di quanto spendano per i secondi, mentre negli altri paesi dell´Unione Europea a 15 il rapporto è al massimo di 3 a 2. Costano di più anche i crediti al consumo e i mutui offerti alle famiglie. Le banche italiane hanno poi di fatto svuotato i fondi comuni di investimento, di cui sono collocatori e quasi sempre proprietari, spingendo i clienti a comprare le loro obbligazioni bancarie. Poco da stupirsi nella patria dei conflitti di interesse. In ogni caso, il crollo dei fondi è avvenuto simultaneamente alla crescita delle obbligazioni bancarie. Sembrano l´uno lo specchio dell´altra. La concezione del ruolo sociale delle banche, per lunghi anni propugnata dalla stessa Banca d´Italia, è stata quella di chi lucra sui depositi, sulle famiglie, per aiutare le nostre fragili imprese. Per quanto già di per sé discutibile, questo principio è stato applicato al singolare, concentrando gli impieghi sui "grandi nomi" (il termine è dell´amministratore delegato di Deutsche Bank Italia). Queste scelte di concentrazione del credito, per di più offerto con spread risibili a imprese altamente indebitate, hanno molto poco a che fare con il mestiere del banchiere. Le banche abbondano così di sportellisti e non difettano di grandi relazioni con le grandi famiglie, ma mancano di personale in grado di leggere un business plan e di selezionare tra tante piccole imprese quelle che sono meritorie di credito.

Bene allora che una stampa sempre più indebitata, quindi pericolosamente sensibile alle ragioni delle nostre banche, si guardi bene dal celebrarne le gesta in questi giorni in cui si annunciano risultati lusinghieri. Importante anche che il Governo eviti la demagogia e il do ut des. Lasci fare ai prefetti il loro mestiere augurandosi che il loro intervento non sia necessario, ricordandosi che agli inizi del secolo scorso i prefetti telegrafavano a Giolitti che non avrebbero potuto garantire l´ordine pubblico se le banche fossero fallite. Lasci anche che i banchieri facciano il loro mestiere invece di concedere loro crediti (oppure laute commissioni per salvare Alitalia) per poi chiedere in cambio impegni a finanziare quanto l´esecutivo concede alle parti sociali, come nel caso del fondo di garanzia per le piccole imprese. Devono essere le banche, da sole, a ristrutturarsi. Partendo proprio dal rivedere la governance, come ripetutamente richiesto dal Governatore di Banca d´Italia. C´è troppa concentrazione della proprietà e ci sono troppe commistioni tra i consigli di amministrazione di istituti che dovrebbero essere tra di loro concorrenti. Non è certo così che ci potranno aiutare ad uscire al più presto dalla crisi.

di Tito Boeri

Nessun commento:

31 marzo 2009

Il vero mestiere dei nostri banchieri

non-arrendersi-mai

Sei miliardi e mezzo di euro. A tanto ammontano i profitti delle prime due banche italiane, UniCredit e Intesa Sanpaolo, nel 2008.

Più delle risorse nette destinate dal governo al rilancio dell´economia nel 2008, 2009 e 2010 messi insieme, che raggiungono a malapena lo 0,3 per cento del nostro prodotto interno lordo. Ma perché allora aiutiamo le banche con i soldi dei contribuenti? E dobbiamo davvero essere "fieri delle nostre banche", come sostenuto da Alessandro Profumo nel presentare alla stampa i conti del gruppo Unicredit? Sono domande che molti italiani si stanno ponendo in questi giorni.

Partiamo dalla prima domanda. È giusto intervenire a sostegno delle nostre banche perché sono state, nonostante questi preannunciati megaprofitti, nell´occhio del ciclone, al punto che il titolo Unicredit era arrivato a perdere fino al 60% da inizio d´anno e l´80% da luglio 2008, prima della resurrezione degli ultimi giorni. Inoltre il peggio potrebbe ancora venire perché sono sempre di più le imprese che non riescono a ripagare i propri debiti, ci dovranno essere più accantonamenti (quindi meno profitti) a fronte di rischi più elevati e la discesa dei tassi ha eroso proprio i margini su cui sono stati costruiti i megaprofitti. Infine, più che di aiuti sin qui si è trattato di interventi che potenzialmente offrono al Tesoro rendimenti superiori a quelli ottenibili sul mercato. Le stesse norme di alleggerimento fiscale per le fusioni e acquisizioni frequenti nel sistema bancario, come il cosiddetto "affrancamento" dell´avviamento, introdotto a novembre 2008, sono servite per lo più a compensare gli inasprimenti fiscali per le sole banche introdotti qualche mese prima nel nome di Robin Hood.

