06 settembre 2008

Costi pubblici, profitti privati

Adesso sappiamo cosa il governo intenda per “economia sociale di mercato”.

Non ci sarà bisogno di aspettare il verdetto della commissione di studi annunciata da Tremonti per discutere l’attualità del messaggio della scuola di Friburgo. Economia sociale di mercato nell’accezione dell’esecutivo consiste in un metodo scientifico per socializzare le perdite e privatizzare i profitti.

Questo principio è stato seguito meticolosamente nella gestione della crisi Alitalia.
Come spiegato ieri con dovizia di particolari da Eugenio Scalfari e sul CorSera da Francesco Giavazzi, il piano predisposto per il “salvataggio” di Alitalia intende trasferire sui contribuenti italiani i debiti della compagnia.

Non sappiamo ancora...

se Bruxelles permetterà questa operazione. E’ molto probabile che così non sia anche perché il piano viola la condizione posta dalla Commissione europea nell’autorizzare quel prestito ponte che ha permesso ad Alitalia di dilapidare in pochi mesi altri 300 milioni di euro, provenienti dalle casse dello Stato.

Il governo italiano non avrebbe dovuto permettere alcuna espansione della compagnia, mentre il piano predisposto da Banca Intesa prevede l’incorporazione di Air One. Rimangono comunque le intenzioni. Il piano prevede che la “good company”, scorporata dalla “bad company” venga consegnata alla cordata italiana, libera di debiti e di esuberi. Questo ci porta al secondo terreno di socializzazione dei costi, quello forse più pesante.

Il piano prevede tra i 5.000 e i 6.000 esuberi. Sono circa il triplo di quelli prospettati cinque mesi fa da Air France-Klm. Oltre a perdere quella grande occasione, il governo non ha fatto nulla in questi mesi per riformare gli ammortizzatori sociali, pensando anche più in là della crisi Alitalia, con una recessione alle porte con la disoccupazione che è tornata ad aumentare.

Agli annunci di voler rivoluzionare il nostro mercato del lavoro, muovendosi nel tracciato della flexicurity è seguito solo il blitz estivo che ha impedito l’assunzione alle Poste dei lavoratori con contratto a tempo determinato che avevano fatto ricorso per violazione delle condizioni contrattuali. In quel caso si è cambiata la legge prima che i ricorsi andassero a buon fine imponendo all’azienda l’assunzione a tempo indeterminato di molti lavoratori. Si è voluto applicare al mercato del lavoro lo stesso metodo applicato dal nostro presidente del Consiglio nell’affrontare i suoi problemi con la giustizia: intervenire su processi in corso. L’irruenza (al limite dell’incostituzionalità) di quel provvedimento era stata allora giustificata dalla necessità di ridurre il personale delle Poste.

Ora abbiamo però saputo che le Poste dovranno assorbire gli ex-dipendenti Alitalia. Simile destino dovrebbe essere riservato ad altre aziende a controllo pubblico o nella stessa amministrazione pubblica verso cui il personale in eccesso della compagnia di bandiera verrà ricollocato, meglio “dirottato”, nel nome del recupero di efficienza nella gestione del personale. E' molto probabile poi che verranno, una volta di più, definiti con leggi ad hoc ammortizzatori sociali più generosi di quelli riservati ai comuni mortali per affrontare la crisi Alitalia, ovviamente a carico del contribuente.

Che il governo non si faccia problemi a ricorrere a leggi ad hoc in questo caso lo sappiamo già: intende infatti cambiare le procedure previste dalla legge Marzano per l’amministrazione straordinaria, permettendo la separazione fra la “bad” e la “good” company.

Il terzo terreno su cui si procederà a socializzare i costi è quello riservato ai consumatori-viaggiatori italiani, condannati a pagare di più per salire sull’unica compagnia (è questo il significato di bandiera?) con cui sarà loro permesso di viaggiare. Speriamo solo che venga loro risparmiato il messaggio “grazie per avere scelto di viaggiare con noi” oggi riservato a chi si serve di Trenitalia.

Come spiegato da Andrea Boitani e Carlo Scarpa su lavoce.info, il piano di Banca Intesa contempla l’applicazione dell’articolo 25 della legge 287/90 che prevede in caso di “rilevanti interessi generali dell’economia nazionale” operazioni di concentrazione (leggi il monopolio della ricca tratta Fiumicino-Linate, la terza in Europa per volumi di traffico) che violino la normativa antitrust.

Non sappiamo se anche il testo della legge verrà cambiato. Dovrebbe appellarsi agli “interessi generali della cordata”, anziché anche a quelli dell’economia nazionale, dato che l’intento dei “salvatori” è proprio quello di rivendere Alitalia ad Air France o altra compagnia europea, possibilmente realizzando dei profitti. Se mai ci saranno questi profitti saranno rigorosamente privati, nel senso anche di escludere gli azionisti di Alitalia.

Non è la prima volta che per affrontare crisi aziendali si ricorre alla separazione di quelle attività che sono ancora economicamente vantaggiose dalle attività che sono cronicamente in perdita. Ma i proventi derivanti dalla vendita della “good company” servono in casi simili a coprire i debiti della “bad company”, riducendo gli oneri per lo Stato e gli azionisti. In questo caso la good company verrà regalata a un gruppo di imprenditori che si occuperanno di trovare il migliore acquirente.

