Il Gran Maestro
Se
un merito va riconosciuto a Mario Monti è di contribuire ad una
maggiore chiarezza del dibattito; ha scelto il suo avversario, Silvio
Berlusconi, il suo referente, Bersani, quest’ultimo con un Vendola più
addomesticato; ha definito il perimetro entro cui si schiereranno e si
formeranno le forze politiche a lui affini; ha tracciato gli
orientamenti che ispirano il suo “Cambiare l’Italia, Riformare l’Europa: Agenda per l’impegno comune”
di prossima pubblicazione. La conferenza stampa di fine anno tenutasi
oggi, domenica 23 dicembre, è stata esemplare nella sua semplicità e
incisività. Come al solito i commenti a caldo dei pontefici
dell’informazione, a cominciare da Mentana, hanno piegato il senso delle
sue dichiarazioni alla logica della quale è vittima la quasi totalità
del giornalismo italiano: la riduzione al semplice scontro di fazioni
partitiche nel palcoscenico politico e, quindi, l’implicito sostegno
tattico allo schieramento di Casini e Montezemolo.
In realtà Monti ha detto molto di più e con un respiro che va al di là dell’attuale scadenza elettorale:
- Non
autorizza nessuno ad utilizzare indebitamente il suo nome;
l’avvertimento a Casini e ad alcune componenti del PDL mi pare evidente.
- La
società civile è diffidente nei confronti dei politici professionisti
compresi quelli che intendessero sostenere il suo programma
- Piuttosto che tra destra e sinistra il discrimine della lotta politica dovrebbe essere l’Europa e il rinnovamento
- Nei
tre schieramenti classici e ormai antiquati ci sono cespugli
europeisti, innovatori e liberali che andrebbero raccolti sulla base del
nuovo discrimine
Il Professore, quindi, più che
partecipare e tentare di vincere queste elezioni cerca di orientare il
dibattito della campagna elettorale in modo che i partiti in qualche
maniera rinuncino parzialmente alla demagogia necessaria a raccogliere
voti e alleanze talmente eterogenei da inficiare però la fluidità
successiva dell’azione politica; Monti, infatti, ha già più volte
dichiarato di non farsi troppe illusioni sulla frantumazione dei
partiti prima delle elezioni. Dal PDL si aspetta poche defezioni
importanti, meno del numero di dita delle mani. Paradossalmente,
aggiungo io, potrebbe conseguire qualche successo più rilevante dal
versante meno ostile, il PD. Sulla base del risultato elettorale, poi,
si porrà il problema della coalizione, di chi sarà il Capo di Governo e
di quale ruolo svolgerà Monti stesso da una parte e della
destrutturazione degli attuali partiti dall’altra. L’altra
preoccupazione è quella di circoscrivere il più possibile la campagna
elettorale di Berlusconi il quale con i suoi argomenti, in caso di
successo, rischia di innescare, contro le sue stesse intenzioni, una
politicizzazione del processo di disgregazione dell’Unione Europea
attraverso la crisi di una delle due correnti politiche europee, il
Partito Popolare Europeo; da qui il senso della recente trappola
perpetrata a Bruxelles dal PPE con l’incoronazione di Monti e il
processo a Berlusconi.
Per tranciare in questo modo il dibattito
politico, il Presidente dimissionario deve ricorrere a sua volta a
delle forzature; deve discriminare tra chi sostiene o ritiene
compatibile il suo manifesto ed è in possesso, quindi,
dell’attestazione di europeista ed innovatore; gli altri ne sono la
semplice negazione. Non esiste pertanto altra dinamica positiva che
l’attuale processo di Unione Europea; non esiste altro rinnovamento che
il montismo.
Ma Monti, così come l’attuale Unione Europea, in realtà ha molto poco da offrire.
Prospettando
una unione da costruire sulle macerie delle nazioni e degli stati
nazionali, ignora del tutto i lunghi processi identitari necessari a
creare una comunità, uno stato rappresentativo e una nazione quale
dovrebbe essere l’Europa nel caso riuscisse a realizzarsi e quali
continuano ad essere gli attuali o almeno quelli che riescono a
preservare la propria sovranità. L’Europa, agli occhi di Monti, sarebbe
un popolo senza nazione, fatto di persone, consumatori e cittadini
muniti di diritti e doveri formali. La sua costituzione sarebbe il
frutto di una combinazione accorta dell’azione volontaria di élites e
tecnocrati e di una rappresentazione dei cittadini di tipo parlamentare
costruita attraverso un semplice atto di volontà di gruppi elitari.
