14 settembre 2008
È l’utopia della pace che genera violenza
La violenza è attuale più che mai: tafferugli, auto in fiamme, crescita della delinquenza, minacce terroristiche, ma anche di guerra, e uso della forza di Stato.
Max Weber ha dimostrato che la violenza - lungi dall’essere «fenomeno arcaico», anacronistico retaggio di barbarie - è la preminente manifestazione dell’antagonismo fra libertà e necessità. Georg Simmel l’ha definita elemento strutturale del fatto sociale. Georges Sorel non esita ad opporla alla forza dell’ordine costituito. Julien Freund la definisce il mezzo d’eccezione del politico. Michel Maffesoli scrive che «la sua stessa pluralità è indice privilegiato del politeismo dei valori», infatti è un’«espressione parossistica del desiderio di comunione». René Girard, secondo cui ogni società nasce da una violenza fondatrice, vede in essa parte di «una sacralità degradata». La violenza è insieme dissidenza, parossismo e duplicità; sul piano sociale s’inscrive in un doppio movimento di distruzione e fondazione.
OVUNQUE E DA NESSUNA PARTE
Al limite, si può estendere il campo della violenza fino a vederne ovunque, anche nell’obbligo imposto dalle leggi, dalle istituzioni e dalle strutture sociali, perché lo Stato nasce da un rapporto di forze. Ma se è ovunque, la violenza non è più in nessun posto. In senso stretto, è oggettivabile solo la violenza fisica, frutto dell’illecito uso materiale della forza. Molte dottrine chiamano violenza solo la forza illegittima. Sotto la copertura d’una formale neutralità, lo Stato stesso s’è arrogato il monopolio della violenza, ma senza riuscirci mai, infatti la legalità che esso incarna non sempre è legittima. Dove comincia allora la legittimità del ricorso alla forza, se la legittimità non si confonde con la semplice legalità? Principio organizzatore della società, la violenza può anche essere un modo per restaurare la città. Oggi l’aumentata settorializzazione della violenza («violenza sociale», «violenza scolastica», «donne picchiate», ecc.) s’unisce all’infantolatria (colpisce che l’infanticidio abbia sostituito il parricidio come il peggiore dei crimini), all’ideologia vittimista (le vittime hanno rimpiazzato gli eroi come modelli, dunque per farsi ammirare occorre prima farsi compatire) nel suggerire un’ubiquità della violenza.
PIÙ DI IERI, MENO DI DOMANI
Città incluse, la violenza propriamente criminale è in realtà minore di una volta, almeno in Francia, ma la violenza dei giovani è certo aumentata. Essa s’accompagna a una spettacolarizzazione sempre più invadente. Il film Rambo 4 offre 236 morti in 93 minuti. Cyberdipendenza e videogiochi amplificano il fenomeno. La morte è banalizzata, ma son sempre meno quelli che hanno visto un vero cadavere. Il paradosso è che l’onnipresenza della violenza procede di pari passo con la non meno evidente accentuazione della sensibilità: fra la gente comune la soglia di tolleranza per la violenza reale continua a calare. Il vero problema della violenza comincia quando essa perde lo statuto di ultima ratio, per proliferare con virulenza e costituire un modo d’esistere. In parte è quanto accade ora.
La violenza è l’eccezione del politico, ma l’organizzazione del politico della società esige che la violenza sia regolata. Ma anche qui torna l’ambivalenza. La violenza va contenuta perché destruttura la vita sociale, ma è sempre la violenza che permette, a chi si compiace di combatterla, di giustificare la soppressione delle dissidenze e il presidio generalizzato della socialità. Quotidianamente oggi l’ansia di sicurezza può esser invocata per imbrigliare le libertà. La violenza fa paura, giustamente, ma anche questa paura può esser strumentalizzata. Essa permette all’autorità di legittimarsi come istanza di «protezione» e quindi agevola il controllo sociale.
ATTACCO PREVENTIVO
Metafora delle tensioni sociali, la città è al centro delle paure contemporanee. La politicizzazione delle paure urbane spinge i poteri pubblici ad alimentare deliberatamente le inquietudini - non a rafforzare le solidarietà sociali - e a punire dissidenti e individui presunti «pericolosi» come dei colpevoli. La sacralizzazione della legge serve allora solo a premunirsi da una contestazione violenta del disordine costituito. L’anarchica proliferazione di violenze di ogni genere fa poi dimenticare che, su altri piani, il conflitto tende a sparire. I grandi conflitti sociali del secolo scorso si sono per lo più placati, a cominciare dalla lotta di classe, dimenticata a vantaggio di un chimerico «scontro di civiltà». Dal compromesso fordista, i sindacati si sono adeguati all’idea di una società senza un preminente antagonismo, proprio come i partiti contestatori di sinistra si sono adeguati alla logica consensuale del mercato. Anche lo Stato s’orienta alla ricerca sistematica di «compromessi negoziati». Desindacalizzazione, cedimento del pensiero critico, «dialogo sociale» e negoziato degli interessi: in molti campi il consenso ha sostituito il conflitto. Pierre Rosanvallon non ha torto quando dice che, socialmente parlando, viviamo in un mondo senza una forte conflittualità strutturante.
GUERRA ALLA GUERRA
A livello internazionale, è ancora un’altra cosa. L’idea dominante è d’eliminare la guerra e sopprimere il conflitto. Ma la guerra contro la guerra prevale, è sempre più violenta di tutte le altre, né la cultura del rifiuto del nemico impedisce al nemico di apparire. Ben diverso dal desiderio di pace (l’obiettivo naturale della guerra è la pace), il pacifismo è intrinsecamente polemogeno. Fondamentalmente la guerra non ha cambiato natura, ma i mezzi ai quali ricorrono i belligeranti son sempre più massicciamente distruttivi. Chi crede di liberarci dalla violenza è imbattibile nel giustificarla e nello scatenarla!
La violenza è stata spesso messa al servizio dell’utopismo, ma anche la volontà di eliminare la violenza deriva dall’utopia. La società non potrà circoscrivere o canalizzare la violenza, pretendendo d’imporre la «pace universale» e sopprimere i fattori conflittuali. Il conflitto nasce da aggressività naturale, diversità umana e impossibilità di conciliare sempre progetti originati da valori divergenti. Non tutti i conflitti implicano violenza, però ne celano la possibilità. L’intolleranza a priori nei suoi riguardi rimanda meno al gusto per i rapporti civili e più alla paura del rischio, alla rassegnazione e all’inerzia. È fin troppo certo che rimozione del conflitto e rifiuto dell’idea stessa di lotta conducano alla violenza generalizzata: voler rimpiazzare a ogni costo il conflitto col consenso è votarsi a far scatenare la violenza estrema. Se oggi c’è troppa violenza, forse è perché difetta il conflitto creatore.
(Traduzione di Maurizio Cabona)
di Alain de Benoist
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14 settembre 2008
È l’utopia della pace che genera violenza
La violenza è attuale più che mai: tafferugli, auto in fiamme, crescita della delinquenza, minacce terroristiche, ma anche di guerra, e uso della forza di Stato.
Max Weber ha dimostrato che la violenza - lungi dall’essere «fenomeno arcaico», anacronistico retaggio di barbarie - è la preminente manifestazione dell’antagonismo fra libertà e necessità. Georg Simmel l’ha definita elemento strutturale del fatto sociale. Georges Sorel non esita ad opporla alla forza dell’ordine costituito. Julien Freund la definisce il mezzo d’eccezione del politico. Michel Maffesoli scrive che «la sua stessa pluralità è indice privilegiato del politeismo dei valori», infatti è un’«espressione parossistica del desiderio di comunione». René Girard, secondo cui ogni società nasce da una violenza fondatrice, vede in essa parte di «una sacralità degradata». La violenza è insieme dissidenza, parossismo e duplicità; sul piano sociale s’inscrive in un doppio movimento di distruzione e fondazione.
OVUNQUE E DA NESSUNA PARTE
Al limite, si può estendere il campo della violenza fino a vederne ovunque, anche nell’obbligo imposto dalle leggi, dalle istituzioni e dalle strutture sociali, perché lo Stato nasce da un rapporto di forze. Ma se è ovunque, la violenza non è più in nessun posto. In senso stretto, è oggettivabile solo la violenza fisica, frutto dell’illecito uso materiale della forza. Molte dottrine chiamano violenza solo la forza illegittima. Sotto la copertura d’una formale neutralità, lo Stato stesso s’è arrogato il monopolio della violenza, ma senza riuscirci mai, infatti la legalità che esso incarna non sempre è legittima. Dove comincia allora la legittimità del ricorso alla forza, se la legittimità non si confonde con la semplice legalità? Principio organizzatore della società, la violenza può anche essere un modo per restaurare la città. Oggi l’aumentata settorializzazione della violenza («violenza sociale», «violenza scolastica», «donne picchiate», ecc.) s’unisce all’infantolatria (colpisce che l’infanticidio abbia sostituito il parricidio come il peggiore dei crimini), all’ideologia vittimista (le vittime hanno rimpiazzato gli eroi come modelli, dunque per farsi ammirare occorre prima farsi compatire) nel suggerire un’ubiquità della violenza.
PIÙ DI IERI, MENO DI DOMANI
Città incluse, la violenza propriamente criminale è in realtà minore di una volta, almeno in Francia, ma la violenza dei giovani è certo aumentata. Essa s’accompagna a una spettacolarizzazione sempre più invadente. Il film Rambo 4 offre 236 morti in 93 minuti. Cyberdipendenza e videogiochi amplificano il fenomeno. La morte è banalizzata, ma son sempre meno quelli che hanno visto un vero cadavere. Il paradosso è che l’onnipresenza della violenza procede di pari passo con la non meno evidente accentuazione della sensibilità: fra la gente comune la soglia di tolleranza per la violenza reale continua a calare. Il vero problema della violenza comincia quando essa perde lo statuto di ultima ratio, per proliferare con virulenza e costituire un modo d’esistere. In parte è quanto accade ora.
La violenza è l’eccezione del politico, ma l’organizzazione del politico della società esige che la violenza sia regolata. Ma anche qui torna l’ambivalenza. La violenza va contenuta perché destruttura la vita sociale, ma è sempre la violenza che permette, a chi si compiace di combatterla, di giustificare la soppressione delle dissidenze e il presidio generalizzato della socialità. Quotidianamente oggi l’ansia di sicurezza può esser invocata per imbrigliare le libertà. La violenza fa paura, giustamente, ma anche questa paura può esser strumentalizzata. Essa permette all’autorità di legittimarsi come istanza di «protezione» e quindi agevola il controllo sociale.
ATTACCO PREVENTIVO
Metafora delle tensioni sociali, la città è al centro delle paure contemporanee. La politicizzazione delle paure urbane spinge i poteri pubblici ad alimentare deliberatamente le inquietudini - non a rafforzare le solidarietà sociali - e a punire dissidenti e individui presunti «pericolosi» come dei colpevoli. La sacralizzazione della legge serve allora solo a premunirsi da una contestazione violenta del disordine costituito. L’anarchica proliferazione di violenze di ogni genere fa poi dimenticare che, su altri piani, il conflitto tende a sparire. I grandi conflitti sociali del secolo scorso si sono per lo più placati, a cominciare dalla lotta di classe, dimenticata a vantaggio di un chimerico «scontro di civiltà». Dal compromesso fordista, i sindacati si sono adeguati all’idea di una società senza un preminente antagonismo, proprio come i partiti contestatori di sinistra si sono adeguati alla logica consensuale del mercato. Anche lo Stato s’orienta alla ricerca sistematica di «compromessi negoziati». Desindacalizzazione, cedimento del pensiero critico, «dialogo sociale» e negoziato degli interessi: in molti campi il consenso ha sostituito il conflitto. Pierre Rosanvallon non ha torto quando dice che, socialmente parlando, viviamo in un mondo senza una forte conflittualità strutturante.
GUERRA ALLA GUERRA
A livello internazionale, è ancora un’altra cosa. L’idea dominante è d’eliminare la guerra e sopprimere il conflitto. Ma la guerra contro la guerra prevale, è sempre più violenta di tutte le altre, né la cultura del rifiuto del nemico impedisce al nemico di apparire. Ben diverso dal desiderio di pace (l’obiettivo naturale della guerra è la pace), il pacifismo è intrinsecamente polemogeno. Fondamentalmente la guerra non ha cambiato natura, ma i mezzi ai quali ricorrono i belligeranti son sempre più massicciamente distruttivi. Chi crede di liberarci dalla violenza è imbattibile nel giustificarla e nello scatenarla!
La violenza è stata spesso messa al servizio dell’utopismo, ma anche la volontà di eliminare la violenza deriva dall’utopia. La società non potrà circoscrivere o canalizzare la violenza, pretendendo d’imporre la «pace universale» e sopprimere i fattori conflittuali. Il conflitto nasce da aggressività naturale, diversità umana e impossibilità di conciliare sempre progetti originati da valori divergenti. Non tutti i conflitti implicano violenza, però ne celano la possibilità. L’intolleranza a priori nei suoi riguardi rimanda meno al gusto per i rapporti civili e più alla paura del rischio, alla rassegnazione e all’inerzia. È fin troppo certo che rimozione del conflitto e rifiuto dell’idea stessa di lotta conducano alla violenza generalizzata: voler rimpiazzare a ogni costo il conflitto col consenso è votarsi a far scatenare la violenza estrema. Se oggi c’è troppa violenza, forse è perché difetta il conflitto creatore.
(Traduzione di Maurizio Cabona)
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