01 febbraio 2009

Il Pd e Debenedetti


In prospettiva del passaggio della presidenza G8 all’Italia, è fondamentale che il dialogo tra maggioranza ed opposizione non sia lacerato e giunga invece a riconoscere la imprescindibilità della riorganizzazione fallimentare sistemica come primo passo per giungere ad una autentica Nuova Bretton Woods, di modo da impedire che la crisi finanziaria si propaghi ancor più all’economia reale. Ciò rappresenterà il fondamento di un nuovo sistema finanziario ed economico figlio della tradizione di Franklin Delano Roosevelt, oggi rappresentata in modo esemplare da Lyndon LaRouche. L’entità della bolla speculativa rispetto alla produzione reale globale, come spiegato a Parigi l’8 ed il 9 gennaio scorso dal ministro dell’economia italiano Giulio Tremonti, dal presidente francese Nicolas Sarkozy e dall’ex primo ministro francese, il socialista Michel Rocard, non consente altrimenti. I tre, a differenza di Trichet, di Blair e della Merkel comprendono sempre più a fondo il disegno che LaRouche propone oramai dal ‘94 per far ripartire l’economia reale globale e che avrebbe evitato l’attuale situazione finanziaria e di scontri geo-politici. Affinché l’Italia possa svolgere un ruolo centrale in questa crisi, è necessario che anche il Partito Democratico italiano si esponga in modo non equivoco intorno a questo punto e prenda le distanze dalle soluzioni filo-oligarchiche tipo quelle esternate recentemente dall’ex premier italiano Prodi. Questo dialogo è tuttavia minato già sul nascere. Infatti il PD si trova al centro di un tentativo di evitare proprio questo processo, e quanto sta verificandosi con lo scoppio a ripetizione di inchieste della Magistratura intorno ai suoi esponenti, non deve essere confuso per un attacco contro il PD. Ad essere oggetto di queste inchieste non sono genericamente gli esponenti del PD, quanto piuttosto gli esponenti della superstite ala costituzionalista ed antifascista, quella che ha deciso di non piegarsi ai voleri del suo principale sponsor finanziario. Se queste inchieste indeboliscono il PD inteso come organizzazione politica fatta di elettori e rappresentanti eletti, ognuno con un proprio grado di rappresentatività, allo stesso tempo queste inchieste lo rafforzano se lo intendiamo come una espressione centralizzata delle volontà del suo deus ex machina, l’ing. Carlo De Benedetti. Il Partito Democratico, infatti, lungi dall’essere un partito a partecipazione popolare – dove appunto la voce indipendente della sua base conti realmente qualcosa – è stato creato, cooptando ed emarginando l’autentica ala democratica, per raggiungere i fini che la sua proprietà ha deciso, e dove i dirigenti di turno sono equiparabili a dei promotori di interessi finanziari. Si tratta di quegli stessi interessi facenti capo alle più importanti famiglie bancarie del mondo (i Morgan, i Rothschild, ed altre) che con lo scoppio della crisi finanziaria, rischiano oggi come negli anni ‘30, di ritrovarsi tra i piedi un Franklin Roosevelt che tenga dritta la rotta della nave verso l’idea del Bene Comune, e che denunci il grande bluff che negli ultimi quarant’anni ha disastrato l’intero pianeta.

Fin dal processo costituente, il PD mostrò la sua vera natura

Nella primavera del 2007 il Movimento Internazionale per i diritti civili - Solidarietà distribuì durante i congressi dei DS a Firenze e della Margherita a Roma, un documento in cui si puntava ad offrire una via d’uscita autenticamente repubblicana e democratica, all’allora nascente Partito Democratico italiano. In quel documento si ammoniva dall’intraprendere la strada della costruzione di un partito oligarchico, come era nel disegno di De Benedetti. Il documento si intitolava Per un Partito Democratico antioligarchico, nella tradizione di Roosevelt, De Gasperi, Mattei e La Pira. Lo slogan, come scrivemmo nel rapporto pubblico di quelle azioni, oggi appare profetico, in quanto esso fu: “Che il nascendo Partito Democratico si orienti a Roosevelt e LaRouche piuttosto che Al Gore e altri ‘democratici per il fallimento’ “.

Invece la strada intrapresa dal PD è stata quella voluta da De Benedetti, ossia quella di un partito dalla marcata connotazione liberista, funzionale a quel silenzioso attentato alla Costituzione che progressivamente, nel corso dell’ultimo quarantennio, ha portato a fuoriuscire completamente dai suoi principi ispiratori: dalla centralità dell’azione di governo in economia, ad un’economia rimessa alla sola legge di mercato; dalla centralità del lavoratore e della produzione alla centralità del consumatore e del consumo. In breve, i pilastri fondanti di questo PD, di questo Partito De Benedetti, sono gli stessi che sono all’origine della crisi economica e finanziaria che ha investito il mondo.

Così, quanto sta verificandosi in Italia da un paio di mesi a questa parte, con lo stillicidio di inchieste della magistratura, va visto come un frammento di un film con una trama ben più complessa, rispetto al singolo spezzone.

La regia del tutto, parte dalla City di Londra, da quell’oligarchia finanziaria che riesce a far apparire dal nulla circa 2.000 miliardi di dollari per salvare il sistema bancario, ma non riesce a trovare 50 miliardi di dollari per i progetti di sviluppo nel Terzo Mondo[1]. Essa, con particolare riferimento al legame che lega la casata bancaria dei Rothschild allo speculatore George Soros, si muove in Italia con il proprio primario rappresentante, l’ing. Carlo De Benedetti, per completare quel disegno di finanziarizzazione dell’intera economia italiana avviato in Italia nel 1992. Funzionale a ciò è l’ideologia liberista, che viene fatta avanzare con la barzelletta delle liberalizzazioni, come democratica panacea ai mali d’Italia, le quali garantirebbero concorrenza, bassi prezzi e qualità.

L’oligarchia finanziaria ha un grosso problema: la bolla finanziaria è scoppiata e sta progressivamente entrando nella sua fase terminale; essa non accetta che questa deflagri, e si trova davanti uno scenario per sé stessa pericoloso: la rievocazione delle politiche del dirigismo rooseveltiano che passano per il suo massimo sostenitore ed esperto oggi vivente, Lyndon LaRouche[2] . Molti governi cominciano a dare ascolto a LaRouche – fermo oppositore da circa quarant’anni dei disegni dell’oligarchia finanziaria – e questo, per l’oligarchia finanziaria, vorrebbe dire perdere la posizione di vero governo mondiale che dal ‘71 ha riacquistato.

Invece, l’oligarchia finanziaria punta a salvare la bolla dei derivati e per farlo ha necessità di finanziarizzare ancor più l’economia mondiale. Così, essa punta a liberalizzare per privatizzare; a privatizzare per finanziarizzare.

Il problema di fondo è sostanziale e non nominale. Quali sono le idee a cui questa oligarchia si rifà? Finanziarizzazione, privatizzazione, liberalizzazione. Queste sono le idee che devono essere combattute, riscoprendo invece la più alta concezione dell’organizzazione politica ed economica che la nostra Costituzione ci offre. Gli articoli 1, 2, 3, 4, 36, 41, 42, 47, ci dicono molto e sono palesemente violati.

Il Partito Democratico deve respingere l’influenza di Soros e De Benedetti

Per comprendere cosa sia il PD, non possiamo trascurare la sua genesi e non possiamo trascurare l’anno 1992. Dobbiamo ricordare cosa abbia voluto dire per l’Italia quell’anno: gli omicidi di Falcone e Borsellino, lo scoppio del caso “Mani pulite” (che stravolse l’assetto politico italiano), l’attacco speculativo alla lira ed altre valute europee orchestrato dal megaspeculatore George Soros (oggi abitualmente presentato come un filantropo). Ma se questi sono eventi ben noti ai più, meno noto è un fatto passato molto in sordina sui media. Il 2 giugno 1992, sul panfilo della regina Elisabetta II, il Britannia, si svolgeva una riunione semi-cospirativa[3] tra i principali esponenti della City, il mondo finanziario londinese, alcuni manager pubblici italiani, rappresentanti del governo di allora e personaggi che poi sarebbero diventati ministri nel governo Amato. Oggetto di discussione: le privatizzazioni.

