08 maggio 2012
Perdo il lavoro e mi ammazzo: tanto, lo Stato se ne frega
Perdo il lavoro, chiudo l’azienda e mi tolgo la vita: «Nessuno può essere trattenuto in vita contro la propria volontà», diceva seccamente Seneca commentando Epicuro, per il quale «vivere nella necessità» non era affatto necessario. In tempi di sordida crisi che miete vittime in Italia, nella civile Europa e in tutto l’Occidente, osserva Marco Cesario su “Micromega”, ci si chiede se calpestare la necessità ed optare per il suicidio non costituisca forse «la scandalosa ed inammissibile sconfitta della società in cui viviamo». Ovvero: la sconfitta delle istituzioni e dello Stato come forma di associazione che, come voleva Rousseau, in nome della libertà individuale «difende e protegge, mediante tutta la forza comune, la persona ed i beni di ciascun associato». Di fronte all’eclissi del welfare e al «definitivo tramonto di una qualunque idea di Europa basata sul principio di solidarietà», oggi perde valore anche il senso più antico del termine “Stato”, in quanto «collettività di vite federate per il bene comune».
Uno dei più accaniti critici dell’euro-politica, il solitario giornalista Paolo Barnard, illumina i possibili “perché” con due citazioni agghiaccianti. La disperazioneprima è del super-economista francese Jacques Attali, “caposcuola” dei futuri leader del centrosinistra italiano: «Ma cosa crede, la plebaglia europea, che l’euro l’abbiamo creato per la loro felicità?», dice Attali all’attonito Alain Parguez, allora consigliere economico del presidente Mitterrand. Un altro ideologo transalpino al servizio delle stesse élite finanziarie mondiali, François Perroux, già nel lontano 1943 – in piena Seconda Guerra Mondiale, con l’Europa ancora invasa dalle armate hitleriane – a modo suo guardava avanti: l’ideale, diceva, sarebbe stato, un giorno, arrivare a privare lo Stato della sua vera ragion d’essere, e cioè la sua capacità di spesa a favore dei cittadini. “Profezia” che, secondo Barnard, si è avverata oggi – come tutti possiamo constatare – grazie a due mosse fatali: l’adozione fraudolenta dell’euro, “moneta straniera” che priva di Stati della possibilità di sostenere il debito pubblico a favore dei cittadini, e la progressiva cessione delle sovranità anche legislative a Bruxelles, dove a dettar legge sono gli oscuri tecnocrati, non eletti da nessuno ma al servizio delle lobby planetarie, alta finanza e grandi multinazionali globalizzate.
«Che si tratti delle derive dell’offensiva neoliberista fagocitata dalla crisi economica globale o della volubilità di un mercato che segue leggi imperscrutabili», dice Cesario, una cosa è certa: «I suicidi aumentano man mano che ci si inabissa nella peggiore crisi economica mondiale dal crack del ‘29». Quella dei suicidi per disperazione è ormai un’emergenza, come rileva David Stuckler, sociologo dell’università di Cambridge: la curva dei suicidi è aumentata in maniera vertiginosa soprattutto in quei paesi colpiti maggiormente dalla crisi. Il tasso di suicidi in Grecia è aumentato del 24% nel biennio 2007-2009. In Irlanda, nello stesso periodo, i suicidi dettati da ristrettezze economiche e condizioni di vita proibitive sono aumentati del 16%. In Italia la situazione è più che allarmante: secondo l’ultimo Rapporto Eures, dal titolo “Il suicidio in Italia al tempo della crisi”, nel solo 2010 ben Torcia umana: un bonzo tibetano protesta contro la Cina362 persone si sono date la morte perché impossibilitate a far fronte ad una condizione economica avversa, a fronte delle 357 vittime del 2009 e della media di 270 tra il 2006 ed il 2009. Nel funesto 2012 si sono già suicidati 23 imprenditori, di cui nove solo in Veneto.
