18 maggio 2012
USA banksters: il tonfo della J.P. Morgan Chase
“Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino” dice un saggio e antico proverbio.
Così J.P. Morgan Chase, una delle tre maggiori banche USA con Citibank e Bank of America) ha registrato la scorsa settimana una perdita di circa due miliardi di dollari nei suoi “investimenti” sui derivati finanziari. Definirli investimenti, come fanno i media su questo argomento, è il modo più semplice per nascondere la verità, poiché si tratta di raid finanziari e usurai impostati al solo scopo di costruire un valore fittizio sul quale fare profitto.
O è una “scommessa” vinta contro qualcuno che non ne sa nulla ma perde i soldi, o è una “bolla” che scoppierà in seguito.
E’ rarissimo che questi “investitori professionisti” (meglio: speculatori) sbaglino nelle previsioni e quindi perdano un sacco di soldi: per comandare il gioco hanno ogni mezzo per giocare forte. Ma quando perdono fanno un tonfo, proprio come nel gioco d’azzardo. Come accaduto alla Chase. E’ poi normale che per un grosso crack debba cadere la testa del responsabile. Per questo la signora Ina R. Drew, da trent’anni alla guida del settore finanze come “Chief Investment Officer” ha presentato le dimissioni, respinte però da Mr. Jamie Dimon, l’ad della banca.
Ma la grave perdita ha avuto una vasta eco ed è crollato il titolo Chase in borsa. E ora è la poltrona di Dimon, numero uno del gruppo Chase, ad essere a rischio. Eppure lui era riuscito a superare indenne persino la bufera del 2008-2009, con un prestito di 25 miliardi di dollari in aiuti statali (restituiti nel 2010) per tenere a galla la sua banca.
E’ utile pero’ entrare nel dettaglio di questi “investimenti finanziari” per capire di cosa si tratti.
La banca investe il denaro che ha in deposito dai correntisti per generare il reddito necessario a coprire le proprie spese (includendo in questo i dividendi da distribuire agli azionisti e i lauti guadagni dei top managers).
Una delle fonti di maggior reddito è quella dell’acquisto del debito (cartolarizzato) emesso dai soggetti più disparati, privati e... Stati. Il rendimento è maggiore dove è maggiore il rischio. Rischio tuttavia assicurato (in parte) contro le possibili perdite.
Il modo più usato è quello di investire proporzionalmente sui “credit default swaps” (i famigerati cds!). Per esempio quelli valorizzati nell’indice CDX.NA.IG.9 (cioè quello che ha prodotto la perdita di Chase). Questo indicatore quota il valore medio corrente di un paniere che contiene i titoli di debito (bonds) di tutta una serie di soggetti. Le banche (e gli altri speculatori) investono quindi sull’indice come se fosse un titolo di una singola impresa. Qualcuno scommette al rialzo, qualcun altro al ribasso.
Ma in questo caso la Chase, con il suo sportello di Londra, ha “scommesso” troppo su questo indice, producendo una evidente distorsione del valore rappresentato. E gli altri “scommettitori” hanno preso Chase in contropiede optando sul ribasso e costringendo così Morgan Chase a chiudere le operazioni con una pesante perdita, per non restare invischiata e peggiorare ulteriormente la propria posizione.
Si badi bene: la perdita, per una megabanca d’affari come J.P. Morgan Chase era ed è assorbibile senza grossi problemi. Ma sotto accusa è l’uso di uno strumento finanziario (il cds) a scopo speculativo che, al contrario, è inteso a tutelare dalle perdite i propri investimenti.
Finita su tutti i giornali del mondo, la vicenda ha costretto sia la S.E.C. (Security Exchange Commission) che le Commissioni parlamentari Usa a indagare sulle attività in derivati della Chase, per “pesare” il rischio di tali speculazioni. Tanto più che Dimon era stato il capofila dei banchieri che tre anni fa riuscirono a ottenere dai legislatori uno spiraglio nel cosiddetto “Volker rule” per proseguire in questo tipo di operazioni.
Ormai lo sanno anche i sassi che alle grandi banche la lezione del 2008 non è servita a niente.
Continuano a speculare esattamente come prima (e anche peggio, come appare evidente da questa vicenda).
di Roberto Marchesi -
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18 maggio 2012
USA banksters: il tonfo della J.P. Morgan Chase
“Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino” dice un saggio e antico proverbio.
Così J.P. Morgan Chase, una delle tre maggiori banche USA con Citibank e Bank of America) ha registrato la scorsa settimana una perdita di circa due miliardi di dollari nei suoi “investimenti” sui derivati finanziari. Definirli investimenti, come fanno i media su questo argomento, è il modo più semplice per nascondere la verità, poiché si tratta di raid finanziari e usurai impostati al solo scopo di costruire un valore fittizio sul quale fare profitto.
O è una “scommessa” vinta contro qualcuno che non ne sa nulla ma perde i soldi, o è una “bolla” che scoppierà in seguito.
E’ rarissimo che questi “investitori professionisti” (meglio: speculatori) sbaglino nelle previsioni e quindi perdano un sacco di soldi: per comandare il gioco hanno ogni mezzo per giocare forte. Ma quando perdono fanno un tonfo, proprio come nel gioco d’azzardo. Come accaduto alla Chase. E’ poi normale che per un grosso crack debba cadere la testa del responsabile. Per questo la signora Ina R. Drew, da trent’anni alla guida del settore finanze come “Chief Investment Officer” ha presentato le dimissioni, respinte però da Mr. Jamie Dimon, l’ad della banca.
Ma la grave perdita ha avuto una vasta eco ed è crollato il titolo Chase in borsa. E ora è la poltrona di Dimon, numero uno del gruppo Chase, ad essere a rischio. Eppure lui era riuscito a superare indenne persino la bufera del 2008-2009, con un prestito di 25 miliardi di dollari in aiuti statali (restituiti nel 2010) per tenere a galla la sua banca.
E’ utile pero’ entrare nel dettaglio di questi “investimenti finanziari” per capire di cosa si tratti.
La banca investe il denaro che ha in deposito dai correntisti per generare il reddito necessario a coprire le proprie spese (includendo in questo i dividendi da distribuire agli azionisti e i lauti guadagni dei top managers).
Una delle fonti di maggior reddito è quella dell’acquisto del debito (cartolarizzato) emesso dai soggetti più disparati, privati e... Stati. Il rendimento è maggiore dove è maggiore il rischio. Rischio tuttavia assicurato (in parte) contro le possibili perdite.
Il modo più usato è quello di investire proporzionalmente sui “credit default swaps” (i famigerati cds!). Per esempio quelli valorizzati nell’indice CDX.NA.IG.9 (cioè quello che ha prodotto la perdita di Chase). Questo indicatore quota il valore medio corrente di un paniere che contiene i titoli di debito (bonds) di tutta una serie di soggetti. Le banche (e gli altri speculatori) investono quindi sull’indice come se fosse un titolo di una singola impresa. Qualcuno scommette al rialzo, qualcun altro al ribasso.
Ma in questo caso la Chase, con il suo sportello di Londra, ha “scommesso” troppo su questo indice, producendo una evidente distorsione del valore rappresentato. E gli altri “scommettitori” hanno preso Chase in contropiede optando sul ribasso e costringendo così Morgan Chase a chiudere le operazioni con una pesante perdita, per non restare invischiata e peggiorare ulteriormente la propria posizione.
Si badi bene: la perdita, per una megabanca d’affari come J.P. Morgan Chase era ed è assorbibile senza grossi problemi. Ma sotto accusa è l’uso di uno strumento finanziario (il cds) a scopo speculativo che, al contrario, è inteso a tutelare dalle perdite i propri investimenti.
Finita su tutti i giornali del mondo, la vicenda ha costretto sia la S.E.C. (Security Exchange Commission) che le Commissioni parlamentari Usa a indagare sulle attività in derivati della Chase, per “pesare” il rischio di tali speculazioni. Tanto più che Dimon era stato il capofila dei banchieri che tre anni fa riuscirono a ottenere dai legislatori uno spiraglio nel cosiddetto “Volker rule” per proseguire in questo tipo di operazioni.
Ormai lo sanno anche i sassi che alle grandi banche la lezione del 2008 non è servita a niente.
Continuano a speculare esattamente come prima (e anche peggio, come appare evidente da questa vicenda).
di Roberto Marchesi -
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