Queste ultime, lungi dall’essere uno strumento di “moderna” democrazia volto a rendere più efficiente l’economia nazionale, hanno rappresentato il passo preteso dall’oligarchia finanziaria per trasferire immense fette dell’impresa pubblica (industria, banche, infrastrutture) e dell’economia partecipata da piccolissimi imprenditori (il commercio) ad una ristretta oligarchia finanziaria decisa a finanziarizzare quanto più possibile l’economia mondiale per impedire lo scoppio della mega bolla speculativa che dal 1971, con l’abbattimento degli accordi di Bretton Woods, è andata crescendo in modo esponenziale, parassitando l’economia reale ed impedendone la ripresa reale. Questo processo di finanziarizzazione, oltre a coinvolgere l’impresa nazionale, ha coinvolto pure i risparmi degli italiani, trasferendoli durante gli anni ‘90 dai buoni del Tesoro al mercato azionario. Questi risparmi si volatilizzarono con lo scoppio della bolla della new economy, artatamente creata dal sistema bancario e dai media. Ma in questo processo rientra pure la progressiva distruzione del sistema di welfare, con sempre maggior attenzione al sistema previdenziale e pensionistico ed a quello sanitario.

Quando divenne chiaro alla cittadinanza il bluff che si celava dietro la campagna ideologica del “più impresa meno Stato”, il termine “privatizzazioni” fu sostituito con il termine “liberalizzazioni”; più concorrenza, più libertà di mercato, avrebbero migliorato produzioni e servizi e fatto scendere i prezzi. Ed invece, dal commercio alle utilities, in Italia come nel resto del mondo, dove è intervenuto un processo di liberalizzazione, si è assistito a risultati diametralmente opposti a quelli promessi, e perfettamente coincidenti con il risultato del progressivo trasferimento della ricchezza nelle mani dell’oligarchia finanziaria. Se la guerra culturale[4] fatta di menzogne ripetute all’infinito dai media, e più in generale dal complesso culturale, ha fatto metter radici all’idea per cui le liberalizzazioni siano un fenomeno positivo per la gente, la classe politica ha fatto sì che i frutti della pianta seminata finissero nelle mani dei finanziatori della propria carriera politica.

Circa George Soros, egli non è semplicemente uno speculatore, bensì ricopre nella politica mondiale un ruolo che sempre da più parti gli viene riconosciuto.

Tra Soros, De Benedetti ed il PD italiano vi è un rapporto molto stretto, come faceva comprendere il Corriere della Sera[5] già nel 2005, con un articolo di Francesco Verderami. E’ da questo stretto legame che si può evincere l’attuale natura oligarchica, invece che democratica e repubblicana, del Partito democratico italiano. Chi è uscito dall’incantesimo per cui i partiti funzionerebbero grazie alle sovvenzioni pubbliche, capisce bene che se un soggetto finanzia un partito, ha sullo stesso una certa influenza.

George Soros è famoso per il suo cinismo, per essere stato – per sua stessa ammissione – all’origine di varie spedizioni speculative (per esempio quella in Europa nel ‘92 e quella nel Sud-est asiatico nel ‘97-’98), ma anche famoso per avere finanziato le rivoluzioni “democratiche” a giro per il mondo, dall’Europa (come quelle in Ucraina, Georgia e Bielorussia), all’Asia e al Sud-America, nonché per il suo tentativo di legalizzare la droga a livello mondiale.

Il livello di moralità di questo sicario economico è ben referenziato da una sua affermazione, ripresa dal documento Lo sviluppo moderno dell’attività finanziaria alla luce dell’etica cristiana, preparato dalla Commissione pontificia Justitia et Pax; Soros testualmente dice:

‹‹Sono certo che le attività speculative hanno avuto delle conseguenze negative. Ma questo fatto non entra nel mio pensiero. Non può. Se io mi astenessi da determinate azioni a causa di dubbi morali, allora cesserei di essere un efficace speculatore. Non ho neanche l’ombra di un rimorso perché faccio un profitto dalla speculazione sulla lira sterlina. Io non ho speculato contro la sterlina per aiutare l’Inghilterra, né l’ho fatto per danneggiarla. L’ho fatto semplicemente per far soldi››.

Sia chiaro, si tratta di attività che si ammantano del crisma della legalità (anche se nel 2002 una corte francese lo condannò per insider trading), ma questo genere di legalità non è certo quello che consente di qualificare una persona come “filantropo”.

Dice Verderami sul Corriere:

«Quando Francesco Rutelli è entrato ieri al numero 888 della Settima Avenue per conoscere George Soros, le presentazioni erano di fatto già avvenute. Perché il leader della Margherita era stato preceduto da una lettera inviata giorni fa da Carlo De Benedetti. Poche righe in cui l’Ingegnere aveva tracciato al potente finanziere il profilo dell’ex sindaco di Roma, definito «un giovane brillante politico italiano”. I rivali di Rutelli diranno che si è fatto raccomandare, che per essere ricevuto si è valso di una lettera per accreditarsi. Ma la tesi stride con la genesi dell’incontro, se è vero che l’idea risale a due settimane fa, e che l’approccio è avvenuto via email. Con la posta elettronica Lapo Pistelli provò infatti a contattare il magnate americano. Il responsabile Esteri dei Dl si trovava insieme a Rutelli a Cipro per un incontro del Partito democratico europeo: studiando l’agenda del viaggio negli Stati Uniti, si accorsero che mancava qualcosa, “ci sono gli appuntamenti politici, però ne servirebbe uno con il mondo della finanza”. è una storia tipicamente americana quella capitata al capo della Margherita, visto che quando partì il messaggio nessuno pensava di ottenere risposta, “nessuno in Italia - commenta Pistelli - si sognerebbe di entrare in contatto così con un industriale o un banchiere”: “La storia del nostro incontro con Soros dimostra che in America, dall’altro capo del telefono o del computer, c’ è sempre qualcuno pronto a darti attenzione”.»

Non è la prima volta che Carlo De Benedetti funge da tramite tra politici italiani ed il megaspeculatore. La stessa cosa era già avvenuta anni prima con Antonio Di Pietro.

E’ doveroso però puntualizzare alcune cose che, se non conosciute, non fanno comprendere a fondo la portata di questo articolo del Corriere. Rutelli gode dell’ammirazione del salotto di De Benedetti, per il cinismo delle soluzioni politiche “innovative” adottate, e che presto si dimostreranno disastrose (si pensi alla privatizzazione-quotazione di Acea, l’utility di Roma attiva nell’acqua e nell’energia). Queste operazioni consentono la quotazione in borsa dei cespiti dell’economia reale, nonché la partecipazione dei gruppi finanziari al capitale sociale di queste aziende. Per l’oligarchia finanziaria non è tanto importante la partecipazione in sé stessa, quanto ciò che essa consente di fare nei mercati finanziari; essa rappresenta cioè il sottostante su cui creare strumenti finanziari derivati (principalmente over the counter, fuori mercato) che consentono di sostenere ed alimentare la bolla speculativa globale.

Questa strumentalità alla grande finanza, dimostrò di averla anche Walter Veltroni, quando nel 2007, si rese protagonista dello scontro con il settore taxi, considerato dall’establishment un vero e proprio tavolo di prova che avrebbe consentito di procedere più spediti sul fronte della privatizzazione di tutti i servizi pubblici e para-pubblici. Veltroni, poi, dimostrando di aver compreso la lezione liberista dei Chicago boys, parlò più volte di “terapia shock” come metodo per l’attuazione dell’agenda economica. Lapo Pistelli, oggi candidato alle primarie del PD per le elezioni amministrative fiorentine, con assoluta nonchalance, parla dell’appuntamento con Soros, come di un fatto accidentale, come a dire: «Prima la politica, e poi la finanza, sia chiaro!», poi, da navigato sofista della politica, sottolinea che quel contatto via e-mail indica che nella terra di zio Tom vi sarebbe sempre qualche buon samaritano.

Con il soi disant filantropo, ha storiche relazioni pure Romano Prodi. Quest’ultimo racconta di aver collaborato con lui, dopo che lasciò la presidenza dell’Iri (addirittura partecipando alla cerimonia per laurea honoris causa conferita a Soros dalla facoltà di economia dell’Università di Bologna, e presentando l’edizione italiana del suo libro autobiografico).

Carlo De Benedetti, invece, oltre che essere famoso per avere contribuito alla distruzione di importanti industrie italiane (Olivetti e Fiat) è famoso per il suo ruolo di alter ego a Silvio Berlusconi sul fronte dei media (Repubblica, L’Espresso, vari giornali locali, Radio Deejay, Radio Capital, ecc.).

Se negli Stati Uniti è Soros che prova ad influenzare costantemente il Partito Democratico americano, in Italia è De Benedetti che prova a compiere la medesima operazione. Ma che visione ha De Benedetti sul come debba funzionare la Repubblica e quale sia la sua Costituzione? Da un’intervista del dicembre 2005 rilasciata al Corriere della Sera[6] , se ne rileva un quadro piuttosto chiaro. A parte il fatto di avere previsto che Prodi avrebbe avuto vita breve nel centro-sinistra – “amministratore straordinario” profetizzò – (probabilmente non l’ha imposto, ma grazie ai media ed ai soldi, si riescono ad attuare nei politici più deboli, meccanismi di vera e propria sudditanza psicologica) e che Veltroni e Rutelli sarebbero stati i leader del partito – non si può spiegare in termini propriamente democratici la candidatura di quest’ultimo a sindaco di Roma, quando con il progetto Margherita aveva conseguito risultati fallimentari ad ogni elezione, ed era responsabile dello scandalo delle tessere di partito intestate a deceduti … la meritocrazia … – , ci sono una serie di passaggi in quell’intervista, che fanno luce in merito a quelli che sono stati alcuni momenti decisivi della recente storia politica italiana, e quelli che dovranno essere gli obiettivi della sua creatura politica.

De Benedetti per esempio considera troppo poco liberiste le riforme fatte nel diritto del lavoro negli ultimi anni. Così, individuando anche le reali responsabilità storiche del processo di arretramento delle tutele lavorative, egli afferma: «Sul mercato del lavoro c’è un’elasticità insufficiente. Treu ha iniziato, la legge Biagi ha incrementato ma bisogna fare di più, molto di più». E su chi debba essere il pilastro del sistema politico ed economico, egli fuoriesce completamente dal dettato costituzionale che fin dai suoi primi quattro articoli impernia tutta la sua visione sociale intorno a lavoro e lavoratore. Egli infatti afferma: «Il referente del Partito democratico deve essere il consumatore».

Recentemente, invece, dopo essere stato beneficiato da alcuni provvedimenti presi in Sardegna da Renato Soru, avrebbe individuato in quest’ultimo, il futuro leader del PD. Si tratterebbe di un’ulteriore involuzione del PD, vista la mentalità finanziarista e decrescitista dell’ex patron Tiscali.

La Magistratura: contro il PD o contro una parte del PD? Cui prodest?

Dall’intervista rilasciata al Corriere si evince facilmente che a De Benedetti i dirigenti ex DS, non piacciono proprio. Afferma infatti: «Senza la Margherita i Ds oggi sarebbero più conservatori», e poi rincara la dose dicendo: «Alcuni esponenti della sinistra continuano a coltivare verità non dette, cadono in affermazioni che non corrispondono ai comportamenti. Metta le liberalizzazioni. Per un Bersani che ne è sinceramente convinto ci sono dieci assessori regionali che ostacolano la deregulation nel commercio e nell’elettricità. In Italia chi comanda negli enti locali? Per lo più il centrosinistra e vedo nascere tante piccole Iri».

Ma a non piacergli sono pure gli ex democristiani della corrente morotea. Si ricordi infatti che quando il Partito Popolare italiano fu fuso con le altre esperienze centriste per creare la Margherita, politici come Giovanni Bianchi (ultimo vero presidente del Ppi) e Gerardo Bianco (ultimo vero segretario del Ppi) furono emarginati per essere sostituiti da nuovi rampolli, tipo Francesco Rutelli. Se si considera questo elemento, risulta essere fallace la lettura che alcuni politici come Graziano Cioni a Firenze, o alcuni noti osservatori come Giulietto Chiesa, stanno facendo parlando dell’attuale guerra intestina al PD come di una guerra tra ex democristiani ed ex comunisti. Se si vogliono individuare due correnti, invece, la corretta lettura è quella per cui da una parte vi sarebbero gli ex morotei ed i dalemiani (diciamo gli eredi del Comitato di Liberazione Nazionale) che concepiscono la politica come un qualcosa di radicato nel territorio e si identificano fortemente nell’art. 3, 2° comma della Costituzione della Repubblica, dall’altra parte invece vi sarebbero coloro che si sono supinamente asserviti ai diktat provenienti dal complesso finanziario e mediatico di matrice liberista e finanziarista.

A proposito di liberalizzazioni, non è un caso che proprio queste abbiano rappresentato l’elemento catalizzatore di battaglie ideologiche – si pensi a quella di Veltroni a Roma con i taxi – e di alleanze politiche. In merito a queste ultime, infatti, l’unico elemento di comunanza che il PD ha con i Radicali (anch’essi finanziati da Soros) e l’Italia dei Valori, è sul fronte delle liberalizzazioni. Allo stesso modo, è proprio questo il motivo per cui non si è giunti ad un’alleanza con la sinistra c.d. radicale.

Massimo D’Alema comprende da anni quale sia lo scenario politico che si celava prima dietro l’Ulivo e poi dietro l’Unione per arrivare infine al PD. Nel 1999, quando era ancora Presidente del Consiglio, D’Alema affermava:

« … ci mettiamo un po’ di ambientalismo, perché va di moda, poi siamo un po’ di sinistra, ma come Blair perché è sufficientemente lontano [dalla tradizione comunista], poi siamo anche un po’ eredi della tradizione del cattolicesimo democratico, poi ci mettiamo un po’ di giustizialismo che va di moda e abbiamo fatto un nuovo partito, lo chiamiamo in un modo che non dispiace a nessuno perché “Verdi” è duro, “Sinistra” suona male, “Democratici” siamo tutti ed è fatta! E chi può essere contro, diciamo, un prodotto così straordinariamente perfetto … c’è tutto dentro! Auguri, però io non ci credo!»[7]

Negli ultimi mesi, si andava delineando, soprattutto con colloqui al nord, l’ipotesi di creare delle federazioni macro-regionali del PD, di modo da dotarsi di una certa autonomia rispetto a Roma e radicarsi maggiormente sul territorio. A questo, con lo stesso intento, si aggiungeva la creazione di vari eventi come il movimento politico Red. In molti dirigenti locali del partito vi era e vi è il malcontento per una gestione troppo centralizzata nella figura del segretario Veltroni delle dinamiche interne (il caso Firenze, con l’intervento di “commissario straordinario” di Vannino Chiti, mandato da Roma, ribadisce ciò), nonché per gli abusi contro lo statuto e per la sostanziale inoperosità dell’Assemblea costituente del PD. Se tutto ciò poteva portare al trionfo elettorale, si era disposti ad accettarlo, ma ora che è evidente il fallimento di questa strada, i dirigenti vogliono tornare a poter dire la loro.

In sostanza i dirigenti storici stavano disallineandosi dai diktat provenienti da Roma. E tutto ciò ai “capi d’azienda” non piace proprio. Se i leader della Prima Repubblica furono fatti fuori perché si potesse procedere allo smantellamento dell’industria nazionale, quelli di oggi vengono fatti saltare perché non sono abbastanza ubbidienti ed efficaci in merito all’attuazione della “fase 2″ dell’Operazione Britannia: quella relativa alle ultime liberalizzazioni mancanti. I politici che danno prova d’indipendenza politica ed intellettuale, non sono funzionali a questo disegno.

Se andiamo ad osservare chi è stato oggetto degli attacchi della Magistratura, verifichiamo che le inchieste hanno riguardato i dirigenti locali, i dirigenti pre-PD, gente che si era guadagnata il consenso popolare da sé, gente che in effetti aveva la facoltà di poter dire di no ad un diktat proveniente da Roma (dalemiani ed ex morotei). Le inchieste, infatti, più che toccare il PD, toccano una sua corrente. Queste inchieste, di fatto, hanno colpito chi era oggetto della critica di De Benedetti. Ed infatti D’Alema, che ha ben capito il gioco, ha voluto precisare che il problema non sta tanto sul fatto di essere vecchi o nuovi dirigenti, quanto nell’essere onesti o disonesti.

Il caso fiorentino e Licio Gelli

A Firenze, gli osservatori più attenti, quando seppero della discesa in campo per le primarie del PD per la corsa a sindaco di Lapo Pistelli, deputato alla Camera e responsabile relazioni internazionali del partito, compresero subito che la candidatura di Graziano Cioni sarebbe saltata attraverso metodi anomali.

Il ragionamento che quegl’osservatori facevano era il seguente: Pistelli sicuramente conosce il forte svantaggio che gli danno i sondaggi rispetto a Cioni; se ha deciso di partecipare alle primarie del suo partito, avrà sicuramente ricevuto garanzie circa l’esito delle stesse; ci saremmo altrimenti trovati di fronte ad un insolito caso di suicidio politico che chi vive di sola politica non può permettersi di correre. Di fatto, gli eventi hanno preso un corso tale da suffragare in pieno quella che ai conformisti appariva una lettura dietrologica. Ma se si analizzano i capi di accusa piombati sulla testa di Graziano Cioni a pochi mesi dalle primarie fiorentine, ci si convince ancor più che l’inchiesta contro di lui sia stata una bomba ad orologeria scoppiata in seguito alla mancata ricezione da parte dello stesso Cioni del messaggio che in più modi gli veniva fatto arrivare: a queste primarie non s’ha da partecipar!

Il sondaggio Ipsos del luglio scorso ordinava in questo modo i consensi all’interno dei candidati PD a sindaco (a quel tempo ipotetici): 1) Graziano Cioni (32%), 2) Matteo Renzi (25% e coinvolto immotivatamente dai media di De Benedetti nell’inchiesta scoppiata a Firenze), 3) Lapo Pistelli (23%), 4) Daniela Lastri (21%) . Dopo l’inchiesta della Magistratura per il caso Castello/Fondiaria-Sai, e gli echi offerti dai media alla faccenda, l’ordine del sondaggi è completamente mutato: 1) Lapo Pistelli (12,2%), 2) Daniela Lastri (11,6%) [8], 3) Matteo Renzi (9,9%) [9]. Graziano Cioni è invece stato costretto a ritirarsi dalla corsa.

Che si voglia riconoscere o meno allo scoppio dell’inchiesta un premeditato intento politico, il fatto resta che essa, per il timing avuto e per le notizie fuoriuscite sui media, ha avuto degli indubbi risvolti politico-elettorali.

Gli ultimi sviluppi del caso Firenze, vanno sempre nella medesima direzione. A fronte di un PD locale che delibera per delle primarie di partito senza ballottaggio (opzione con cui Cioni sarebbe rientrato in gara), una fantomatica “interpretazione autentica” proveniente da Roma – a cui il PD fiorentino si era opposto fino all’arrivo del “commissario straordinario”, Vannino Chiti – determina invece che le primarie debbano essere di coalizione e con ballottaggio. Con questa ipotesi, il candidato sicuramente perdente nell’altra ipotesi, Lapo Pistelli, diventa invece blindato, poiché anche in caso di secondo posto ottenuto al primo turno, rientra in corsa per la vittoria finale grazie al ballottaggio.

Ma c’è anche un’altra tessera che si aggiunge a questo mosaico, e che è stata sottolineata dallo stesso Cioni. Si tratta di un’intervista rilasciata da Licio Gelli a La Stampa il 15 dicembre, in cui l’ex venerabile afferma che dietro le inchieste contro i dirigenti locali del PD vi sarebbe la massoneria fiorentina, a causa della guerra fatta dallo stesso Cioni contro le associazioni segrete.

Questa intervista, rischia di essere fuorviante se non si intende la massoneria a cui fa riferimento Gelli, più propriamente come oligarchia finanziaria. Questa oligarchia, è da ripetere, ha in scopo un preciso progetto liberista per finanziarizzare ancor più l’economia reale, a fronte di una bolla speculativa globale che necessita che ogni “illuminato locale” faccia la sua parte, perché la bolla è scoppiata e rischia di perdere quell’elemento “fiducia” da parte della comunità mondiale, di cui necessita per sopravvivere. Se invece si va ad intendere la massoneria di cui parla Gelli, come composta da semplici potenti ben organizzati, si identifica solo l’ombra del nemico, ma non la sua sostanziale figura ed il fine dei suoi colpi; detto in altri termini, non si identificano le contro azioni che devono essere intraprese affinché il suo disegno non si adempia.

Al disegno di questa oligarchia, rischierebbe di piegarsi pure il centro-destra laddove procedesse verso quella liberalizzazione delle utilities spacciata come benefica.

Perché sia ripresa la strada tracciata dalla nostra Costituzione

Massimo D’Alema ha dimostrato di avere molte delle qualità necessarie per essere un leader. In particolare, si è sempre caratterizzato tra i colleghi politici per una non frequente indipendenza intellettuale, libero dalle mode del momento. Proprio per questo, sotto l’influenza di De Benedetti, non può essere un dirigente del PD. Tuttavia, D’Alema ha mancato in questi anni del coraggio di immettersi sulla sempre proficua strada della verità e di lottare per essa. Un esempio su tutti: D’Alema[10], nonostante segua e conosca il ruolo di LaRouche, esita però ad appoggiarne pubblicamente l’azione e le idee, come invece ha fatto Giulio Tremonti. Poi, pur comprendendo il fenomeno ed i retroscena di “Mani pulite”, non ha mai avuto il coraggio di denunciare la strategia del Britannia a cui quella sommossa giudiziaria era funzionale.

Purtroppo D’Alema è ancora adesso vittima di quell’esistenzialismo che ha caratterizzato la politica dell’ultimo quarantennio, e che impedisce di avere visione strategica, prevedere gli scenari futuri e cercare di assecondarli se positivi, di deviarli se negativi. Così egli ha preferito seguire i processi controrivoluzionari, illudendosi di poterli cavalcare sempre da vincente. Questa è la trappola più frequente in cui cadono molti politici di oggi.

Tuttavia l’attuale situazione, in cui molti potenziali leader del centro-sinistra rischiano di essere sostanzialmente messi all’angolo della politica italiana, può rappresentare per la loro stessa dignità di uomini, la forza contingente che può “costringerli” a tirare fuori quel coraggio necessario per passare dall’esistenzialismo alle idee, dalla statistica alla scienza, dal comodo al vero.

Affinché si giunga alla esistenziale riforma del sistema finanziario ed economico internazionale, secondo le concezioni rooseveltian-larouchiane, bisogna che i leader del PD italiano escano dalla cappa di asservimento morale e culturale a cui vengono obbligati dallo sponsor finanziario, e piuttosto decidano di alzarsi e camminare nella direzione della verità delle cose.

C’è bisogno di quel coraggio che per esempio D’Alema riesce talvolta a tirar fuori, come nel caso israeliano-palestinese, dove la tanaglia della gabbia culturale è sempre pronta a scattare accusando di antisemitismo tutti quelli che si provano a criticare l’operato delle dirigenze israeliane.

Non possono esservi timori in merito ad eventuali contraddizioni rispetto a ciò che in passato si è sostenuto e ciò che adesso bisogna sostenere. Alla gente non fa specie chi cambia opinione se il nuovo proposito è migliore del vecchio; non è vero il contrario invece. Dice Machiavelli ricordando Cicerone: «E li popoli, come dice Tullio, benché siano ignoranti sono capaci della verità, e facilmente cedano quando da uomo degno di fede è detto loro il vero.»

Finchè Giulio Tremonti mantiene un ruolo di primo piano nell’attuale Governo, la corrente costituzionalista, antiliberista ed antifascista del centro-sinistra, può tornare ad essere decisiva nella politica italiana e mondiale. Se Tremonti attaccando banchieri e petrolieri, ha deciso di dare un taglio forte alla tradizione oligarchica che il PD stava incarnando sia con i vaneggiamenti di Giavazzi ed Alesina, sia con la politica demagogica di Bersani imperniata a bastonare i piccoli imprenditori, la corrente autenticamente democratica del PD può fare la stessa cosa rifacendosi alla tradizione di Franklin Roosevelt e pigiando forte sulla necessità di una riforma del sistema monetario e finanziario internazionale che rimetta nella sovranità politica il controllo della situazione, invece che lasciarlo nelle mani di chi può essere inteso solo come player (banche e comunità finanziaria). Il Paese necessita di dotarsi della indipendenza energetica che Mattei comprese essere necessaria perché l’Italia potesse contare qualcosa sulla scena politica mondiale, e per farlo è imprescindibile il passaggio al nucleare. Parlare di fonti a basso flusso di densità energetica, vuol dire di fatto mantenere l’Italia su un livello di sovranità condizionata. E’ ovvio che per fare tutto ciò deve essere messa all’indice l’ideologia liberista. Se il PD finora è stato un bluff, funzionale soltanto a spostare verso istanze reazionarie, contro il lavoratore e dunque contro l’impalcatura costituzionale, la nave della politica italiana, si possono ringraziare anche ideologi come Giavazzi ed Alesina. Il PD necessita di ridarsi una visione politico-economica che abbia a che fare con la scienza dell’economia e con gli economisti; il liberismo, Giavazzi ed Alesina si occupano di altro, non è chiaro di cosa, ma si occupano di altro.

Claudio Giudici

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01 febbraio 2009

Il Pd e Debenedetti


In prospettiva del passaggio della presidenza G8 all’Italia, è fondamentale che il dialogo tra maggioranza ed opposizione non sia lacerato e giunga invece a riconoscere la imprescindibilità della riorganizzazione fallimentare sistemica come primo passo per giungere ad una autentica Nuova Bretton Woods, di modo da impedire che la crisi finanziaria si propaghi ancor più all’economia reale. Ciò rappresenterà il fondamento di un nuovo sistema finanziario ed economico figlio della tradizione di Franklin Delano Roosevelt, oggi rappresentata in modo esemplare da Lyndon LaRouche. L’entità della bolla speculativa rispetto alla produzione reale globale, come spiegato a Parigi l’8 ed il 9 gennaio scorso dal ministro dell’economia italiano Giulio Tremonti, dal presidente francese Nicolas Sarkozy e dall’ex primo ministro francese, il socialista Michel Rocard, non consente altrimenti. I tre, a differenza di Trichet, di Blair e della Merkel comprendono sempre più a fondo il disegno che LaRouche propone oramai dal ‘94 per far ripartire l’economia reale globale e che avrebbe evitato l’attuale situazione finanziaria e di scontri geo-politici. Affinché l’Italia possa svolgere un ruolo centrale in questa crisi, è necessario che anche il Partito Democratico italiano si esponga in modo non equivoco intorno a questo punto e prenda le distanze dalle soluzioni filo-oligarchiche tipo quelle esternate recentemente dall’ex premier italiano Prodi. Questo dialogo è tuttavia minato già sul nascere. Infatti il PD si trova al centro di un tentativo di evitare proprio questo processo, e quanto sta verificandosi con lo scoppio a ripetizione di inchieste della Magistratura intorno ai suoi esponenti, non deve essere confuso per un attacco contro il PD. Ad essere oggetto di queste inchieste non sono genericamente gli esponenti del PD, quanto piuttosto gli esponenti della superstite ala costituzionalista ed antifascista, quella che ha deciso di non piegarsi ai voleri del suo principale sponsor finanziario. Se queste inchieste indeboliscono il PD inteso come organizzazione politica fatta di elettori e rappresentanti eletti, ognuno con un proprio grado di rappresentatività, allo stesso tempo queste inchieste lo rafforzano se lo intendiamo come una espressione centralizzata delle volontà del suo deus ex machina, l’ing. Carlo De Benedetti. Il Partito Democratico, infatti, lungi dall’essere un partito a partecipazione popolare – dove appunto la voce indipendente della sua base conti realmente qualcosa – è stato creato, cooptando ed emarginando l’autentica ala democratica, per raggiungere i fini che la sua proprietà ha deciso, e dove i dirigenti di turno sono equiparabili a dei promotori di interessi finanziari. Si tratta di quegli stessi interessi facenti capo alle più importanti famiglie bancarie del mondo (i Morgan, i Rothschild, ed altre) che con lo scoppio della crisi finanziaria, rischiano oggi come negli anni ‘30, di ritrovarsi tra i piedi un Franklin Roosevelt che tenga dritta la rotta della nave verso l’idea del Bene Comune, e che denunci il grande bluff che negli ultimi quarant’anni ha disastrato l’intero pianeta.

Fin dal processo costituente, il PD mostrò la sua vera natura

Nella primavera del 2007 il Movimento Internazionale per i diritti civili - Solidarietà distribuì durante i congressi dei DS a Firenze e della Margherita a Roma, un documento in cui si puntava ad offrire una via d’uscita autenticamente repubblicana e democratica, all’allora nascente Partito Democratico italiano. In quel documento si ammoniva dall’intraprendere la strada della costruzione di un partito oligarchico, come era nel disegno di De Benedetti. Il documento si intitolava Per un Partito Democratico antioligarchico, nella tradizione di Roosevelt, De Gasperi, Mattei e La Pira. Lo slogan, come scrivemmo nel rapporto pubblico di quelle azioni, oggi appare profetico, in quanto esso fu: “Che il nascendo Partito Democratico si orienti a Roosevelt e LaRouche piuttosto che Al Gore e altri ‘democratici per il fallimento’ “.

Invece la strada intrapresa dal PD è stata quella voluta da De Benedetti, ossia quella di un partito dalla marcata connotazione liberista, funzionale a quel silenzioso attentato alla Costituzione che progressivamente, nel corso dell’ultimo quarantennio, ha portato a fuoriuscire completamente dai suoi principi ispiratori: dalla centralità dell’azione di governo in economia, ad un’economia rimessa alla sola legge di mercato; dalla centralità del lavoratore e della produzione alla centralità del consumatore e del consumo. In breve, i pilastri fondanti di questo PD, di questo Partito De Benedetti, sono gli stessi che sono all’origine della crisi economica e finanziaria che ha investito il mondo.

Così, quanto sta verificandosi in Italia da un paio di mesi a questa parte, con lo stillicidio di inchieste della magistratura, va visto come un frammento di un film con una trama ben più complessa, rispetto al singolo spezzone.

La regia del tutto, parte dalla City di Londra, da quell’oligarchia finanziaria che riesce a far apparire dal nulla circa 2.000 miliardi di dollari per salvare il sistema bancario, ma non riesce a trovare 50 miliardi di dollari per i progetti di sviluppo nel Terzo Mondo[1]. Essa, con particolare riferimento al legame che lega la casata bancaria dei Rothschild allo speculatore George Soros, si muove in Italia con il proprio primario rappresentante, l’ing. Carlo De Benedetti, per completare quel disegno di finanziarizzazione dell’intera economia italiana avviato in Italia nel 1992. Funzionale a ciò è l’ideologia liberista, che viene fatta avanzare con la barzelletta delle liberalizzazioni, come democratica panacea ai mali d’Italia, le quali garantirebbero concorrenza, bassi prezzi e qualità.

L’oligarchia finanziaria ha un grosso problema: la bolla finanziaria è scoppiata e sta progressivamente entrando nella sua fase terminale; essa non accetta che questa deflagri, e si trova davanti uno scenario per sé stessa pericoloso: la rievocazione delle politiche del dirigismo rooseveltiano che passano per il suo massimo sostenitore ed esperto oggi vivente, Lyndon LaRouche[2] . Molti governi cominciano a dare ascolto a LaRouche – fermo oppositore da circa quarant’anni dei disegni dell’oligarchia finanziaria – e questo, per l’oligarchia finanziaria, vorrebbe dire perdere la posizione di vero governo mondiale che dal ‘71 ha riacquistato.

Invece, l’oligarchia finanziaria punta a salvare la bolla dei derivati e per farlo ha necessità di finanziarizzare ancor più l’economia mondiale. Così, essa punta a liberalizzare per privatizzare; a privatizzare per finanziarizzare.

Il problema di fondo è sostanziale e non nominale. Quali sono le idee a cui questa oligarchia si rifà? Finanziarizzazione, privatizzazione, liberalizzazione. Queste sono le idee che devono essere combattute, riscoprendo invece la più alta concezione dell’organizzazione politica ed economica che la nostra Costituzione ci offre. Gli articoli 1, 2, 3, 4, 36, 41, 42, 47, ci dicono molto e sono palesemente violati.

Il Partito Democratico deve respingere l’influenza di Soros e De Benedetti

Per comprendere cosa sia il PD, non possiamo trascurare la sua genesi e non possiamo trascurare l’anno 1992. Dobbiamo ricordare cosa abbia voluto dire per l’Italia quell’anno: gli omicidi di Falcone e Borsellino, lo scoppio del caso “Mani pulite” (che stravolse l’assetto politico italiano), l’attacco speculativo alla lira ed altre valute europee orchestrato dal megaspeculatore George Soros (oggi abitualmente presentato come un filantropo). Ma se questi sono eventi ben noti ai più, meno noto è un fatto passato molto in sordina sui media. Il 2 giugno 1992, sul panfilo della regina Elisabetta II, il Britannia, si svolgeva una riunione semi-cospirativa[3] tra i principali esponenti della City, il mondo finanziario londinese, alcuni manager pubblici italiani, rappresentanti del governo di allora e personaggi che poi sarebbero diventati ministri nel governo Amato. Oggetto di discussione: le privatizzazioni.

