Nemmeno questo, l’Australia, voglio dire, è il paese ideale, degno di quel “migliore dei mondi possibili” che forniva a Voltaire argomento di che beffarsi nei riguardi di Leibniz: un caso di corruzione politica è saltato fuori anche qui - roba piccina, trascurabile per noi che la sappiamo lunga, ma corruzione resta – e l’altro ieri, dopo tante lacrime versate dai bambini, gli Aussies, come i locali chiamano loro stessi, hanno fatto fuori un cucciolo di balena, peraltro sanissimo, che scienziati e tecnologi del XXI secolo non sono riusciti a nutrire perché il latte dei cetacei è fuori portata. Però bisogna accontentarsi e noi italiani, addestrati come siamo, ci accontentiamo facilmente.
Qui le notizie dall’Italia arrivano con il contagocce e io non le cerco. L’Italia è dall’altra parte del globo in tutti i sensi e l’immagine stereotipa della terra multicolore degli spaghetti e dei mandolini prevale. Un’immagine del tutto innocente, perfino affettuosa e certo senza traccia di disprezzo che non sospetta nemmeno da lontano il degrado in cui quel bizzarro stivale sta affondando, ma quella è: spaghetti e mandolini.
A Sydney, città in cui ci troviamo ancora una volta, io sto scrivendo un libro e mia moglie insegna all’UTS, una delle università di quaggiù, dove ti guardano come se tu avessi voglia di scherzare se tenti di raccontare che da noi c’è chi sostiene - ovviamente senza aver mai osservato il fenomeno, ma questo da noi non conta - che le nanopolveri passino indifferenti per l’organismo e che, addirittura, quelle che abbiamo fotografato noi nel corpo umano (almeno un migliaio di casi), leghe metalliche che vanno dai vari acciai fino a composizioni inorganiche mai viste prima perché del tutto casuali, siano sciolte dallo stomaco e svaniscano discretamente nel nulla. Mi accorgo subito di aver sbagliato strada e lascio perdere l’argomento. Per quanto io non sia particolarmente orgoglioso della mia italianità (e di questo ringrazio i politicanti, gli accademici e i faccendieri che razziano uno dei paesi più belli del mondo,) non mi va che ci considerino dei
Qui le notizie dall’Italia arrivano con il contagocce e io non le cerco. L’Italia è dall’altra parte del globo in tutti i sensi e l’immagine stereotipa della terra multicolore degli spaghetti e dei mandolini prevale. Un’immagine del tutto innocente, perfino affettuosa e certo senza traccia di disprezzo che non sospetta nemmeno da lontano il degrado in cui quel bizzarro stivale sta affondando, ma quella è: spaghetti e mandolini.
A Sydney, città in cui ci troviamo ancora una volta, io sto scrivendo un libro e mia moglie insegna all’UTS, una delle università di quaggiù, dove ti guardano come se tu avessi voglia di scherzare se tenti di raccontare che da noi c’è chi sostiene - ovviamente senza aver mai osservato il fenomeno, ma questo da noi non conta - che le nanopolveri passino indifferenti per l’organismo e che, addirittura, quelle che abbiamo fotografato noi nel corpo umano (almeno un migliaio di casi), leghe metalliche che vanno dai vari acciai fino a composizioni inorganiche mai viste prima perché del tutto casuali, siano sciolte dallo stomaco e svaniscano discretamente nel nulla. Mi accorgo subito di aver sbagliato strada e lascio perdere l’argomento. Per quanto io non sia particolarmente orgoglioso della mia italianità (e di questo ringrazio i politicanti, gli accademici e i faccendieri che razziano uno dei paesi più belli del mondo,) non mi va che ci considerino dei
ciarlatani.
E, a proposito di questo, della ciarlataneria, mi auguro che sia passato del tutto inosservato un articolo pubblicato da Repubblica il cui testo mi è stato mandato da un paio d’amici sempre più disperati.
Nel grottesco teatro della commedia dell’arte italiota su cui transitano maschere altrove improponibili, avanzano sempre meno di rado fino alla ribalta personaggi che, se non ne fosse tristemente nota la realtà, parrebbero partoriti dalla fantasia amara di qualche scrittore. Dei politicanti nostrani è inutile dire: TV e giornali ce li propinano, crudeli e insistenti, contrabbandandoceli con nascosta ironia, un po’ alla Swift, come autorevoli reggitori delle sorti dello stato; addirittura c’è chi tra loro veste gli abiti di scena dell’indignato paladino della legalità per poi, in verità in modo del tutto solare menando per il naso i propri vocianti tifosi, farsi gli affari suoi, affari che comportano, tra l’altro, la sistematica e costosissima devastazione dell’ambiente.
Per i nostri uomini d’affari è altrettanto inutile spendere più di tante parole: gli affari li fanno ormai per indiscussa tradizione a spese del popol bue, dove con il termine spese non s’intende solo il poco denaro che resta ma l’ambiente, la salute e la prole, per intascare quattrini quando ne arrivano e comunque arrivino, e rifiutare di vedere il conto quando ci sarebbe da pagare.
L’accademia ruspante nostrana? Scorriamo velocemente le classifiche mondiali, facciamo due chiacchiere con qualcuno dei laureati recenti (“incenerendo i rifiuti si trasforma la materia in energia,” afferma, appunti alla mano, un neo-ingegnere ambientale) ed allontaniamoci con la rapidità che le gambe ci consentono.
Ma torniamo all’articolo di Repubblica. Per motivi di mercato, con l’accordo di tutta la combriccola che conta, un medico italiano, fortunatamente qui del tutto ignoto, è stato issato ai vertici della scienza. Mica quella vera, s’intende: quella della finzione scenica iperreale. Il personaggio, venerando per età eppure ancora faustianamente prestante, si è distinto spesso per certe esternazioni degne della penna di Molière, al cui proposito resta l’imbarazzo della scelta: da un basilico giovane mortifero ad una polenta che ti fa venire il cancro se non è OGM; da una consulenza tragicomica sull’incenerimento dei rifiuti estesa per volontà dello statista Cuffaro ad uno sproloquio televisivo, breve e folgorante, su quella tecnica, con pollice ed indice uniti in cerchio ad avvalorare con la forza di un post-aristotelico principium autoritatis la dimostrazione che bruciare porcherie è pratica del tutto salubre. Poi ci sarebbe da dire del carbone “pulito” ENEL, del nucleare di regime e via discorrendo. Ciò che affermano le varie federazioni dei medici, le indagini epidemiologiche, i fatti nudi e crudi, il buon senso, la legge stessa? Che importa? La verità ricevuta dal popol bue, quello che fa numero e che corre a mettere i soldini, è quanto esce dal tubo catodico con tanto di curriculum fatto di cremoni scioglipancia e sali anti-malocchio, di gioielli raffazzonati con i fondi di bottiglia e di tele incrostate in serie, di servizi sulle mirabolanti prestazioni del “termoutilizzatore” bresciano e di notizie accuratamente taciute per risparmiare imbarazzi.
Orbene, lo scienziato di casta gode di uno stuolo di sponsor multimilionari che vanno accontentati. Do ut des. Già è stato il turno di chi costruisce inceneritori, di chi fa centrali elettriche, di chi gestisce i rifiuti… Ora tocca ai miliardari (in Euro) che fabbricano farmaci, qualunque significato si voglia attribuire ad una collezione di sostanze la cui efficacia resta non troppo raramente confinata ad articoli “scientifici” commissionati a scienziati a noleggio e la cui nocività (i farmaci sono tutti veleni e vanno usati solo in caso di comprovata necessità, come m’insegnarono alla prima lezione universitaria nel 1968) viene archiviata nel silenzio non di tomba ma delle tombe. Quando, poi, non si scova nemmeno una malattia adatta per un prodotto nuovo, quasi sempre costato milioni, la malattia s’inventa. E, se proprio la fantasia non può soccorrere altrimenti, si escogita una forma di prevenzione per una patologia qualunque, rara, improbabile o del tutto inesistente che questa sia. Che importa? Business is business e le imprese industriali e commerciali mica hanno come mission la beneficenza. “Sì, quello che mi fa vedere è interessante – mi dicono gl’industriali – ma, se faccio quello che mi dice lei, come lo giustifico con gli azionisti?” Giusto: come lo giustifica con chi preferisce un pacco di biglietti di banca a qualsiasi altra cosa, salute non affatto esclusa?
Così, ecco l’oracolo di Repubblica: il cancro si previene con un’alimentazione corretta (polveri, diossine, benzene, IPA, PCB…: Tutta salute!) e, soprattutto (strizzatina d’occhio), sottoponendosi ad una bella dieta preventiva a base di farmaci. Tanti. Costosi. Quelli che dice lui. Per tutta la vita, finché la morte non ci separi.
E io che, decenni fa, ho perso tempo all’università a studiare che cosa mai fosse la prevenzione: primaria, secondaria, terziaria.
E, a proposito di questo, della ciarlataneria, mi auguro che sia passato del tutto inosservato un articolo pubblicato da Repubblica il cui testo mi è stato mandato da un paio d’amici sempre più disperati.
