07 maggio 2012
Al diavolo i conti, è la mia vita che conta!
Povero ma generoso: insiste per offrirci da bere, ci porge più volte il pacchetto di sigarette. Mentre parla gli luccicano gli occhi. Qualche volta s’inalbera, perde le staffe. Antonio F., omone simpatico dalla non più giovane età di 54 anni, origini foggiane ma stravicentino di modi e mentalità, la pazienza l’ha persa molto tempo fa. Sei anni fa ha perduto il lavoro e ora non lo ritrova più. E con esso ha perduto molte altre cose, come la moglie. Ma ci tiene a quella cosa chiamata dignità
«A 48 anni non posso più correre da un lavoretto all’altro, col rischio di farmi licenziare dopo qualche mese perché la ditta non ha più bisogno di me». Perché negli ultimi anni questa è stata la vita di Antonio, vittima esemplare della precarietà. Che, statistiche alla mano, qui nel Vicentino sarà meno invasiva che altrove, ma fa pagare prezzi altissimi non solo a giovani alla ricerca del primo impiego, ma anche ad adulti finiti nel girone della disoccupazione. «Facevo l’agente assicurativo. Mi piaceva, benchè io avessi una qualifica di impiantista elettricista preso dopo un solo anno di superiori. Negli anni ’70, quand’ero ragazzo, si studiava quel tanto che bastava per imparare un mestiere».
Poi, nel 1995, Antonio viene colpito da un male più diffuso di quanto si pensi: la depressione. «Fu scatenata per vicende familiari legate alla morte di mio padre. Piombai nel male oscuro, che nel 2000 mi portò alle dimissioni dall’agenzia assicurativa per la quale lavoravo. Non reggevo più il carico di lavoro». E cominciò l’odissea degli impieghi temporanei. «Pur stando male, dovevo campare, e ho dovuto fare di tutto: l’operaio, il muratore, il magazziniere. Vivere aspettando la chiamata dell’agenzia interinale non è vita. Quando ti va bene ti rinnovano il contratto ogni due mesi, e io in media ho avuto impieghi di un anno. Ogni volta devi imparare in fretta il tuo nuovo lavoro, e ci sono posti dove non ti rispettano, tanto dopo qualche mese te ne vai. Così a volte li ho mandati a quel paese io. Ho ancora una dignità».
Essere sopra i 50 anni non lo aiuta di certo: è costretto a stare in casa con sua madre e a vivere col reddito dei suoi risparmi in banca e con la pensione materna. La via d’uscita, in questi casi, è il lavoro nero. «E’ una necessità. Io vorrei aprire un’impresa edile, ma mi manca il capitale iniziale, come faccio? Le banche mi sbattono la porta in faccia. Così devo cercare un lavoro da dipendente, ma vogliono solo giovani». Antonio è disilluso, è stanco dello “schifo» che ha subìto: «Non vado a votare da un pezzo, per me è tutto questo sistema che ha fallito: una volta con lo stipendio del capofamiglia davi di che vivere a moglie e figli, ti compravi una casa, un’auto e conducevi un’esistenza dignitosa. Ora il lavoro è diventato una fatica senza senso, ti fanno sgobbare per battere i cinesi. Ma chi vuoi battere, se loro hanno un’economia senza debito, senza queste maledette banche sanguisughe? Dobbiamo sacrificare la nostra vita per competere a tutti i costi?».
Antonio non festeggia il Primo Maggio: «per una questione di dignità non festeggio una grande ipocrisia, non me ne frega un c… dei concerti, cosa c’è da festeggiare e da cantare? I sindacati fanno solo sceneggiate, solo la Fiom si salva. La sinistra si è venduta, fa ridere i polli. La gente si ammazza, perfino gli imprenditori si suicidano, e noi abbiamo un governo che sacrifica la vita della gente per far contenta l’Europa e la Germania! Dovrebbero passare quello che ho passato io e tanti come me, e forse capirebbero che la vita è una soltanto. Al diavolo il pareggio di bilancio, è la mia vita che conta!».
di Alessio Mannino
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07 maggio 2012
Al diavolo i conti, è la mia vita che conta!