Queste ultime, lungi dall’essere uno strumento di “moderna” democrazia volto a rendere più efficiente l’economia nazionale, hanno rappresentato il passo preteso dall’oligarchia finanziaria per trasferire immense fette dell’impresa pubblica (industria, banche, infrastrutture) e dell’economia partecipata da piccolissimi imprenditori (il commercio) ad una ristretta oligarchia finanziaria decisa a finanziarizzare quanto più possibile l’economia mondiale per impedire lo scoppio della mega bolla speculativa che dal 1971, con l’abbattimento degli accordi di Bretton Woods, è andata crescendo in modo esponenziale, parassitando l’economia reale ed impedendone la ripresa reale. Questo processo di finanziarizzazione, oltre a coinvolgere l’impresa nazionale, ha coinvolto pure i risparmi degli italiani, trasferendoli durante gli anni ‘90 dai buoni del Tesoro al mercato azionario. Questi risparmi si volatilizzarono con lo scoppio della bolla della new economy, artatamente creata dal sistema bancario e dai media. Ma in questo processo rientra pure la progressiva distruzione del sistema di welfare, con sempre maggior attenzione al sistema previdenziale e pensionistico ed a quello sanitario.

Quando divenne chiaro alla cittadinanza il bluff che si celava dietro la campagna ideologica del “più impresa meno Stato”, il termine “privatizzazioni” fu sostituito con il termine “liberalizzazioni”; più concorrenza, più libertà di mercato, avrebbero migliorato produzioni e servizi e fatto scendere i prezzi. Ed invece, dal commercio alle utilities, in Italia come nel resto del mondo, dove è intervenuto un processo di liberalizzazione, si è assistito a risultati diametralmente opposti a quelli promessi, e perfettamente coincidenti con il risultato del progressivo trasferimento della ricchezza nelle mani dell’oligarchia finanziaria. Se la guerra culturale[4] fatta di menzogne ripetute all’infinito dai media, e più in generale dal complesso culturale, ha fatto metter radici all’idea per cui le liberalizzazioni siano un fenomeno positivo per la gente, la classe politica ha fatto sì che i frutti della pianta seminata finissero nelle mani dei finanziatori della propria carriera politica.

Circa George Soros, egli non è semplicemente uno speculatore, bensì ricopre nella politica mondiale un ruolo che sempre da più parti gli viene riconosciuto.

Tra Soros, De Benedetti ed il PD italiano vi è un rapporto molto stretto, come faceva comprendere il Corriere della Sera[5] già nel 2005, con un articolo di Francesco Verderami. E’ da questo stretto legame che si può evincere l’attuale natura oligarchica, invece che democratica e repubblicana, del Partito democratico italiano. Chi è uscito dall’incantesimo per cui i partiti funzionerebbero grazie alle sovvenzioni pubbliche, capisce bene che se un soggetto finanzia un partito, ha sullo stesso una certa influenza.

George Soros è famoso per il suo cinismo, per essere stato – per sua stessa ammissione – all’origine di varie spedizioni speculative (per esempio quella in Europa nel ‘92 e quella nel Sud-est asiatico nel ‘97-’98), ma anche famoso per avere finanziato le rivoluzioni “democratiche” a giro per il mondo, dall’Europa (come quelle in Ucraina, Georgia e Bielorussia), all’Asia e al Sud-America, nonché per il suo tentativo di legalizzare la droga a livello mondiale.

Il livello di moralità di questo sicario economico è ben referenziato da una sua affermazione, ripresa dal documento Lo sviluppo moderno dell’attività finanziaria alla luce dell’etica cristiana, preparato dalla Commissione pontificia Justitia et Pax; Soros testualmente dice:

‹‹Sono certo che le attività speculative hanno avuto delle conseguenze negative. Ma questo fatto non entra nel mio pensiero. Non può. Se io mi astenessi da determinate azioni a causa di dubbi morali, allora cesserei di essere un efficace speculatore. Non ho neanche l’ombra di un rimorso perché faccio un profitto dalla speculazione sulla lira sterlina. Io non ho speculato contro la sterlina per aiutare l’Inghilterra, né l’ho fatto per danneggiarla. L’ho fatto semplicemente per far soldi››.

Sia chiaro, si tratta di attività che si ammantano del crisma della legalità (anche se nel 2002 una corte francese lo condannò per insider trading), ma questo genere di legalità non è certo quello che consente di qualificare una persona come “filantropo”.

Dice Verderami sul Corriere:

«Quando Francesco Rutelli è entrato ieri al numero 888 della Settima Avenue per conoscere George Soros, le presentazioni erano di fatto già avvenute. Perché il leader della Margherita era stato preceduto da una lettera inviata giorni fa da Carlo De Benedetti. Poche righe in cui l’Ingegnere aveva tracciato al potente finanziere il profilo dell’ex sindaco di Roma, definito «un giovane brillante politico italiano”. I rivali di Rutelli diranno che si è fatto raccomandare, che per essere ricevuto si è valso di una lettera per accreditarsi. Ma la tesi stride con la genesi dell’incontro, se è vero che l’idea risale a due settimane fa, e che l’approccio è avvenuto via email. Con la posta elettronica Lapo Pistelli provò infatti a contattare il magnate americano. Il responsabile Esteri dei Dl si trovava insieme a Rutelli a Cipro per un incontro del Partito democratico europeo: studiando l’agenda del viaggio negli Stati Uniti, si accorsero che mancava qualcosa, “ci sono gli appuntamenti politici, però ne servirebbe uno con il mondo della finanza”. è una storia tipicamente americana quella capitata al capo della Margherita, visto che quando partì il messaggio nessuno pensava di ottenere risposta, “nessuno in Italia - commenta Pistelli - si sognerebbe di entrare in contatto così con un industriale o un banchiere”: “La storia del nostro incontro con Soros dimostra che in America, dall’altro capo del telefono o del computer, c’ è sempre qualcuno pronto a darti attenzione”.»

Non è la prima volta che Carlo De Benedetti funge da tramite tra politici italiani ed il megaspeculatore. La stessa cosa era già avvenuta anni prima con Antonio Di Pietro.

E’ doveroso però puntualizzare alcune cose che, se non conosciute, non fanno comprendere a fondo la portata di questo articolo del Corriere. Rutelli gode dell’ammirazione del salotto di De Benedetti, per il cinismo delle soluzioni politiche “innovative” adottate, e che presto si dimostreranno disastrose (si pensi alla privatizzazione-quotazione di Acea, l’utility di Roma attiva nell’acqua e nell’energia). Queste operazioni consentono la quotazione in borsa dei cespiti dell’economia reale, nonché la partecipazione dei gruppi finanziari al capitale sociale di queste aziende. Per l’oligarchia finanziaria non è tanto importante la partecipazione in sé stessa, quanto ciò che essa consente di fare nei mercati finanziari; essa rappresenta cioè il sottostante su cui creare strumenti finanziari derivati (principalmente over the counter, fuori mercato) che consentono di sostenere ed alimentare la bolla speculativa globale.

Questa strumentalità alla grande finanza, dimostrò di averla anche Walter Veltroni, quando nel 2007, si rese protagonista dello scontro con il settore taxi, considerato dall’establishment un vero e proprio tavolo di prova che avrebbe consentito di procedere più spediti sul fronte della privatizzazione di tutti i servizi pubblici e para-pubblici. Veltroni, poi, dimostrando di aver compreso la lezione liberista dei Chicago boys, parlò più volte di “terapia shock” come metodo per l’attuazione dell’agenda economica. Lapo Pistelli, oggi candidato alle primarie del PD per le elezioni amministrative fiorentine, con assoluta nonchalance, parla dell’appuntamento con Soros, come di un fatto accidentale, come a dire: «Prima la politica, e poi la finanza, sia chiaro!», poi, da navigato sofista della politica, sottolinea che quel contatto via e-mail indica che nella terra di zio Tom vi sarebbe sempre qualche buon samaritano.

Con il soi disant filantropo, ha storiche relazioni pure Romano Prodi. Quest’ultimo racconta di aver collaborato con lui, dopo che lasciò la presidenza dell’Iri (addirittura partecipando alla cerimonia per laurea honoris causa conferita a Soros dalla facoltà di economia dell’Università di Bologna, e presentando l’edizione italiana del suo libro autobiografico).

Carlo De Benedetti, invece, oltre che essere famoso per avere contribuito alla distruzione di importanti industrie italiane (Olivetti e Fiat) è famoso per il suo ruolo di alter ego a Silvio Berlusconi sul fronte dei media (Repubblica, L’Espresso, vari giornali locali, Radio Deejay, Radio Capital, ecc.).