L’amalgama e lo sviluppo, invece, sarebbero garantiti dalla costruzione
di un mercato continentale libero a sua volta integrato con quello
americano e, in qualche momento di là da venire, mondiale.
Una
impostazione che evita opportunamente ogni velleità di distinzione di
interessi e di identità da quella dell’attuale potenza dominante
americana e ogni possibilità di seria e trasparente trattativa tra
gruppi e stati nazionali tesa a creare strutture organizzative,
statuali, di impresa, culturali necessari per la formazione di blocchi
sociali e popoli con una loro peculiarità.
Una visione simile,
sia pure allo stato embrionale, apparteneva al De Gaulle degli anni
’60, quando propugnava un processo unitario fondato sugli stati
nazionali e sull’integrazione verticale dei settori contestuale alla
creazione del mercato europeo, piuttosto che sulla mera
liberalizzazione dei mercati e sul continuo frazionamento delle
imprese, sull’anomia culturale condita di retorica; la gestione di
questi processi, però, comporta l’esistenza di gruppi nazionali forti,
consapevoli degli interessi nazionali ma disposti a trattare con i
vicini di casa e a delimitare l’azione rispetto alle altre potenze
mondiali. Una condizione antitetica rispetto alla situazione europea
scaturita dalla seconda guerra mondiale, proseguita nel bipolarismo,
protrattasi ulteriormente, con qualche illusione fugace, con la caduta
dell’URSS.
Quello che Monti ha da offrire è, più che una
speranza, l’accettazione di una pesante regressione in alternativa ad
una regressione ancora più marcata in caso di tradimento del suo verbo;
l’occupazione tutt’al più delle nicchie lasciate libere dalle forze
dominanti. La recente vendita di Avio aereonautica alla General
Electric, il taglio integrale per il secondo anno consecutivo dei
finanziamenti sulla ricerca aerospaziale, i continui attacchi ad ENI e
Finmeccanica, le scelte di politica estera e di difesa, la nuova enfasi
riconosciuta alle scelte di Marchionne, esempi tra i tanti, lasciano
intravedere quale sia la consistenza di queste nicchie e quali saranno
le dinamiche di un libero mercato ridotto a campo di azione di lobby e
gruppi organizzati nascosti dietro l’ideologia del consumatore e
produttore individuale. Lascia intravedere, altresì, quali saranno le
forze suscettibili di sostenere l’impulso “riformatore” di Mario Monti: i
beneficiari di queste nicchie e i settori aggrappati alla possibilità
di salvaguardare parte delle proprie prerogative parassitarie. Qualche
accenno a questo arrembaggio l’abbiamo già visto nella gestione dei
processi di liberalizzazione e nelle modalità di riorganizzazione della
spesa pubblica avviati quest’anno. Sino ad ora Monti ha avuto buon
gioco nell’accusare i partiti come zavorra antiriformatrice; il groppo
ha invece un potere e una inerzia ben più rilevanti, radici ben
presenti nel suo stesso governo tecnico “riformatore”.
Un
dibattito simile ebbe luogo in Italia nell’immediato dopoguerra, ma in
un contesto diverso. L’Italia di allora sviluppò rapidamente il settore
tessile, ma con aspri scontri interni e una politica dirigista
sostenuta dal piano Marshall riuscì a sviluppare anche una notevole
industria meccanica e avviare uno sviluppo importante anche se
complementare. Gli americani vincitori, allora, dovevano creare un
blocco espansivo capace di alimentare la propria forza, offrire sbocchi
alla propria capacità industriale e finanziaria, fronteggiare la
minaccia sovietica, questo creò gli spazi necessari allo sviluppo e
all’emergere di figure come Mattei. Oggi, al paese, viene richiesto un
sacrificio di natura ben diversa e con più invitati alla condivisione
delle spoglie, compresi alcuni paesi “amici” europei.
Il
trasformismo e l’avventurismo di Berlusconi, a sua volta, rappresentano
l’alter ego perfetto per giustificare e fornire motivi e forza a
questa politica, per rinfocolare i timori sui quali basare i propri
successi, così come avvenuto, in un contesto per ora ancora più
drammatico, in Grecia.
È sempre più curiosa e intrigante, tra
l’altro, l’affinità tra le tesi di Berlusconi, anche lui ormai ispirato
dalle teorie espansiviste e di sovranità monetaria di Krugman e quelle
antigermanocentriche dei neoantimperialisti smemorati.