Ciò che più preoccupa, aggiunge Cesario, non è solo la triste corrispondenza tra il peggioramento della situazione economica di un paese e l’impennata del tasso di suicidi: ad allarmare è l’annuncio dei tagli orizzontali al welfare, il tramonto degli “scudi sociali” che finora avevano protetto il cittadino di fronte al baratro della nuova povertà. L’analista di “Micromega” ricorda le drammatiche ultime parole di Dimitris Chistoulas, il pensionato greco di 77 anni che si è dato la morte nel cuore di quella che fu la culla della democrazia e della civiltà occidentale, Atene: «Non vedo altra soluzione che una fine onorevole, prima di iniziare a rovistare i cassonetti in cerca di cibo». Una fine onorevole: non è forse meglio di una vita vissuta nel segno delle umiliazioni? Cesario punta il dito contro «lo scandalo della povertà e la minaccia diretta alla nostra sopravvivenza materiale, fantasma sempre scacciato ai margini dell’Occidente e del pensiero», perlomeno fino a ieri. Di Solitudine pericolosa: il fantasma della miseriacolpo, la crisi oggi ci mette di fronte alla «mera precarietà dell’esistenza», anche alla «irrisorietà delle nostre politiche sociali».
La caduta dei simboli che facevano dello Stato il garante della sopravvivenza materiale dei propri cittadini – continua Cesario – indicherebbe che anche lo Stato, nella sua concezione moderna, è in profonda crisi e che forse si dovrebbero rivedere i concetti di “bene comune”: se infatti coincide con il benessere materiale e spirituale di una collettività, come interpretare allora il suicidio di un’anziana di 78 anni a Gela perché l’Inps le aveva tolto 200 euro dalla pensione? Non è forse il simbolo del tragico fallimento dello Stato, un tempo garante della collettività e oggi invece ridotto al ruolo di “attore economico” che di fatto privilegia gli interessi particolari delle banche e della finanza mondiale? Come può ancora, uno Stato simile, essere degno di rappresentare il corpo dei cittadini? La stessa decisione di modificare l’articolo 81 della Costituzione inserendo il vincolo del “pareggio di bilancio”, aggiunge Cesario, va esattamente in questa direzione, cioè verso la dissoluzione del concetto classico di Stato: «La priorità non è più il benessere collettivo nazionale ma interessi economici particolari e sovranazionali».
La terribile ondata di suicidi che attraversa l’Europa e l’Italia, osserva l’editorialista di “Micromega”, ha messo in luce un altro inquietante fenomeno, strettamente connesso: ovvero la desacralizzazione dell’esistenza, la perdita di valore della vita umana, ora non più considerata “necessaria” se non nel contesto economico del processo globale della produzione, un ciclo aberrante di sfruttamento senza limiti, che vede la morte dell’essere umano come una necessaria e inevitabile fatalità. «In questo fosco scenario – scrive Marco Cesario – la vita, nel suo senso biologico e storico, può e deve essere sacrificata sull’altare del feticcio-mercato per permettere al sistema stesso di sopravvivere». Di fronte ad una prospettiva simile, «il suicidio come forma di resistenza», addirittura «come atto politico o d’insubordinazione», diventa un’arma: si può leggere come «l’ultima ed estrema forma di lotta dell’individuo contro una società desolidarizzata, disumanizzata, alienata, che non mette più al centro delle sue preoccupazioni l’uomo ma la produzione, l’accumulazione della Jan Palach, tragico eroe della resistenza di Pragaricchezza, lo sfruttamento delle risorse naturali per creare più produzione e non più benessere collettivo».
Il suicidio come forma di disperata protesta appartiene alle pagine più tristi della storia dell’umanità, dai bonzi del Tibet ridotti a torce umane fino al tragico eroismo di Jan Palach, che si diede fuoco a Praga nel 1968 davanti ai cingoli dei carri armati sovietici. Ora siamo al suicidio politico in tempo di pace? «Vedendo i propri concittadini morire sotto i colpi della crisi – protesta Cesario – la politica non dovrebbe ripensare se stessa ed agire immediatamente per prevenire un fenomeno tanto drammatico». Problema: «Ma se la politica non è più capace di pensare l’uomo, come può dirsi umana e come possono dirsi umane le nostre società?». Lungi dal voler fare l’apologia del suicidio “politico”, non resta che chiedersi come agire, per scongiurare il rischio che – nel vuoto assordante della nostra società dominata dall’economia che ha traviato atrocemente la politica – altre vittime della disperazione finiscano per vedere nell’auto-omicidio «l’ultimo ed estremo atto di libertà e di dignità dell’essere umano».