Nel grottesco teatro della commedia dell’arte italiota su cui transitano maschere altrove improponibili, avanzano sempre meno di rado fino alla ribalta personaggi che, se non ne fosse tristemente nota la realtà, parrebbero partoriti dalla fantasia amara di qualche scrittore. Dei politicanti nostrani è inutile dire: TV e giornali ce li propinano, crudeli e insistenti, contrabbandandoceli con nascosta ironia, un po’ alla Swift, come autorevoli reggitori delle sorti dello stato; addirittura c’è chi tra loro veste gli abiti di scena dell’indignato paladino della legalità per poi, in verità in modo del tutto solare menando per il naso i propri vocianti tifosi, farsi gli affari suoi, affari che comportano, tra l’altro, la sistematica e costosissima devastazione dell’ambiente.
Per i nostri uomini d’affari è altrettanto inutile spendere più di tante parole: gli affari li fanno ormai per indiscussa tradizione a spese del popol bue, dove con il termine spese non s’intende solo il poco denaro che resta ma l’ambiente, la salute e la prole, per intascare quattrini quando ne arrivano e comunque arrivino, e rifiutare di vedere il conto quando ci sarebbe da pagare.
L’accademia ruspante nostrana? Scorriamo velocemente le classifiche mondiali, facciamo due chiacchiere con qualcuno dei laureati recenti (“incenerendo i rifiuti si trasforma la materia in energia,” afferma, appunti alla mano, un neo-ingegnere ambientale) ed allontaniamoci con la rapidità che le gambe ci consentono.
Ma torniamo all’articolo di Repubblica. Per motivi di mercato, con l’accordo di tutta la combriccola che conta, un medico italiano, fortunatamente qui del tutto ignoto, è stato issato ai vertici della scienza. Mica quella vera, s’intende: quella della finzione scenica iperreale. Il personaggio, venerando per età eppure ancora faustianamente prestante, si è distinto spesso per certe esternazioni degne della penna di Molière, al cui proposito resta l’imbarazzo della scelta: da un basilico giovane mortifero ad una polenta che ti fa venire il cancro se non è OGM; da una consulenza tragicomica sull’incenerimento dei rifiuti estesa per volontà dello statista Cuffaro ad uno sproloquio televisivo, breve e folgorante, su quella tecnica, con pollice ed indice uniti in cerchio ad avvalorare con la forza di un post-aristotelico principium autoritatis la dimostrazione che bruciare porcherie è pratica del tutto salubre. Poi ci sarebbe da dire del carbone “pulito” ENEL, del nucleare di regime e via discorrendo. Ciò che affermano le varie federazioni dei medici, le indagini epidemiologiche, i fatti nudi e crudi, il buon senso, la legge stessa? Che importa? La verità ricevuta dal popol bue, quello che fa numero e che corre a mettere i soldini, è quanto esce dal tubo catodico con tanto di curriculum fatto di cremoni scioglipancia e sali anti-malocchio, di gioielli raffazzonati con i fondi di bottiglia e di tele incrostate in serie, di servizi sulle mirabolanti prestazioni del “termoutilizzatore” bresciano e di notizie accuratamente taciute per risparmiare imbarazzi.
Orbene, lo scienziato di casta gode di uno stuolo di sponsor multimilionari che vanno accontentati. Do ut des. Già è stato il turno di chi costruisce inceneritori, di chi fa centrali elettriche, di chi gestisce i rifiuti… Ora tocca ai miliardari (in Euro) che fabbricano farmaci, qualunque significato si voglia attribuire ad una collezione di sostanze la cui efficacia resta non troppo raramente confinata ad articoli “scientifici” commissionati a scienziati a noleggio e la cui nocività (i farmaci sono tutti veleni e vanno usati solo in caso di comprovata necessità, come m’insegnarono alla prima lezione universitaria nel 1968) viene archiviata nel silenzio non di tomba ma delle tombe. Quando, poi, non si scova nemmeno una malattia adatta per un prodotto nuovo, quasi sempre costato milioni, la malattia s’inventa. E, se proprio la fantasia non può soccorrere altrimenti, si escogita una forma di prevenzione per una patologia qualunque, rara, improbabile o del tutto inesistente che questa sia. Che importa? Business is business e le imprese industriali e commerciali mica hanno come mission la beneficenza. “Sì, quello che mi fa vedere è interessante – mi dicono gl’industriali – ma, se faccio quello che mi dice lei, come lo giustifico con gli azionisti?” Giusto: come lo giustifica con chi preferisce un pacco di biglietti di banca a qualsiasi altra cosa, salute non affatto esclusa?
Così, ecco l’oracolo di Repubblica: il cancro si previene con un’alimentazione corretta (polveri, diossine, benzene, IPA, PCB…: Tutta salute!) e, soprattutto (strizzatina d’occhio), sottoponendosi ad una bella dieta preventiva a base di farmaci. Tanti. Costosi. Quelli che dice lui. Per tutta la vita, finché la morte non ci separi.
E io che, decenni fa, ho perso tempo all’università a studiare che cosa mai fosse la prevenzione: primaria, secondaria, terziaria.
di Stefano Montanari
Nessun commento:
Posta un commento