E questo l’unico mercato che viene concesso. Solo a loro.

di Tito Boeri

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06 settembre 2008

Costi pubblici, profitti privati

Adesso sappiamo cosa il governo intenda per “economia sociale di mercato”.

Non ci sarà bisogno di aspettare il verdetto della commissione di studi annunciata da Tremonti per discutere l’attualità del messaggio della scuola di Friburgo. Economia sociale di mercato nell’accezione dell’esecutivo consiste in un metodo scientifico per socializzare le perdite e privatizzare i profitti.

Questo principio è stato seguito meticolosamente nella gestione della crisi Alitalia.
Come spiegato ieri con dovizia di particolari da Eugenio Scalfari e sul CorSera da Francesco Giavazzi, il piano predisposto per il “salvataggio” di Alitalia intende trasferire sui contribuenti italiani i debiti della compagnia.

Non sappiamo ancora...

se Bruxelles permetterà questa operazione. E’ molto probabile che così non sia anche perché il piano viola la condizione posta dalla Commissione europea nell’autorizzare quel prestito ponte che ha permesso ad Alitalia di dilapidare in pochi mesi altri 300 milioni di euro, provenienti dalle casse dello Stato.

Il governo italiano non avrebbe dovuto permettere alcuna espansione della compagnia, mentre il piano predisposto da Banca Intesa prevede l’incorporazione di Air One. Rimangono comunque le intenzioni. Il piano prevede che la “good company”, scorporata dalla “bad company” venga consegnata alla cordata italiana, libera di debiti e di esuberi. Questo ci porta al secondo terreno di socializzazione dei costi, quello forse più pesante.

Il piano prevede tra i 5.000 e i 6.000 esuberi. Sono circa il triplo di quelli prospettati cinque mesi fa da Air France-Klm. Oltre a perdere quella grande occasione, il governo non ha fatto nulla in questi mesi per riformare gli ammortizzatori sociali, pensando anche più in là della crisi Alitalia, con una recessione alle porte con la disoccupazione che è tornata ad aumentare.

Agli annunci di voler rivoluzionare il nostro mercato del lavoro, muovendosi nel tracciato della flexicurity è seguito solo il blitz estivo che ha impedito l’assunzione alle Poste dei lavoratori con contratto a tempo determinato che avevano fatto ricorso per violazione delle condizioni contrattuali. In quel caso si è cambiata la legge prima che i ricorsi andassero a buon fine imponendo all’azienda l’assunzione a tempo indeterminato di molti lavoratori. Si è voluto applicare al mercato del lavoro lo stesso metodo applicato dal nostro presidente del Consiglio nell’affrontare i suoi problemi con la giustizia: intervenire su processi in corso. L’irruenza (al limite dell’incostituzionalità) di quel provvedimento era stata allora giustificata dalla necessità di ridurre il personale delle Poste.

Ora abbiamo però saputo che le Poste dovranno assorbire gli ex-dipendenti Alitalia. Simile destino dovrebbe essere riservato ad altre aziende a controllo pubblico o nella stessa amministrazione pubblica verso cui il personale in eccesso della compagnia di bandiera verrà ricollocato, meglio “dirottato”, nel nome del recupero di efficienza nella gestione del personale. E' molto probabile poi che verranno, una volta di più, definiti con leggi ad hoc ammortizzatori sociali più generosi di quelli riservati ai comuni mortali per affrontare la crisi Alitalia, ovviamente a carico del contribuente.

Che il governo non si faccia problemi a ricorrere a leggi ad hoc in questo caso lo sappiamo già: intende infatti cambiare le procedure previste dalla legge Marzano per l’amministrazione straordinaria, permettendo la separazione fra la “bad” e la “good” company.

Il terzo terreno su cui si procederà a socializzare i costi è quello riservato ai consumatori-viaggiatori italiani, condannati a pagare di più per salire sull’unica compagnia (è questo il significato di bandiera?) con cui sarà loro permesso di viaggiare. Speriamo solo che venga loro risparmiato il messaggio “grazie per avere scelto di viaggiare con noi” oggi riservato a chi si serve di Trenitalia.

Come spiegato da Andrea Boitani e Carlo Scarpa su lavoce.info, il piano di Banca Intesa contempla l’applicazione dell’articolo 25 della legge 287/90 che prevede in caso di “rilevanti interessi generali dell’economia nazionale” operazioni di concentrazione (leggi il monopolio della ricca tratta Fiumicino-Linate, la terza in Europa per volumi di traffico) che violino la normativa antitrust.

Non sappiamo se anche il testo della legge verrà cambiato. Dovrebbe appellarsi agli “interessi generali della cordata”, anziché anche a quelli dell’economia nazionale, dato che l’intento dei “salvatori” è proprio quello di rivendere Alitalia ad Air France o altra compagnia europea, possibilmente realizzando dei profitti. Se mai ci saranno questi profitti saranno rigorosamente privati, nel senso anche di escludere gli azionisti di Alitalia.

Non è la prima volta che per affrontare crisi aziendali si ricorre alla separazione di quelle attività che sono ancora economicamente vantaggiose dalle attività che sono cronicamente in perdita. Ma i proventi derivanti dalla vendita della “good company” servono in casi simili a coprire i debiti della “bad company”, riducendo gli oneri per lo Stato e gli azionisti. In questo caso la good company verrà regalata a un gruppo di imprenditori che si occuperanno di trovare il migliore acquirente.

E questo l’unico mercato che viene concesso. Solo a loro.

di Tito Boeri

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