di Giorgio Cattaneo
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08 maggio 2012
Perdo il lavoro e mi ammazzo: tanto, lo Stato se ne frega
Perdo il lavoro, chiudo l’azienda e mi tolgo la vita: «Nessuno può essere trattenuto in vita contro la propria volontà», diceva seccamente Seneca commentando Epicuro, per il quale «vivere nella necessità» non era affatto necessario. In tempi di sordida crisi che miete vittime in Italia, nella civile Europa e in tutto l’Occidente, osserva Marco Cesario su “Micromega”, ci si chiede se calpestare la necessità ed optare per il suicidio non costituisca forse «la scandalosa ed inammissibile sconfitta della società in cui viviamo». Ovvero: la sconfitta delle istituzioni e dello Stato come forma di associazione che, come voleva Rousseau, in nome della libertà individuale «difende e protegge, mediante tutta la forza comune, la persona ed i beni di ciascun associato». Di fronte all’eclissi del welfare e al «definitivo tramonto di una qualunque idea di Europa basata sul principio di solidarietà», oggi perde valore anche il senso più antico del termine “Stato”, in quanto «collettività di vite federate per il bene comune».
Uno dei più accaniti critici dell’euro-politica, il solitario giornalista Paolo Barnard, illumina i possibili “perché” con due citazioni agghiaccianti. La disperazioneprima è del super-economista francese Jacques Attali, “caposcuola” dei futuri leader del centrosinistra italiano: «Ma cosa crede, la plebaglia europea, che l’euro l’abbiamo creato per la loro felicità?», dice Attali all’attonito Alain Parguez, allora consigliere economico del presidente Mitterrand. Un altro ideologo transalpino al servizio delle stesse élite finanziarie mondiali, François Perroux, già nel lontano 1943 – in piena Seconda Guerra Mondiale, con l’Europa ancora invasa dalle armate hitleriane – a modo suo guardava avanti: l’ideale, diceva, sarebbe stato, un giorno, arrivare a privare lo Stato della sua vera ragion d’essere, e cioè la sua capacità di spesa a favore dei cittadini. “Profezia” che, secondo Barnard, si è avverata oggi – come tutti possiamo constatare – grazie a due mosse fatali: l’adozione fraudolenta dell’euro, “moneta straniera” che priva di Stati della possibilità di sostenere il debito pubblico a favore dei cittadini, e la progressiva cessione delle sovranità anche legislative a Bruxelles, dove a dettar legge sono gli oscuri tecnocrati, non eletti da nessuno ma al servizio delle lobby planetarie, alta finanza e grandi multinazionali globalizzate.
«Che si tratti delle derive dell’offensiva neoliberista fagocitata dalla crisi economica globale o della volubilità di un mercato che segue leggi imperscrutabili», dice Cesario, una cosa è certa: «I suicidi aumentano man mano che ci si inabissa nella peggiore crisi economica mondiale dal crack del ‘29». Quella dei suicidi per disperazione è ormai un’emergenza, come rileva David Stuckler, sociologo dell’università di Cambridge: la curva dei suicidi è aumentata in maniera vertiginosa soprattutto in quei paesi colpiti maggiormente dalla crisi. Il tasso di suicidi in Grecia è aumentato del 24% nel biennio 2007-2009. In Irlanda, nello stesso periodo, i suicidi dettati da ristrettezze economiche e condizioni di vita proibitive sono aumentati del 16%. In Italia la situazione è più che allarmante: secondo l’ultimo Rapporto Eures, dal titolo “Il suicidio in Italia al tempo della crisi”, nel solo 2010 ben Torcia umana: un bonzo tibetano protesta contro la Cina362 persone si sono date la morte perché impossibilitate a far fronte ad una condizione economica avversa, a fronte delle 357 vittime del 2009 e della media di 270 tra il 2006 ed il 2009. Nel funesto 2012 si sono già suicidati 23 imprenditori, di cui nove solo in Veneto.
Ciò che più preoccupa, aggiunge Cesario, non è solo la triste corrispondenza tra il peggioramento della situazione economica di un paese e l’impennata del tasso di suicidi: ad allarmare è l’annuncio dei tagli orizzontali al welfare, il tramonto degli “scudi sociali” che finora avevano protetto il cittadino di fronte al baratro della nuova povertà. L’analista di “Micromega” ricorda le drammatiche ultime parole di Dimitris Chistoulas, il pensionato greco di 77 anni che si è dato la morte nel cuore di quella che fu la culla della democrazia e della civiltà occidentale, Atene: «Non vedo altra soluzione che una fine onorevole, prima di iniziare a rovistare i cassonetti in cerca di cibo». Una fine onorevole: non è forse meglio di una vita vissuta nel segno delle umiliazioni? Cesario punta il dito contro «lo scandalo della povertà e la minaccia diretta alla nostra sopravvivenza materiale, fantasma sempre scacciato ai margini dell’Occidente e del pensiero», perlomeno fino a ieri. Di Solitudine pericolosa: il fantasma della miseriacolpo, la crisi oggi ci mette di fronte alla «mera precarietà dell’esistenza», anche alla «irrisorietà delle nostre politiche sociali».
La caduta dei simboli che facevano dello Stato il garante della sopravvivenza materiale dei propri cittadini – continua Cesario – indicherebbe che anche lo Stato, nella sua concezione moderna, è in profonda crisi e che forse si dovrebbero rivedere i concetti di “bene comune”: se infatti coincide con il benessere materiale e spirituale di una collettività, come interpretare allora il suicidio di un’anziana di 78 anni a Gela perché l’Inps le aveva tolto 200 euro dalla pensione? Non è forse il simbolo del tragico fallimento dello Stato, un tempo garante della collettività e oggi invece ridotto al ruolo di “attore economico” che di fatto privilegia gli interessi particolari delle banche e della finanza mondiale? Come può ancora, uno Stato simile, essere degno di rappresentare il corpo dei cittadini? La stessa decisione di modificare l’articolo 81 della Costituzione inserendo il vincolo del “pareggio di bilancio”, aggiunge Cesario, va esattamente in questa direzione, cioè verso la dissoluzione del concetto classico di Stato: «La priorità non è più il benessere collettivo nazionale ma interessi economici particolari e sovranazionali».
La terribile ondata di suicidi che attraversa l’Europa e l’Italia, osserva l’editorialista di “Micromega”, ha messo in luce un altro inquietante fenomeno, strettamente connesso: ovvero la desacralizzazione dell’esistenza, la perdita di valore della vita umana, ora non più considerata “necessaria” se non nel contesto economico del processo globale della produzione, un ciclo aberrante di sfruttamento senza limiti, che vede la morte dell’essere umano come una necessaria e inevitabile fatalità. «In questo fosco scenario – scrive Marco Cesario – la vita, nel suo senso biologico e storico, può e deve essere sacrificata sull’altare del feticcio-mercato per permettere al sistema stesso di sopravvivere». Di fronte ad una prospettiva simile, «il suicidio come forma di resistenza», addirittura «come atto politico o d’insubordinazione», diventa un’arma: si può leggere come «l’ultima ed estrema forma di lotta dell’individuo contro una società desolidarizzata, disumanizzata, alienata, che non mette più al centro delle sue preoccupazioni l’uomo ma la produzione, l’accumulazione della Jan Palach, tragico eroe della resistenza di Pragaricchezza, lo sfruttamento delle risorse naturali per creare più produzione e non più benessere collettivo».
Il suicidio come forma di disperata protesta appartiene alle pagine più tristi della storia dell’umanità, dai bonzi del Tibet ridotti a torce umane fino al tragico eroismo di Jan Palach, che si diede fuoco a Praga nel 1968 davanti ai cingoli dei carri armati sovietici. Ora siamo al suicidio politico in tempo di pace? «Vedendo i propri concittadini morire sotto i colpi della crisi – protesta Cesario – la politica non dovrebbe ripensare se stessa ed agire immediatamente per prevenire un fenomeno tanto drammatico». Problema: «Ma se la politica non è più capace di pensare l’uomo, come può dirsi umana e come possono dirsi umane le nostre società?». Lungi dal voler fare l’apologia del suicidio “politico”, non resta che chiedersi come agire, per scongiurare il rischio che – nel vuoto assordante della nostra società dominata dall’economia che ha traviato atrocemente la politica – altre vittime della disperazione finiscano per vedere nell’auto-omicidio «l’ultimo ed estremo atto di libertà e di dignità dell’essere umano».
di Giorgio Cattaneo
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