Non
appena sarà pubblicato il manifesto di Monti, sulla falsa riga dei miei
precedenti articoli di un anno fa sull’Unione Europea, approfondirò
tutti questi aspetti.
di Giuseppe Germinario
Il Gran Maestro
Se
un merito va riconosciuto a Mario Monti è di contribuire ad una
maggiore chiarezza del dibattito; ha scelto il suo avversario, Silvio
Berlusconi, il suo referente, Bersani, quest’ultimo con un Vendola più
addomesticato; ha definito il perimetro entro cui si schiereranno e si
formeranno le forze politiche a lui affini; ha tracciato gli
orientamenti che ispirano il suo “Cambiare l’Italia, Riformare l’Europa: Agenda per l’impegno comune”
di prossima pubblicazione. La conferenza stampa di fine anno tenutasi
oggi, domenica 23 dicembre, è stata esemplare nella sua semplicità e
incisività. Come al solito i commenti a caldo dei pontefici
dell’informazione, a cominciare da Mentana, hanno piegato il senso delle
sue dichiarazioni alla logica della quale è vittima la quasi totalità
del giornalismo italiano: la riduzione al semplice scontro di fazioni
partitiche nel palcoscenico politico e, quindi, l’implicito sostegno
tattico allo schieramento di Casini e Montezemolo.
In realtà Monti ha detto molto di più e con un respiro che va al di là dell’attuale scadenza elettorale:
- Non
autorizza nessuno ad utilizzare indebitamente il suo nome;
l’avvertimento a Casini e ad alcune componenti del PDL mi pare evidente.
- La
società civile è diffidente nei confronti dei politici professionisti
compresi quelli che intendessero sostenere il suo programma
- Piuttosto che tra destra e sinistra il discrimine della lotta politica dovrebbe essere l’Europa e il rinnovamento
- Nei
tre schieramenti classici e ormai antiquati ci sono cespugli
europeisti, innovatori e liberali che andrebbero raccolti sulla base del
nuovo discrimine
Il Professore, quindi, più che
partecipare e tentare di vincere queste elezioni cerca di orientare il
dibattito della campagna elettorale in modo che i partiti in qualche
maniera rinuncino parzialmente alla demagogia necessaria a raccogliere
voti e alleanze talmente eterogenei da inficiare però la fluidità
successiva dell’azione politica; Monti, infatti, ha già più volte
dichiarato di non farsi troppe illusioni sulla frantumazione dei
partiti prima delle elezioni. Dal PDL si aspetta poche defezioni
importanti, meno del numero di dita delle mani. Paradossalmente,
aggiungo io, potrebbe conseguire qualche successo più rilevante dal
versante meno ostile, il PD. Sulla base del risultato elettorale, poi,
si porrà il problema della coalizione, di chi sarà il Capo di Governo e
di quale ruolo svolgerà Monti stesso da una parte e della
destrutturazione degli attuali partiti dall’altra. L’altra
preoccupazione è quella di circoscrivere il più possibile la campagna
elettorale di Berlusconi il quale con i suoi argomenti, in caso di
successo, rischia di innescare, contro le sue stesse intenzioni, una
politicizzazione del processo di disgregazione dell’Unione Europea
attraverso la crisi di una delle due correnti politiche europee, il
Partito Popolare Europeo; da qui il senso della recente trappola
perpetrata a Bruxelles dal PPE con l’incoronazione di Monti e il
processo a Berlusconi.
Per tranciare in questo modo il dibattito
politico, il Presidente dimissionario deve ricorrere a sua volta a
delle forzature; deve discriminare tra chi sostiene o ritiene
compatibile il suo manifesto ed è in possesso, quindi,
dell’attestazione di europeista ed innovatore; gli altri ne sono la
semplice negazione. Non esiste pertanto altra dinamica positiva che
l’attuale processo di Unione Europea; non esiste altro rinnovamento che
il montismo.
Ma Monti, così come l’attuale Unione Europea, in realtà ha molto poco da offrire.
Prospettando
una unione da costruire sulle macerie delle nazioni e degli stati
nazionali, ignora del tutto i lunghi processi identitari necessari a
creare una comunità, uno stato rappresentativo e una nazione quale
dovrebbe essere l’Europa nel caso riuscisse a realizzarsi e quali
continuano ad essere gli attuali o almeno quelli che riescono a
preservare la propria sovranità. L’Europa, agli occhi di Monti, sarebbe
un popolo senza nazione, fatto di persone, consumatori e cittadini
muniti di diritti e doveri formali. La sua costituzione sarebbe il
frutto di una combinazione accorta dell’azione volontaria di élites e
tecnocrati e di una rappresentazione dei cittadini di tipo parlamentare
costruita attraverso un semplice atto di volontà di gruppi elitari.