Povero ma generoso: insiste per offrirci da bere, ci porge più volte il pacchetto di sigarette. Mentre parla gli luccicano gli occhi. Qualche volta s’inalbera, perde le staffe. Antonio F., omone simpatico dalla non più giovane età di 54 anni, origini foggiane ma stravicentino di modi e mentalità, la pazienza l’ha persa molto tempo fa. Sei anni fa ha perduto il lavoro e ora non lo ritrova più. E con esso ha perduto molte altre cose, come la moglie. Ma ci tiene a quella cosa chiamata dignità
«A 48 anni non posso più correre da un lavoretto all’altro, col rischio di farmi licenziare dopo qualche mese perché la ditta non ha più bisogno di me». Perché negli ultimi anni questa è stata la vita di Antonio, vittima esemplare della precarietà. Che, statistiche alla mano, qui nel Vicentino sarà meno invasiva che altrove, ma fa pagare prezzi altissimi non solo a giovani alla ricerca del primo impiego, ma anche ad adulti finiti nel girone della disoccupazione. «Facevo l’agente assicurativo. Mi piaceva, benchè io avessi una qualifica di impiantista elettricista preso dopo un solo anno di superiori. Negli anni ’70, quand’ero ragazzo, si studiava quel tanto che bastava per imparare un mestiere».
Poi, nel 1995, Antonio viene colpito da un male più diffuso di quanto si pensi: la depressione. «Fu scatenata per vicende familiari legate alla morte di mio padre. Piombai nel male oscuro, che nel 2000 mi portò alle dimissioni dall’agenzia assicurativa per la quale lavoravo. Non reggevo più il carico di lavoro». E cominciò l’odissea degli impieghi temporanei. «Pur stando male, dovevo campare, e ho dovuto fare di tutto: l’operaio, il muratore, il magazziniere. Vivere aspettando la chiamata dell’agenzia interinale non è vita. Quando ti va bene ti rinnovano il contratto ogni due mesi, e io in media ho avuto impieghi di un anno. Ogni volta devi imparare in fretta il tuo nuovo lavoro, e ci sono posti dove non ti rispettano, tanto dopo qualche mese te ne vai. Così a volte li ho mandati a quel paese io. Ho ancora una dignità».
Essere sopra i 50 anni non lo aiuta di certo: è costretto a stare in casa con sua madre e a vivere col reddito dei suoi risparmi in banca e con la pensione materna. La via d’uscita, in questi casi, è il lavoro nero. «E’ una necessità. Io vorrei aprire un’impresa edile, ma mi manca il capitale iniziale, come faccio? Le banche mi sbattono la porta in faccia. Così devo cercare un lavoro da dipendente, ma vogliono solo giovani». Antonio è disilluso, è stanco dello “schifo» che ha subìto: «Non vado a votare da un pezzo, per me è tutto questo sistema che ha fallito: una volta con lo stipendio del capofamiglia davi di che vivere a moglie e figli, ti compravi una casa, un’auto e conducevi un’esistenza dignitosa. Ora il lavoro è diventato una fatica senza senso, ti fanno sgobbare per battere i cinesi. Ma chi vuoi battere, se loro hanno un’economia senza debito, senza queste maledette banche sanguisughe? Dobbiamo sacrificare la nostra vita per competere a tutti i costi?».
Antonio non festeggia il Primo Maggio: «per una questione di dignità non festeggio una grande ipocrisia, non me ne frega un c… dei concerti, cosa c’è da festeggiare e da cantare? I sindacati fanno solo sceneggiate, solo la Fiom si salva. La sinistra si è venduta, fa ridere i polli. La gente si ammazza, perfino gli imprenditori si suicidano, e noi abbiamo un governo che sacrifica la vita della gente per far contenta l’Europa e la Germania! Dovrebbero passare quello che ho passato io e tanti come me, e forse capirebbero che la vita è una soltanto. Al diavolo il pareggio di bilancio, è la mia vita che conta!».
di Alessio Mannino
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