Se negli Stati Uniti è Soros che prova ad influenzare costantemente il Partito Democratico americano, in Italia è De Benedetti che prova a compiere la medesima operazione. Ma che visione ha De Benedetti sul come debba funzionare la Repubblica e quale sia la sua Costituzione? Da un’intervista del dicembre 2005 rilasciata al Corriere della Sera[6] , se ne rileva un quadro piuttosto chiaro. A parte il fatto di avere previsto che Prodi avrebbe avuto vita breve nel centro-sinistra – “amministratore straordinario” profetizzò – (probabilmente non l’ha imposto, ma grazie ai media ed ai soldi, si riescono ad attuare nei politici più deboli, meccanismi di vera e propria sudditanza psicologica) e che Veltroni e Rutelli sarebbero stati i leader del partito – non si può spiegare in termini propriamente democratici la candidatura di quest’ultimo a sindaco di Roma, quando con il progetto Margherita aveva conseguito risultati fallimentari ad ogni elezione, ed era responsabile dello scandalo delle tessere di partito intestate a deceduti … la meritocrazia … – , ci sono una serie di passaggi in quell’intervista, che fanno luce in merito a quelli che sono stati alcuni momenti decisivi della recente storia politica italiana, e quelli che dovranno essere gli obiettivi della sua creatura politica.

De Benedetti per esempio considera troppo poco liberiste le riforme fatte nel diritto del lavoro negli ultimi anni. Così, individuando anche le reali responsabilità storiche del processo di arretramento delle tutele lavorative, egli afferma: «Sul mercato del lavoro c’è un’elasticità insufficiente. Treu ha iniziato, la legge Biagi ha incrementato ma bisogna fare di più, molto di più». E su chi debba essere il pilastro del sistema politico ed economico, egli fuoriesce completamente dal dettato costituzionale che fin dai suoi primi quattro articoli impernia tutta la sua visione sociale intorno a lavoro e lavoratore. Egli infatti afferma: «Il referente del Partito democratico deve essere il consumatore».

Recentemente, invece, dopo essere stato beneficiato da alcuni provvedimenti presi in Sardegna da Renato Soru, avrebbe individuato in quest’ultimo, il futuro leader del PD. Si tratterebbe di un’ulteriore involuzione del PD, vista la mentalità finanziarista e decrescitista dell’ex patron Tiscali.

La Magistratura: contro il PD o contro una parte del PD? Cui prodest?

Dall’intervista rilasciata al Corriere si evince facilmente che a De Benedetti i dirigenti ex DS, non piacciono proprio. Afferma infatti: «Senza la Margherita i Ds oggi sarebbero più conservatori», e poi rincara la dose dicendo: «Alcuni esponenti della sinistra continuano a coltivare verità non dette, cadono in affermazioni che non corrispondono ai comportamenti. Metta le liberalizzazioni. Per un Bersani che ne è sinceramente convinto ci sono dieci assessori regionali che ostacolano la deregulation nel commercio e nell’elettricità. In Italia chi comanda negli enti locali? Per lo più il centrosinistra e vedo nascere tante piccole Iri».

Ma a non piacergli sono pure gli ex democristiani della corrente morotea. Si ricordi infatti che quando il Partito Popolare italiano fu fuso con le altre esperienze centriste per creare la Margherita, politici come Giovanni Bianchi (ultimo vero presidente del Ppi) e Gerardo Bianco (ultimo vero segretario del Ppi) furono emarginati per essere sostituiti da nuovi rampolli, tipo Francesco Rutelli. Se si considera questo elemento, risulta essere fallace la lettura che alcuni politici come Graziano Cioni a Firenze, o alcuni noti osservatori come Giulietto Chiesa, stanno facendo parlando dell’attuale guerra intestina al PD come di una guerra tra ex democristiani ed ex comunisti. Se si vogliono individuare due correnti, invece, la corretta lettura è quella per cui da una parte vi sarebbero gli ex morotei ed i dalemiani (diciamo gli eredi del Comitato di Liberazione Nazionale) che concepiscono la politica come un qualcosa di radicato nel territorio e si identificano fortemente nell’art. 3, 2° comma della Costituzione della Repubblica, dall’altra parte invece vi sarebbero coloro che si sono supinamente asserviti ai diktat provenienti dal complesso finanziario e mediatico di matrice liberista e finanziarista.

A proposito di liberalizzazioni, non è un caso che proprio queste abbiano rappresentato l’elemento catalizzatore di battaglie ideologiche – si pensi a quella di Veltroni a Roma con i taxi – e di alleanze politiche. In merito a queste ultime, infatti, l’unico elemento di comunanza che il PD ha con i Radicali (anch’essi finanziati da Soros) e l’Italia dei Valori, è sul fronte delle liberalizzazioni. Allo stesso modo, è proprio questo il motivo per cui non si è giunti ad un’alleanza con la sinistra c.d. radicale.

Massimo D’Alema comprende da anni quale sia lo scenario politico che si celava prima dietro l’Ulivo e poi dietro l’Unione per arrivare infine al PD. Nel 1999, quando era ancora Presidente del Consiglio, D’Alema affermava:

« … ci mettiamo un po’ di ambientalismo, perché va di moda, poi siamo un po’ di sinistra, ma come Blair perché è sufficientemente lontano [dalla tradizione comunista], poi siamo anche un po’ eredi della tradizione del cattolicesimo democratico, poi ci mettiamo un po’ di giustizialismo che va di moda e abbiamo fatto un nuovo partito, lo chiamiamo in un modo che non dispiace a nessuno perché “Verdi” è duro, “Sinistra” suona male, “Democratici” siamo tutti ed è fatta! E chi può essere contro, diciamo, un prodotto così straordinariamente perfetto … c’è tutto dentro! Auguri, però io non ci credo!»[7]

Negli ultimi mesi, si andava delineando, soprattutto con colloqui al nord, l’ipotesi di creare delle federazioni macro-regionali del PD, di modo da dotarsi di una certa autonomia rispetto a Roma e radicarsi maggiormente sul territorio. A questo, con lo stesso intento, si aggiungeva la creazione di vari eventi come il movimento politico Red. In molti dirigenti locali del partito vi era e vi è il malcontento per una gestione troppo centralizzata nella figura del segretario Veltroni delle dinamiche interne (il caso Firenze, con l’intervento di “commissario straordinario” di Vannino Chiti, mandato da Roma, ribadisce ciò), nonché per gli abusi contro lo statuto e per la sostanziale inoperosità dell’Assemblea costituente del PD. Se tutto ciò poteva portare al trionfo elettorale, si era disposti ad accettarlo, ma ora che è evidente il fallimento di questa strada, i dirigenti vogliono tornare a poter dire la loro.

In sostanza i dirigenti storici stavano disallineandosi dai diktat provenienti da Roma. E tutto ciò ai “capi d’azienda” non piace proprio. Se i leader della Prima Repubblica furono fatti fuori perché si potesse procedere allo smantellamento dell’industria nazionale, quelli di oggi vengono fatti saltare perché non sono abbastanza ubbidienti ed efficaci in merito all’attuazione della “fase 2″ dell’Operazione Britannia: quella relativa alle ultime liberalizzazioni mancanti. I politici che danno prova d’indipendenza politica ed intellettuale, non sono funzionali a questo disegno.

Se andiamo ad osservare chi è stato oggetto degli attacchi della Magistratura, verifichiamo che le inchieste hanno riguardato i dirigenti locali, i dirigenti pre-PD, gente che si era guadagnata il consenso popolare da sé, gente che in effetti aveva la facoltà di poter dire di no ad un diktat proveniente da Roma (dalemiani ed ex morotei). Le inchieste, infatti, più che toccare il PD, toccano una sua corrente. Queste inchieste, di fatto, hanno colpito chi era oggetto della critica di De Benedetti. Ed infatti D’Alema, che ha ben capito il gioco, ha voluto precisare che il problema non sta tanto sul fatto di essere vecchi o nuovi dirigenti, quanto nell’essere onesti o disonesti.

Il caso fiorentino e Licio Gelli

A Firenze, gli osservatori più attenti, quando seppero della discesa in campo per le primarie del PD per la corsa a sindaco di Lapo Pistelli, deputato alla Camera e responsabile relazioni internazionali del partito, compresero subito che la candidatura di Graziano Cioni sarebbe saltata attraverso metodi anomali.

Il ragionamento che quegl’osservatori facevano era il seguente: Pistelli sicuramente conosce il forte svantaggio che gli danno i sondaggi rispetto a Cioni; se ha deciso di partecipare alle primarie del suo partito, avrà sicuramente ricevuto garanzie circa l’esito delle stesse; ci saremmo altrimenti trovati di fronte ad un insolito caso di suicidio politico che chi vive di sola politica non può permettersi di correre. Di fatto, gli eventi hanno preso un corso tale da suffragare in pieno quella che ai conformisti appariva una lettura dietrologica. Ma se si analizzano i capi di accusa piombati sulla testa di Graziano Cioni a pochi mesi dalle primarie fiorentine, ci si convince ancor più che l’inchiesta contro di lui sia stata una bomba ad orologeria scoppiata in seguito alla mancata ricezione da parte dello stesso Cioni del messaggio che in più modi gli veniva fatto arrivare: a queste primarie non s’ha da partecipar!

Il sondaggio Ipsos del luglio scorso ordinava in questo modo i consensi all’interno dei candidati PD a sindaco (a quel tempo ipotetici): 1) Graziano Cioni (32%), 2) Matteo Renzi (25% e coinvolto immotivatamente dai media di De Benedetti nell’inchiesta scoppiata a Firenze), 3) Lapo Pistelli (23%), 4) Daniela Lastri (21%) . Dopo l’inchiesta della Magistratura per il caso Castello/Fondiaria-Sai, e gli echi offerti dai media alla faccenda, l’ordine del sondaggi è completamente mutato: 1) Lapo Pistelli (12,2%), 2) Daniela Lastri (11,6%) [8], 3) Matteo Renzi (9,9%) [9]. Graziano Cioni è invece stato costretto a ritirarsi dalla corsa.

Che si voglia riconoscere o meno allo scoppio dell’inchiesta un premeditato intento politico, il fatto resta che essa, per il timing avuto e per le notizie fuoriuscite sui media, ha avuto degli indubbi risvolti politico-elettorali.

Gli ultimi sviluppi del caso Firenze, vanno sempre nella medesima direzione. A fronte di un PD locale che delibera per delle primarie di partito senza ballottaggio (opzione con cui Cioni sarebbe rientrato in gara), una fantomatica “interpretazione autentica” proveniente da Roma – a cui il PD fiorentino si era opposto fino all’arrivo del “commissario straordinario”, Vannino Chiti – determina invece che le primarie debbano essere di coalizione e con ballottaggio. Con questa ipotesi, il candidato sicuramente perdente nell’altra ipotesi, Lapo Pistelli, diventa invece blindato, poiché anche in caso di secondo posto ottenuto al primo turno, rientra in corsa per la vittoria finale grazie al ballottaggio.

Ma c’è anche un’altra tessera che si aggiunge a questo mosaico, e che è stata sottolineata dallo stesso Cioni. Si tratta di un’intervista rilasciata da Licio Gelli a La Stampa il 15 dicembre, in cui l’ex venerabile afferma che dietro le inchieste contro i dirigenti locali del PD vi sarebbe la massoneria fiorentina, a causa della guerra fatta dallo stesso Cioni contro le associazioni segrete.

Questa intervista, rischia di essere fuorviante se non si intende la massoneria a cui fa riferimento Gelli, più propriamente come oligarchia finanziaria. Questa oligarchia, è da ripetere, ha in scopo un preciso progetto liberista per finanziarizzare ancor più l’economia reale, a fronte di una bolla speculativa globale che necessita che ogni “illuminato locale” faccia la sua parte, perché la bolla è scoppiata e rischia di perdere quell’elemento “fiducia” da parte della comunità mondiale, di cui necessita per sopravvivere. Se invece si va ad intendere la massoneria di cui parla Gelli, come composta da semplici potenti ben organizzati, si identifica solo l’ombra del nemico, ma non la sua sostanziale figura ed il fine dei suoi colpi; detto in altri termini, non si identificano le contro azioni che devono essere intraprese affinché il suo disegno non si adempia.

Al disegno di questa oligarchia, rischierebbe di piegarsi pure il centro-destra laddove procedesse verso quella liberalizzazione delle utilities spacciata come benefica.

Perché sia ripresa la strada tracciata dalla nostra Costituzione

Massimo D’Alema ha dimostrato di avere molte delle qualità necessarie per essere un leader. In particolare, si è sempre caratterizzato tra i colleghi politici per una non frequente indipendenza intellettuale, libero dalle mode del momento. Proprio per questo, sotto l’influenza di De Benedetti, non può essere un dirigente del PD. Tuttavia, D’Alema ha mancato in questi anni del coraggio di immettersi sulla sempre proficua strada della verità e di lottare per essa. Un esempio su tutti: D’Alema[10], nonostante segua e conosca il ruolo di LaRouche, esita però ad appoggiarne pubblicamente l’azione e le idee, come invece ha fatto Giulio Tremonti. Poi, pur comprendendo il fenomeno ed i retroscena di “Mani pulite”, non ha mai avuto il coraggio di denunciare la strategia del Britannia a cui quella sommossa giudiziaria era funzionale.

Purtroppo D’Alema è ancora adesso vittima di quell’esistenzialismo che ha caratterizzato la politica dell’ultimo quarantennio, e che impedisce di avere visione strategica, prevedere gli scenari futuri e cercare di assecondarli se positivi, di deviarli se negativi. Così egli ha preferito seguire i processi controrivoluzionari, illudendosi di poterli cavalcare sempre da vincente. Questa è la trappola più frequente in cui cadono molti politici di oggi.

Tuttavia l’attuale situazione, in cui molti potenziali leader del centro-sinistra rischiano di essere sostanzialmente messi all’angolo della politica italiana, può rappresentare per la loro stessa dignità di uomini, la forza contingente che può “costringerli” a tirare fuori quel coraggio necessario per passare dall’esistenzialismo alle idee, dalla statistica alla scienza, dal comodo al vero.

Affinché si giunga alla esistenziale riforma del sistema finanziario ed economico internazionale, secondo le concezioni rooseveltian-larouchiane, bisogna che i leader del PD italiano escano dalla cappa di asservimento morale e culturale a cui vengono obbligati dallo sponsor finanziario, e piuttosto decidano di alzarsi e camminare nella direzione della verità delle cose.

C’è bisogno di quel coraggio che per esempio D’Alema riesce talvolta a tirar fuori, come nel caso israeliano-palestinese, dove la tanaglia della gabbia culturale è sempre pronta a scattare accusando di antisemitismo tutti quelli che si provano a criticare l’operato delle dirigenze israeliane.

Non possono esservi timori in merito ad eventuali contraddizioni rispetto a ciò che in passato si è sostenuto e ciò che adesso bisogna sostenere. Alla gente non fa specie chi cambia opinione se il nuovo proposito è migliore del vecchio; non è vero il contrario invece. Dice Machiavelli ricordando Cicerone: «E li popoli, come dice Tullio, benché siano ignoranti sono capaci della verità, e facilmente cedano quando da uomo degno di fede è detto loro il vero.»

Finchè Giulio Tremonti mantiene un ruolo di primo piano nell’attuale Governo, la corrente costituzionalista, antiliberista ed antifascista del centro-sinistra, può tornare ad essere decisiva nella politica italiana e mondiale. Se Tremonti attaccando banchieri e petrolieri, ha deciso di dare un taglio forte alla tradizione oligarchica che il PD stava incarnando sia con i vaneggiamenti di Giavazzi ed Alesina, sia con la politica demagogica di Bersani imperniata a bastonare i piccoli imprenditori, la corrente autenticamente democratica del PD può fare la stessa cosa rifacendosi alla tradizione di Franklin Roosevelt e pigiando forte sulla necessità di una riforma del sistema monetario e finanziario internazionale che rimetta nella sovranità politica il controllo della situazione, invece che lasciarlo nelle mani di chi può essere inteso solo come player (banche e comunità finanziaria). Il Paese necessita di dotarsi della indipendenza energetica che Mattei comprese essere necessaria perché l’Italia potesse contare qualcosa sulla scena politica mondiale, e per farlo è imprescindibile il passaggio al nucleare. Parlare di fonti a basso flusso di densità energetica, vuol dire di fatto mantenere l’Italia su un livello di sovranità condizionata. E’ ovvio che per fare tutto ciò deve essere messa all’indice l’ideologia liberista. Se il PD finora è stato un bluff, funzionale soltanto a spostare verso istanze reazionarie, contro il lavoratore e dunque contro l’impalcatura costituzionale, la nave della politica italiana, si possono ringraziare anche ideologi come Giavazzi ed Alesina. Il PD necessita di ridarsi una visione politico-economica che abbia a che fare con la scienza dell’economia e con gli economisti; il liberismo, Giavazzi ed Alesina si occupano di altro, non è chiaro di cosa, ma si occupano di altro.

Claudio Giudici

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