Alle 18 e 30 di lunedì scorso, un anonimo taxi ha scaricato un ricercatore iraniano di fronte all’ambasciata pakistana a Washington, presso cui si trova la sede diplomatica di Teheran che cura gli interessi della Repubblica Islamica negli Stati Uniti. Scienziato nucleare con un ruolo non del tutto chiaro in patria, il 32enne Shahram Amiri era improvvisamente sparito nella primavera del 2009 durante una “umra” (pellegrinaggio) a Medina, in Arabia Saudita, sollevando immediatamente più di un sospetto circa il coinvolgimento della CIA nella sua scomparsa.
La sparizione di Shahram Amiri dalla sua camera d’albero saudita, il 3 giugno dello scorso anno, aveva aperto un nuovo capitolo nel confronto tra Stati Uniti e Iran. Secondo il governo di Teheran, l’operazione andava attribuita alla principale agenzia d’intelligence a stelle e strisce, orchestrata per mettere le mani su una fonte di informazioni ritenuta preziosa in merito al programma nucleare iraniano. Per Washington, al contrario, Amiri aveva defezionato di sua spontanea volontà e, ugualmente senza pressioni, aveva deciso di raccontare quanto aveva avuto modo di conoscere grazie al suo impiego in Iran.
Subito dopo il probabile rapimento, l’Iran aveva manifestato il proprio disappunto per il comportamento americano, chiedendo addirittura al Segretario Generale delle Nazioni Unite di adoperarsi per la restituzione del ricercatore. Ammettendo un qualche ruolo nei fatti, la CIA da parte sua aveva confermato il trasferimento immediato di Amiri dall’Arabia Saudita agli Stati Uniti. Qui, secondo Teheran, quest’ultimo era stato imprigionato e torturato al fine di estorcergli informazioni segrete.
Comunque si siano svolti i fatti, a un certo punto la CIA ha inserito Amiri in un programma di protezione per fuoriusciti, facendolo risiedere a Tucson, in Arizona. Secondo la ricostruzione americana, nei primi mesi del 2010 la volontà di collaborazione dello scienziato iraniano avrebbe mostrato qualche segno di cedimento, dal momento che iniziavano a farsi strada serie preoccupazioni per possibili ritorsioni da parte delle autorità di Teheran ai danni della moglie e del figlio rimasti in patria.
Ad infittire il mistero creatosi attorno alla sorte dello scienziato, svanito nel nulla sul territorio del principale alleato americano nel mondo arabo, era stata poi la comparsa in rete di una serie di filmati contraddittori. Nel primo, risalente al 5 aprile scorso, un Amiri provato descriveva in lingua persiana le fasi del suo rapimento. L’operazione, a suo dire, era stata organizzata dalla CIA e dai servizi segreti sauditi. Dopo un’iniezione di una sostanza imprecisata somministratagli dai rapitori, Amiri si era addormentato e, al risveglio, si era reso conto di essere in volo verso gli USA.
Solo poche ore dopo il primo video, su YouTube ne sarebbe apparso un secondo, realizzato in maniera decisamente più professionale, tanto da far pensare al contributo della stessa CIA. Scrupolosamente curato nell’aspetto, Amiri parlava all’interno di una stanza ben illuminata, verosimilmente una biblioteca, con un mappamondo e una scacchiera sullo sfondo. In questo filmato negava di essere stato rapito, affermando invece di essere giunto spontaneamente negli Stati Uniti per frequentare un dottorato di ricerca e, una volta ultimato, tornare dalla sua famiglia in Iran.
Rassicurando circa il suo ottimo stato di salute, Amiri definiva come falsi i filmati diffusi in precedenza su di lui e negava di avere alcun interesse nella politica o di possedere esperienza in ambito di armamenti nucleari. Successivamente, venne caricato un terzo e ultimo video il cui contenuto appariva simile a quello del primo.
Se per gli iraniani il primo e il terzo filmato erano la prova del rapimento di Amiri, per l’intelligence americana erano dettati unicamente dai suoi timori per la famiglia, tanto che alla fine sarebbe arrivata appunto la richiesta di tornare in Iran. Giunto all’ambasciata del Pakistan negli USA, Amiri ha dichiarato alla televisione pubblica iraniana di essere stato sottoposto a “enormi pressioni psicologiche sotto la supervisione di agenti armati durante gli ultimi 14 mesi” ed ha aggiunto che il suo “rapimento è stato un atto inammissibile da parte degli americani”.
A negare ogni atto illecito ci ha provato il Segretario di Stato in persona, Hillary Clinton, ribadendo che lo scienziato iraniano era giunto di sua spontanea volontà nel paese e che era libero di andarsene in qualsiasi momento, come poi ha fatto. I media iraniani, al contrario, sostengono che le autorità americane hanno deciso di rilasciare Amiri dopo aver preso atto del “fallimento del loro piano propagandistico per screditare il programma nucleare iraniano”, creando artificialmente interviste con un cittadino della Repubblica Islamica.
Se dietro alla vicenda di Amiri rimangono molte zone oscure, è possibile che i servizi americani nelle ultime settimane abbiano iniziato a sentire qualche pressione che ha portato infine il presunto esule a “riparare” presso la rappresentanza diplomatica pakistana. Le accuse da parte di Teheran stavano infatti aumentando e, ai primi di luglio, il Ministero degli Esteri iraniano aveva convocato l’incaricato d’affari dell’ambasciata svizzera, che cura gli interessi americani in Iran, presentandogli una serie di documenti che avrebbero provato le responsabilità della CIA nel rapimento.
Il giorno successivo all’apparizione di Amiri a Washington, inoltre, il network satellitare iraniano Press TV aveva diffuso un comunicato dei servizi segreti di Teheran, nel quale si spiegava come al ricercatore erano stati promessi dieci milioni di dollari per apparire sulla CNN e annunciare la sua intenzione di defezionare negli Stati Uniti. La pratica del rapimento di personalità in grado di fornire notizie classificate sul nucleare iraniano da parte della CIA, oltretutto, non è nuova. All’inizio del 2007, ad esempio, l’ex vice-ministro della Difesa Ali-Reza Asgari venne con ogni probabilità rapito da un’azione congiunta di CIA e Mossad durante un viaggio a Istanbul, in Turchia.
A far scemare l’interesse per Shahram Amiri dei servizi statunitensi, e a decretare il loro sostanziale fallimento nell’intera operazione, c’è poi la sua probabile scarsa conoscenza dei supposti “segreti” nucleari dell’Iran. Ricercatore presso l’Università Malek Ashtar di Teheran, secondo alcuni collegata al Ministero della Difesa e al Corpo dei Guardiani della Rivoluzione, Amiri non avrebbe l’esperienza necessaria per entrare in contatto con i leader del programma nucleare e quindi non ne conoscerebbe sufficientemente le eventuali implicazioni.
Qualche indicazione in più sull’esilio volontario o forzato di Amiri negli Stati Uniti la si avrà forse dopo il suo arrivo in Iran, da dove mancava da oltre tredici mesi. Quel che è certo è che le polemiche attorno alla sua vicenda continueranno ad alimentare la guerra fredda in corso da tre decenni tra i due paesi nemici.
di Michele Paris
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