L’amalgama e lo sviluppo, invece, sarebbero garantiti dalla costruzione
di un mercato continentale libero a sua volta integrato con quello
americano e, in qualche momento di là da venire, mondiale.
Una
impostazione che evita opportunamente ogni velleità di distinzione di
interessi e di identità da quella dell’attuale potenza dominante
americana e ogni possibilità di seria e trasparente trattativa tra
gruppi e stati nazionali tesa a creare strutture organizzative,
statuali, di impresa, culturali necessari per la formazione di blocchi
sociali e popoli con una loro peculiarità.
Una visione simile,
sia pure allo stato embrionale, apparteneva al De Gaulle degli anni
’60, quando propugnava un processo unitario fondato sugli stati
nazionali e sull’integrazione verticale dei settori contestuale alla
creazione del mercato europeo, piuttosto che sulla mera
liberalizzazione dei mercati e sul continuo frazionamento delle
imprese, sull’anomia culturale condita di retorica; la gestione di
questi processi, però, comporta l’esistenza di gruppi nazionali forti,
consapevoli degli interessi nazionali ma disposti a trattare con i
vicini di casa e a delimitare l’azione rispetto alle altre potenze
mondiali. Una condizione antitetica rispetto alla situazione europea
scaturita dalla seconda guerra mondiale, proseguita nel bipolarismo,
protrattasi ulteriormente, con qualche illusione fugace, con la caduta
dell’URSS.
Quello che Monti ha da offrire è, più che una
speranza, l’accettazione di una pesante regressione in alternativa ad
una regressione ancora più marcata in caso di tradimento del suo verbo;
l’occupazione tutt’al più delle nicchie lasciate libere dalle forze
dominanti. La recente vendita di Avio aereonautica alla General
Electric, il taglio integrale per il secondo anno consecutivo dei
finanziamenti sulla ricerca aerospaziale, i continui attacchi ad ENI e
Finmeccanica, le scelte di politica estera e di difesa, la nuova enfasi
riconosciuta alle scelte di Marchionne, esempi tra i tanti, lasciano
intravedere quale sia la consistenza di queste nicchie e quali saranno
le dinamiche di un libero mercato ridotto a campo di azione di lobby e
gruppi organizzati nascosti dietro l’ideologia del consumatore e
produttore individuale. Lascia intravedere, altresì, quali saranno le
forze suscettibili di sostenere l’impulso “riformatore” di Mario Monti: i
beneficiari di queste nicchie e i settori aggrappati alla possibilità
di salvaguardare parte delle proprie prerogative parassitarie. Qualche
accenno a questo arrembaggio l’abbiamo già visto nella gestione dei
processi di liberalizzazione e nelle modalità di riorganizzazione della
spesa pubblica avviati quest’anno. Sino ad ora Monti ha avuto buon
gioco nell’accusare i partiti come zavorra antiriformatrice; il groppo
ha invece un potere e una inerzia ben più rilevanti, radici ben
presenti nel suo stesso governo tecnico “riformatore”.
Un
dibattito simile ebbe luogo in Italia nell’immediato dopoguerra, ma in
un contesto diverso. L’Italia di allora sviluppò rapidamente il settore
tessile, ma con aspri scontri interni e una politica dirigista
sostenuta dal piano Marshall riuscì a sviluppare anche una notevole
industria meccanica e avviare uno sviluppo importante anche se
complementare. Gli americani vincitori, allora, dovevano creare un
blocco espansivo capace di alimentare la propria forza, offrire sbocchi
alla propria capacità industriale e finanziaria, fronteggiare la
minaccia sovietica, questo creò gli spazi necessari allo sviluppo e
all’emergere di figure come Mattei. Oggi, al paese, viene richiesto un
sacrificio di natura ben diversa e con più invitati alla condivisione
delle spoglie, compresi alcuni paesi “amici” europei.
Il
trasformismo e l’avventurismo di Berlusconi, a sua volta, rappresentano
l’alter ego perfetto per giustificare e fornire motivi e forza a
questa politica, per rinfocolare i timori sui quali basare i propri
successi, così come avvenuto, in un contesto per ora ancora più
drammatico, in Grecia.
È sempre più curiosa e intrigante, tra
l’altro, l’affinità tra le tesi di Berlusconi, anche lui ormai ispirato
dalle teorie espansiviste e di sovranità monetaria di Krugman e quelle
antigermanocentriche dei neoantimperialisti smemorati.
Non
appena sarà pubblicato il manifesto di Monti, sulla falsa riga dei miei
precedenti articoli di un anno fa sull’Unione Europea, approfondirò
tutti questi aspetti.
di Giuseppe Germinario
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