La seconda domanda è più impegnativa. Venerdì è fallita la Firstcity Bank della Georgia, la diciottesima banca costretta a chiudere i battenti negli Stati Uniti nel solo 2009. In Italia, invece, sin qui le banche non solo non sono fallite, ma addirittura macinano profitti. Bene, anzi, molto bene. Tuttavia, prima di essere fieri delle nostre banche bisogna interrogarsi sulla natura dei loro profitti e capire perché sono stati sin qui relativamente impermeabili alla crisi internazionale. La mia impressione è che sia l´impermeabilità di chi non si tuffa in acqua e, quindi, avverte solo gli spruzzi della tempesta dal litorale. Non deve nascondere i problemi strutturali del nostro sistema bancario, l´altra faccia della medaglia delle debolezze del nostro sistema economico. Le banche italiane ottengono i loro profitti da rendite di posizione nell´accesso al risparmio delle famiglie italiane e nella vendita dei prodotti dei fondi comuni di investimento. Per le banche l´Italia è stato il paese in cui tutte le famiglie sono da mungere. Lo dimostrano diverse analisi comparate sui costi dei servizi bancari nei paesi Ocse: commissioni più alte sui depositi e, nonostante questo, un divario maggiore fra tassi attivi (quelli chiesti alle famiglie che prendono a prestito) e passivi (quelli che remunerano i depositi). Le banche italiane ricavano dai primi il doppio di quanto spendano per i secondi, mentre negli altri paesi dell´Unione Europea a 15 il rapporto è al massimo di 3 a 2. Costano di più anche i crediti al consumo e i mutui offerti alle famiglie. Le banche italiane hanno poi di fatto svuotato i fondi comuni di investimento, di cui sono collocatori e quasi sempre proprietari, spingendo i clienti a comprare le loro obbligazioni bancarie. Poco da stupirsi nella patria dei conflitti di interesse. In ogni caso, il crollo dei fondi è avvenuto simultaneamente alla crescita delle obbligazioni bancarie. Sembrano l´uno lo specchio dell´altra. La concezione del ruolo sociale delle banche, per lunghi anni propugnata dalla stessa Banca d´Italia, è stata quella di chi lucra sui depositi, sulle famiglie, per aiutare le nostre fragili imprese. Per quanto già di per sé discutibile, questo principio è stato applicato al singolare, concentrando gli impieghi sui "grandi nomi" (il termine è dell´amministratore delegato di Deutsche Bank Italia). Queste scelte di concentrazione del credito, per di più offerto con spread risibili a imprese altamente indebitate, hanno molto poco a che fare con il mestiere del banchiere. Le banche abbondano così di sportellisti e non difettano di grandi relazioni con le grandi famiglie, ma mancano di personale in grado di leggere un business plan e di selezionare tra tante piccole imprese quelle che sono meritorie di credito.

Bene allora che una stampa sempre più indebitata, quindi pericolosamente sensibile alle ragioni delle nostre banche, si guardi bene dal celebrarne le gesta in questi giorni in cui si annunciano risultati lusinghieri. Importante anche che il Governo eviti la demagogia e il do ut des. Lasci fare ai prefetti il loro mestiere augurandosi che il loro intervento non sia necessario, ricordandosi che agli inizi del secolo scorso i prefetti telegrafavano a Giolitti che non avrebbero potuto garantire l´ordine pubblico se le banche fossero fallite. Lasci anche che i banchieri facciano il loro mestiere invece di concedere loro crediti (oppure laute commissioni per salvare Alitalia) per poi chiedere in cambio impegni a finanziare quanto l´esecutivo concede alle parti sociali, come nel caso del fondo di garanzia per le piccole imprese. Devono essere le banche, da sole, a ristrutturarsi. Partendo proprio dal rivedere la governance, come ripetutamente richiesto dal Governatore di Banca d´Italia. C´è troppa concentrazione della proprietà e ci sono troppe commistioni tra i consigli di amministrazione di istituti che dovrebbero essere tra di loro concorrenti. Non è certo così che ci potranno aiutare ad uscire al più presto dalla crisi.

di Tito Boeri

Nessun commento: