La programmazione di queste superbombe o “massive ordnance penetrators”, gli ordigni più potenti dell’arsenale dopo le armi nucleari, è iniziata durante l’amministrazione di Bush, ma si è affievolita. Quando Obama è entrato in carica ha immediatamente accelerato i programmi, e saranno impiegati svariati anni prima di quanto previsto, mirando specificamente all’Iran. “Si stanno preparando totalmente per la distruzione dell’Iran,” secondo Dan Plesch, direttore del Centre for International Studies and Diplomacy della University of London. “i bombardieri USA e i missili a lungo raggio sono pronti oggi a distruggere 10.000 bersagli in Iran in alcune ore,” ha detto. “La potenza di fuoco delle forze statunitensi è quadruplicata dal 2003,” accelerando sotto Obama. La stampa araba riporta che una flotta americana (con una nave israeliana) ha attraversato il Canale di Suez in direzione del Golfo Persico, dove il suo compito è di “implementare le sanzioni contro l’Iran e di controllare le navi in transito dall’Iran e per l’Iran”. I media britannici e israeliani riportano che l’Arabia Saudita starebbe fornendo un corridoio per il bombardamento dell’Iran da parte di Israele (cosa negata dall’Arabia Saudita). Al suo ritorno dall’Afghanistan per rassicurare gli alleati della NATO che gli USA manterranno il corso dopo la sostituzione del generale McChrystal dal suo superiore, il generale Petraeus, il presidente dei “Joint Chiefs of Staff” o Stati Maggiori Riuniti, ammiraglio Michael Mullen è andato in Israele per incontrare il capo di stato maggiore della difesa israeliana Gabi Ashkenazi, ed influenti militari israeliani, insieme alle unità di intelligence e programmazione, continuando lo strategico dialogo annuale tra Israele e gli USA a Tel Aviv. L’incontro verteva “sulla preparazione sia di Israele che degli USA per la possibilità di un Iran con capacità nucleare,” secondo Haaretz, che riporta inoltre che Mullen avrebbe enfatizzato che “[io] cerco sempre di vedere le sfide dal punto di vista israeliano”. Mullen e Ashkenazi si tengono in regolare contatto su una linea sicura. Le crescenti minacce di un’azione militare contro l’Iran violano certamente la Carta delle Nazioni Unite, e in modo specifico la risoluzione 1887 del settembre 2009 del Consiglio di Sicurezza, che ha riaffermato l’invito a tutti gli stati a risolvere pacificamente le dispute in merito a questioni sul nucleare, secondo lo Statuto, che proibisce l’uso, o la minaccia della forza. Alcuni rispettati analisti descrivono la minaccia iraniana in termini apocalittici. Amitai Etzioni avverte che “gli USA dovranno confrontarsi con l’Iran o rinunciare al Medio Oriente”, niente di meno. Se il programma nucleare dell’Iran procederà, afferma, la Turchia, l’Arabia Saudita ed altri stati si “muoveranno verso” il nuovo “superpotere” iraniano; con una retorica meno accesa, si potrebbe creare un’alleanza regionale indipendente dagli USA. Nel periodico dell’esercito americano Military Review, Etzioni promuove un attacco degli USA che prenda come bersaglio non solo gli impianti nucleari dell’Iran, ma anche i suoi complessi militari non nucleari, infrastruttura compresa – ossia, la società civile. “Questo tipo di azione militare è assimilabile alle sanzioni – nel provocare ‘dolore’ al fine di cambiare il comportamento, seppure con mezzi ben più potenti”. Messe da parte queste sconvolgenti dichiarazioni, qual è per l’esattezza la minaccia iraniana? Un’autorevole risposta si trova nello studio dell’aprile 2010 dell’International Institute of Strategic Studies, Military Balance 2010. Il brutale regime clericale è senza dubbio una minaccia per la sua stessa gente, ma in questo senso non lo è più di quello di altri alleati dell’America nella regione. Ma non è questo che preoccupa l’Institute. Che piuttosto si preoccupa per la minaccia che l’Iran costituisce per la regione e per il mondo. Lo studio mette in chiaro che la minaccia iraniana non è militare. La spesa militare dell’Iran è “relativamente bassa in confronto al resto della regione,” e meno del 2% di quella degli USA. La dottrina militare iraniana è strettamente “difensiva, … intesa a rallentare un’invasione e ad imporre una soluzione diplomatica alle ostilità”. L’Iran ha solo “una capacità limitata di proiettare la forza oltre i suoi confini”. Con riferimento all’opzione nucleare, “il programma nucleare dell’Iran e la sua intenzione di tenere aperta la possibilità di sviluppare armi nucleari sono una parte centrale della sua strategia di deterrenza”. Sebbene la minaccia iraniana non sia militare, ciò non vuol dire che possa essere tollerabile per Washington. La capacità di deterrenza iraniana è un illegittimo esercizio di sovranità che interferisce con i progetti globali dell’America. In modo specifico, minaccia il controllo da parte degli USA delle risorse energetiche del Medio Oriente, un’alta priorità dei programmatori sin dalla seconda guerra mondiale, che dà “un notevole controllo del mondo”, come ha affermato un’influente figura (A. A. Berle). Ma la minaccia dell’Iran va oltre la deterrenza. Cerca anche di ampliare la sua influenza. Come tale minaccia è stata formulata dall’Institute stesso, l’Iran starebbe “destabilizzando” la regione. L’invasione da parte degli USA e l’occupazione militare degli stati vicini all’Iran è “stabilizzazione”. Gli sforzi dell’Iran di ampliare la sua influenza nei paesi vicini è “destabilizzazione”, quindi del tutto illegittima. Si deve notare che un tale uso rivelatore è routine. Quindi il prominente analista di politica estera James Chase, ex editore del principale periodico dell’establishment Foreign Affairs, usava propriamente il termine “stabilità” in senso tecnico, quando ha spiegato che per raggiungere la “stabilità” in Cile era necessario “destabilizzare” il paese (rovesciando il governo eletto di Allende ed istallando la dittatura di Pinochet). Oltre questi crimini, l’Iran sostiene anche il terrorismo, continua lo studio: appoggiando Hezbollah ed Hamas, le maggiori forze politiche in Libano e in Palestina – se le elezioni contano qualcosa. La coalizione di Hezbollah ha facilmente vinto il voto popolare nelle ultime elezioni (2009) in Libano. Hamas ha vinto le elezioni del 2006 in Palestina, costringendo gli USA e Israele ad istituire il duro e brutale assedio di Gaza per punire gli scellerati per aver votato male in una libera elezione. Queste sono state le sole relativamente libere elezioni nel mondo arabo. È normale per l’opinione delle elite di temere la minaccia della democrazia e di agire per ostacolarla, ma questo è un caso piuttosto straordinario, particolarmente accanto al forte sostegno degli USA per le dittature regionali, particolarmente straordinario per la grande lode di Obama per il brutale dittatore egiziano Mubarak nel suo famoso discorso al mondo musulmano al Cairo. Gli atti terroristici attribuiti ad Hamas ed Hezbollah sono niente in confronto al terrorismo americano e israeliano nella stessa regione, ma vale la pena darvi comunque una scorsa. Il 25 maggio in Libano si è festeggiato il giorno di festa nazionale, il Giorno della Liberazione, che commemora la ritirata di Israele dal sud del Libano dopo 22 anni, come risultato della resistenza di Hezbollah – descritta dalle autorità israeliane come “aggressione iraniana” contro Israele nel Libano sotto occupazione di Israele (Ephraim Sneh). Anche questo è un normale uso imperialistico. Perciò il presidente John F. Kennedy ha condannato “l’assalto dall’interno, e che è manipolato dal nord”. L’assalto della resistenza sudvietnamita contro i bombardieri di Kennedy, la guerra chimica, la reclusione dei contadini in veri e propri campi di concentramento, ed altre simili misure benevole, è stato denunciato come un’ “aggressione interna” dall’ambasciatore delle Nazioni Unite di Kennedy, l’eroe liberale Adlai Stevenson. Il sostegno dei Nordvietnamiti per i propri compatrioti nel sud occupato dagli USA è un’aggressione, un’intollerabile interferenza con la legittima missione di Washington. Anche i consiglieri di Kennedy, Arthur Schlesinger e Theodore Sorenson, considerati come “colombe”, hanno lodato l’intervento di Washington per rovesciare l’“aggressione” nel sud del Vietnam – da parte della resistenza indigena, come sapevano, almeno se leggevano le relazioni dell’intelligence americana. Nel 1955 gli Stati Maggiori Riuniti americani hanno definito svariati tipi di “aggressione”, tra cui “l’aggressione non armata, ossia la guerra politica, o la sovversione”. Per esempio, una rivolta interna contro uno stato di polizia imposto dagli USA, oppure elezioni che abbiano un risultato sbagliato. Tale uso è comune anche tra gli studiosi e in ambito politico, e ha senso solo partendo dal presupposto prevalente che Noi Siamo i Padroni del Mondo. Hamas oppone resistenza all’occupazione militare di Israele e alle sue azioni illegali e violente nei territori occupati. È accusato di rifiutarsi di riconoscere Israele (i partiti politici non riconoscono gli stati). In contrasto, gli Stati Uniti ed Israele non solo non riconoscono la Palestina, ma hanno agito per decenni in modo tale da assicurare che non possa mai arrivare ad esistere in alcuna forma significativa; il partito al governo in Israele, nella sua piattaforma della campagna del 1999, vieta l’esistenza di qualsiasi stato palestinese. Hamas è accusato di aver attaccato con dei razzi gli insediamenti israeliani al confine, senza dubbio azioni criminali, ma [che sono] solo una minima parte della violenza perpetrata da Israele a Gaza, per non parlare di altrove. È importante tenere a mente, a questo proposito, che gli USA e Israele sanno esattamente come porre fine al terrore che deplorano con tanto ardore. Israele concede ufficialmente che non c’erano razzi di Hamas fintantoché Israele ha parzialmente rispettato una tregua con Hamas nel 2008. Israele ha rifiutato l’offerta di Hamas di rinnovare la tregua, preferendo lanciare la sanguinosa e distruttiva Operation Cast Lead contro Gaza del dicembre 2008, con il pieno appoggio degli USA, un’impresa di aggressione omicida senza il benché minimo pretesto credibile, né dal punto di vista legale, né da quello morale. Il modello di democrazia nel mondo musulmano, nonostante le gravi pecche, è la Turchia, che ha elezioni relativamente libere, e che è stata anche oggetto di dure critiche negli USA. Il caso più estremo è stato quando il governo ha seguito la posizione del 95% della popolazione rifiutandosi di unirsi all’invasione dell’Irak, suscitando dure condanne da Washington per non aver compreso come si deve comportare un governo democratico: secondo il nostro concetto di democrazia, è la voce del padrone che determina la politica, non la quasi unanime voce della popolazione. L’amministrazione Obama si è di nuovo infervorata quando la Turchia si è unita al Brasile nella stipula di un patto con l’Iran per limitare il suo arricchimento di uranio. Obama aveva lodato l’iniziativa in una lettera al presidente del Brasile Lula da Silva, apparentemente presupponendo che non avrebbe avuto successo e che avrebbe fornito uno strumento di propaganda contro l’Iran. Non sorprendentemente, la Turchia (accanto al Brasile) ha votato contro la mozione delle sanzioni USA nel Consiglio di Sicurezza. L’altro membro regionale, il Libano, si è astenuto. Queste azioni hanno suscitato ulteriore costernazione a Washington. Philip Gordon, il primo diplomatico per gli affari europei dell’amministrazione Obama, ha avvertito la Turchia che negli Stati Uniti le sue azioni non sono capite e che deve “dimostrare il suo impegno per l’appartenenza all’Occidente” ha riportato l’agenzia di informazione AP, “un raro ammonimento ad un cruciale alleato della NATO”. Anche la classe politica capisce. Steven A. Cook, uno studioso del Council on Foreign Relations, ha osservato che la questione critica, adesso, è “come teniamo i Turchi nella loro corsia?” – seguendo gli ordini come i buoni democratici. Un titolo di testa del New York Times ha catturato l’essenza dell’umore generale: “Patto con l’Iran visto come un’onta nell’eredità del leader brasiliano”. In poche parole, fai quello che diciamo. Non c’è indicazione che altri paesi nella regione siano in favore delle sanzioni americane più di quanto non lo sia la Turchia. Al confine opposto dell’Iran, ad esempio, il Pakistan e l’Iran, incontratisi in Turchia, hanno recentemente firmato un accordo per un nuovo oleodotto. Nessun individuo in retti sensi vuole che l’Iran sviluppi armi nucleari; né alcun altro [paese]. Un ovvio modo di mitigare o eliminare questa minaccia è di stabilire una zona libera da armi nucleari (NWFZ) in Medio Oriente. La questione è stata sollevata (di nuovo) in occasione della conferenza dell’NPT presso la sede delle Nazioni Unite all’inizio di maggio 2010. L’Egitto, come presidente delle 118 nazioni del Movimento dei Non-Allineati, ha proposto che la conferenza appoggiasse un programma che invitasse all’inizio delle negoziazioni nel 2011 per una zona libera da armi nucleari in Medio Oriente, come era stato concordato dall’Occidente, Stati Uniti compresi, alla conferenza di revisione sul Trattato di Non Proliferazione del 1995. Washington è ancora formalmente d’accordo, ma insiste che Israele sia esentato – e non ha dato alcun cenno di permettere che tali misure siano applicate a se stesso [Washington]. I tempi non sono ancora maturi per la creazione della zona, ha affermato il segretario di stato Hillary Clinton alla conferenza del NPT, mentre Washington ha insistito che non può essere accettata alcuna proposta che preveda che il programma nucleare israeliano venga posto sotto il patrocinio dell’IAEA [International Atomic Energy Agency], o che richieda ai firmatari del NPT, specificamente a Washington, di rivelare informazioni sugli “impianti e sulle attività nucleari di Israele, comprese le informazioni pertinenti ai precedenti trasferimenti nucleari a Israele”. La tecnica di evasione di Obama è di adottare la posizione di Israele, ossia che qualunque proposta del genere deve essere a condizione di un completo accordo di pace, che gli USA possono ritardare indefinitamente, come ha fatto per 35 anni, con rare e temporanee eccezioni. Al tempo stesso, Yukiya Amano, capo dell’International Atomic Energy Agency, l’ente internazionale per l’energia atomica, ha chiesto ai ministri degli affari esteri dei suoi 151 stati membri di esprimere le proprie vedute su come attuare una risoluzione che preveda che Israele “acceda” all’NPT e che apra le sue strutture nucleari alla supervisione dell’IAEA, ha riportato l’agenzia di informazione AP. Viene raramente notato che gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno una responsabilità speciale per lavorare alla creazione di una NWFZ in Medio Oriente. Nel cercare di fornire una debole copertura legale per la loro invasione dell’Irak nel 2003, hanno fatto appello alla risoluzione 687 (del 1991) del Consiglio di Sicurezza, che invitava l’Irak ad interrompere il suo sviluppo di armi di distruzione di massa. Gli USA e il Regno Unito hanno sostenuto di non averlo fatto. Non c’è bisogno di soffermarsi sulla scusa, ma tale risoluzione vincola i suoi firmatari ad agire per stabilire una zona libera da armi nucleari in Medio Oriente. Pareteticamente, potremmo aggiungere che l’insistenza degli Stati Uniti di mantenere gli impianti nucleari a Diego Garcia minaccia la zona (NWFZ) creata dall’Unione Africana, proprio come Washington continua a bloccare una zona NWFZ nel Pacifico escludendo i suoi territori del Pacifico. L’impegno retorico di Obama per la non proliferazione ha ricevuto molta lode, persino un premio Nobel per la pace. Una mossa pratica in questa direzione è la creazione di zone libere da armi nucleari. Un’altra è il ritiro del sostegno per i programmi nucleari dei tre non firmatari del trattato di non proliferazione. Come spesso succede, la retorica e le azioni sono a stento allineate, in effetti in questo caso sono in diretto contrasto, fatti che richiamano poca attenzione. Anziché intraprendere azioni pratiche per ridurre la davvero terribile minaccia della proliferazione delle armi atomiche, gli USA devono fare degli importanti passi per rafforzare il controllo dell’America sulle vitali regioni mediorientali che producono petrolio, anche con la violenza, se non ci riescono altrimenti. Tutto ciò è comprensibile e persino ragionevole, secondo la prevalente dottrina imperialista. di Noam Chomsky |
13 luglio 2010
La minaccia iraniana, o la minaccia americana?
13 luglio 2010
La minaccia iraniana, o la minaccia americana?
La programmazione di queste superbombe o “massive ordnance penetrators”, gli ordigni più potenti dell’arsenale dopo le armi nucleari, è iniziata durante l’amministrazione di Bush, ma si è affievolita. Quando Obama è entrato in carica ha immediatamente accelerato i programmi, e saranno impiegati svariati anni prima di quanto previsto, mirando specificamente all’Iran. “Si stanno preparando totalmente per la distruzione dell’Iran,” secondo Dan Plesch, direttore del Centre for International Studies and Diplomacy della University of London. “i bombardieri USA e i missili a lungo raggio sono pronti oggi a distruggere 10.000 bersagli in Iran in alcune ore,” ha detto. “La potenza di fuoco delle forze statunitensi è quadruplicata dal 2003,” accelerando sotto Obama. La stampa araba riporta che una flotta americana (con una nave israeliana) ha attraversato il Canale di Suez in direzione del Golfo Persico, dove il suo compito è di “implementare le sanzioni contro l’Iran e di controllare le navi in transito dall’Iran e per l’Iran”. I media britannici e israeliani riportano che l’Arabia Saudita starebbe fornendo un corridoio per il bombardamento dell’Iran da parte di Israele (cosa negata dall’Arabia Saudita). Al suo ritorno dall’Afghanistan per rassicurare gli alleati della NATO che gli USA manterranno il corso dopo la sostituzione del generale McChrystal dal suo superiore, il generale Petraeus, il presidente dei “Joint Chiefs of Staff” o Stati Maggiori Riuniti, ammiraglio Michael Mullen è andato in Israele per incontrare il capo di stato maggiore della difesa israeliana Gabi Ashkenazi, ed influenti militari israeliani, insieme alle unità di intelligence e programmazione, continuando lo strategico dialogo annuale tra Israele e gli USA a Tel Aviv. L’incontro verteva “sulla preparazione sia di Israele che degli USA per la possibilità di un Iran con capacità nucleare,” secondo Haaretz, che riporta inoltre che Mullen avrebbe enfatizzato che “[io] cerco sempre di vedere le sfide dal punto di vista israeliano”. Mullen e Ashkenazi si tengono in regolare contatto su una linea sicura. Le crescenti minacce di un’azione militare contro l’Iran violano certamente la Carta delle Nazioni Unite, e in modo specifico la risoluzione 1887 del settembre 2009 del Consiglio di Sicurezza, che ha riaffermato l’invito a tutti gli stati a risolvere pacificamente le dispute in merito a questioni sul nucleare, secondo lo Statuto, che proibisce l’uso, o la minaccia della forza. Alcuni rispettati analisti descrivono la minaccia iraniana in termini apocalittici. Amitai Etzioni avverte che “gli USA dovranno confrontarsi con l’Iran o rinunciare al Medio Oriente”, niente di meno. Se il programma nucleare dell’Iran procederà, afferma, la Turchia, l’Arabia Saudita ed altri stati si “muoveranno verso” il nuovo “superpotere” iraniano; con una retorica meno accesa, si potrebbe creare un’alleanza regionale indipendente dagli USA. Nel periodico dell’esercito americano Military Review, Etzioni promuove un attacco degli USA che prenda come bersaglio non solo gli impianti nucleari dell’Iran, ma anche i suoi complessi militari non nucleari, infrastruttura compresa – ossia, la società civile. “Questo tipo di azione militare è assimilabile alle sanzioni – nel provocare ‘dolore’ al fine di cambiare il comportamento, seppure con mezzi ben più potenti”. Messe da parte queste sconvolgenti dichiarazioni, qual è per l’esattezza la minaccia iraniana? Un’autorevole risposta si trova nello studio dell’aprile 2010 dell’International Institute of Strategic Studies, Military Balance 2010. Il brutale regime clericale è senza dubbio una minaccia per la sua stessa gente, ma in questo senso non lo è più di quello di altri alleati dell’America nella regione. Ma non è questo che preoccupa l’Institute. Che piuttosto si preoccupa per la minaccia che l’Iran costituisce per la regione e per il mondo. Lo studio mette in chiaro che la minaccia iraniana non è militare. La spesa militare dell’Iran è “relativamente bassa in confronto al resto della regione,” e meno del 2% di quella degli USA. La dottrina militare iraniana è strettamente “difensiva, … intesa a rallentare un’invasione e ad imporre una soluzione diplomatica alle ostilità”. L’Iran ha solo “una capacità limitata di proiettare la forza oltre i suoi confini”. Con riferimento all’opzione nucleare, “il programma nucleare dell’Iran e la sua intenzione di tenere aperta la possibilità di sviluppare armi nucleari sono una parte centrale della sua strategia di deterrenza”. Sebbene la minaccia iraniana non sia militare, ciò non vuol dire che possa essere tollerabile per Washington. La capacità di deterrenza iraniana è un illegittimo esercizio di sovranità che interferisce con i progetti globali dell’America. In modo specifico, minaccia il controllo da parte degli USA delle risorse energetiche del Medio Oriente, un’alta priorità dei programmatori sin dalla seconda guerra mondiale, che dà “un notevole controllo del mondo”, come ha affermato un’influente figura (A. A. Berle). Ma la minaccia dell’Iran va oltre la deterrenza. Cerca anche di ampliare la sua influenza. Come tale minaccia è stata formulata dall’Institute stesso, l’Iran starebbe “destabilizzando” la regione. L’invasione da parte degli USA e l’occupazione militare degli stati vicini all’Iran è “stabilizzazione”. Gli sforzi dell’Iran di ampliare la sua influenza nei paesi vicini è “destabilizzazione”, quindi del tutto illegittima. Si deve notare che un tale uso rivelatore è routine. Quindi il prominente analista di politica estera James Chase, ex editore del principale periodico dell’establishment Foreign Affairs, usava propriamente il termine “stabilità” in senso tecnico, quando ha spiegato che per raggiungere la “stabilità” in Cile era necessario “destabilizzare” il paese (rovesciando il governo eletto di Allende ed istallando la dittatura di Pinochet). Oltre questi crimini, l’Iran sostiene anche il terrorismo, continua lo studio: appoggiando Hezbollah ed Hamas, le maggiori forze politiche in Libano e in Palestina – se le elezioni contano qualcosa. La coalizione di Hezbollah ha facilmente vinto il voto popolare nelle ultime elezioni (2009) in Libano. Hamas ha vinto le elezioni del 2006 in Palestina, costringendo gli USA e Israele ad istituire il duro e brutale assedio di Gaza per punire gli scellerati per aver votato male in una libera elezione. Queste sono state le sole relativamente libere elezioni nel mondo arabo. È normale per l’opinione delle elite di temere la minaccia della democrazia e di agire per ostacolarla, ma questo è un caso piuttosto straordinario, particolarmente accanto al forte sostegno degli USA per le dittature regionali, particolarmente straordinario per la grande lode di Obama per il brutale dittatore egiziano Mubarak nel suo famoso discorso al mondo musulmano al Cairo. Gli atti terroristici attribuiti ad Hamas ed Hezbollah sono niente in confronto al terrorismo americano e israeliano nella stessa regione, ma vale la pena darvi comunque una scorsa. Il 25 maggio in Libano si è festeggiato il giorno di festa nazionale, il Giorno della Liberazione, che commemora la ritirata di Israele dal sud del Libano dopo 22 anni, come risultato della resistenza di Hezbollah – descritta dalle autorità israeliane come “aggressione iraniana” contro Israele nel Libano sotto occupazione di Israele (Ephraim Sneh). Anche questo è un normale uso imperialistico. Perciò il presidente John F. Kennedy ha condannato “l’assalto dall’interno, e che è manipolato dal nord”. L’assalto della resistenza sudvietnamita contro i bombardieri di Kennedy, la guerra chimica, la reclusione dei contadini in veri e propri campi di concentramento, ed altre simili misure benevole, è stato denunciato come un’ “aggressione interna” dall’ambasciatore delle Nazioni Unite di Kennedy, l’eroe liberale Adlai Stevenson. Il sostegno dei Nordvietnamiti per i propri compatrioti nel sud occupato dagli USA è un’aggressione, un’intollerabile interferenza con la legittima missione di Washington. Anche i consiglieri di Kennedy, Arthur Schlesinger e Theodore Sorenson, considerati come “colombe”, hanno lodato l’intervento di Washington per rovesciare l’“aggressione” nel sud del Vietnam – da parte della resistenza indigena, come sapevano, almeno se leggevano le relazioni dell’intelligence americana. Nel 1955 gli Stati Maggiori Riuniti americani hanno definito svariati tipi di “aggressione”, tra cui “l’aggressione non armata, ossia la guerra politica, o la sovversione”. Per esempio, una rivolta interna contro uno stato di polizia imposto dagli USA, oppure elezioni che abbiano un risultato sbagliato. Tale uso è comune anche tra gli studiosi e in ambito politico, e ha senso solo partendo dal presupposto prevalente che Noi Siamo i Padroni del Mondo. Hamas oppone resistenza all’occupazione militare di Israele e alle sue azioni illegali e violente nei territori occupati. È accusato di rifiutarsi di riconoscere Israele (i partiti politici non riconoscono gli stati). In contrasto, gli Stati Uniti ed Israele non solo non riconoscono la Palestina, ma hanno agito per decenni in modo tale da assicurare che non possa mai arrivare ad esistere in alcuna forma significativa; il partito al governo in Israele, nella sua piattaforma della campagna del 1999, vieta l’esistenza di qualsiasi stato palestinese. Hamas è accusato di aver attaccato con dei razzi gli insediamenti israeliani al confine, senza dubbio azioni criminali, ma [che sono] solo una minima parte della violenza perpetrata da Israele a Gaza, per non parlare di altrove. È importante tenere a mente, a questo proposito, che gli USA e Israele sanno esattamente come porre fine al terrore che deplorano con tanto ardore. Israele concede ufficialmente che non c’erano razzi di Hamas fintantoché Israele ha parzialmente rispettato una tregua con Hamas nel 2008. Israele ha rifiutato l’offerta di Hamas di rinnovare la tregua, preferendo lanciare la sanguinosa e distruttiva Operation Cast Lead contro Gaza del dicembre 2008, con il pieno appoggio degli USA, un’impresa di aggressione omicida senza il benché minimo pretesto credibile, né dal punto di vista legale, né da quello morale. Il modello di democrazia nel mondo musulmano, nonostante le gravi pecche, è la Turchia, che ha elezioni relativamente libere, e che è stata anche oggetto di dure critiche negli USA. Il caso più estremo è stato quando il governo ha seguito la posizione del 95% della popolazione rifiutandosi di unirsi all’invasione dell’Irak, suscitando dure condanne da Washington per non aver compreso come si deve comportare un governo democratico: secondo il nostro concetto di democrazia, è la voce del padrone che determina la politica, non la quasi unanime voce della popolazione. L’amministrazione Obama si è di nuovo infervorata quando la Turchia si è unita al Brasile nella stipula di un patto con l’Iran per limitare il suo arricchimento di uranio. Obama aveva lodato l’iniziativa in una lettera al presidente del Brasile Lula da Silva, apparentemente presupponendo che non avrebbe avuto successo e che avrebbe fornito uno strumento di propaganda contro l’Iran. Non sorprendentemente, la Turchia (accanto al Brasile) ha votato contro la mozione delle sanzioni USA nel Consiglio di Sicurezza. L’altro membro regionale, il Libano, si è astenuto. Queste azioni hanno suscitato ulteriore costernazione a Washington. Philip Gordon, il primo diplomatico per gli affari europei dell’amministrazione Obama, ha avvertito la Turchia che negli Stati Uniti le sue azioni non sono capite e che deve “dimostrare il suo impegno per l’appartenenza all’Occidente” ha riportato l’agenzia di informazione AP, “un raro ammonimento ad un cruciale alleato della NATO”. Anche la classe politica capisce. Steven A. Cook, uno studioso del Council on Foreign Relations, ha osservato che la questione critica, adesso, è “come teniamo i Turchi nella loro corsia?” – seguendo gli ordini come i buoni democratici. Un titolo di testa del New York Times ha catturato l’essenza dell’umore generale: “Patto con l’Iran visto come un’onta nell’eredità del leader brasiliano”. In poche parole, fai quello che diciamo. Non c’è indicazione che altri paesi nella regione siano in favore delle sanzioni americane più di quanto non lo sia la Turchia. Al confine opposto dell’Iran, ad esempio, il Pakistan e l’Iran, incontratisi in Turchia, hanno recentemente firmato un accordo per un nuovo oleodotto. Nessun individuo in retti sensi vuole che l’Iran sviluppi armi nucleari; né alcun altro [paese]. Un ovvio modo di mitigare o eliminare questa minaccia è di stabilire una zona libera da armi nucleari (NWFZ) in Medio Oriente. La questione è stata sollevata (di nuovo) in occasione della conferenza dell’NPT presso la sede delle Nazioni Unite all’inizio di maggio 2010. L’Egitto, come presidente delle 118 nazioni del Movimento dei Non-Allineati, ha proposto che la conferenza appoggiasse un programma che invitasse all’inizio delle negoziazioni nel 2011 per una zona libera da armi nucleari in Medio Oriente, come era stato concordato dall’Occidente, Stati Uniti compresi, alla conferenza di revisione sul Trattato di Non Proliferazione del 1995. Washington è ancora formalmente d’accordo, ma insiste che Israele sia esentato – e non ha dato alcun cenno di permettere che tali misure siano applicate a se stesso [Washington]. I tempi non sono ancora maturi per la creazione della zona, ha affermato il segretario di stato Hillary Clinton alla conferenza del NPT, mentre Washington ha insistito che non può essere accettata alcuna proposta che preveda che il programma nucleare israeliano venga posto sotto il patrocinio dell’IAEA [International Atomic Energy Agency], o che richieda ai firmatari del NPT, specificamente a Washington, di rivelare informazioni sugli “impianti e sulle attività nucleari di Israele, comprese le informazioni pertinenti ai precedenti trasferimenti nucleari a Israele”. La tecnica di evasione di Obama è di adottare la posizione di Israele, ossia che qualunque proposta del genere deve essere a condizione di un completo accordo di pace, che gli USA possono ritardare indefinitamente, come ha fatto per 35 anni, con rare e temporanee eccezioni. Al tempo stesso, Yukiya Amano, capo dell’International Atomic Energy Agency, l’ente internazionale per l’energia atomica, ha chiesto ai ministri degli affari esteri dei suoi 151 stati membri di esprimere le proprie vedute su come attuare una risoluzione che preveda che Israele “acceda” all’NPT e che apra le sue strutture nucleari alla supervisione dell’IAEA, ha riportato l’agenzia di informazione AP. Viene raramente notato che gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno una responsabilità speciale per lavorare alla creazione di una NWFZ in Medio Oriente. Nel cercare di fornire una debole copertura legale per la loro invasione dell’Irak nel 2003, hanno fatto appello alla risoluzione 687 (del 1991) del Consiglio di Sicurezza, che invitava l’Irak ad interrompere il suo sviluppo di armi di distruzione di massa. Gli USA e il Regno Unito hanno sostenuto di non averlo fatto. Non c’è bisogno di soffermarsi sulla scusa, ma tale risoluzione vincola i suoi firmatari ad agire per stabilire una zona libera da armi nucleari in Medio Oriente. Pareteticamente, potremmo aggiungere che l’insistenza degli Stati Uniti di mantenere gli impianti nucleari a Diego Garcia minaccia la zona (NWFZ) creata dall’Unione Africana, proprio come Washington continua a bloccare una zona NWFZ nel Pacifico escludendo i suoi territori del Pacifico. L’impegno retorico di Obama per la non proliferazione ha ricevuto molta lode, persino un premio Nobel per la pace. Una mossa pratica in questa direzione è la creazione di zone libere da armi nucleari. Un’altra è il ritiro del sostegno per i programmi nucleari dei tre non firmatari del trattato di non proliferazione. Come spesso succede, la retorica e le azioni sono a stento allineate, in effetti in questo caso sono in diretto contrasto, fatti che richiamano poca attenzione. Anziché intraprendere azioni pratiche per ridurre la davvero terribile minaccia della proliferazione delle armi atomiche, gli USA devono fare degli importanti passi per rafforzare il controllo dell’America sulle vitali regioni mediorientali che producono petrolio, anche con la violenza, se non ci riescono altrimenti. Tutto ciò è comprensibile e persino ragionevole, secondo la prevalente dottrina imperialista. di Noam Chomsky |
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